Cass. civ. Sez. II, Sent., 30-08-2012, n. 14714

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/




Svolgimento del processo

Con citazione del 14/2/1974 L.A. conveniva in giudizio D. C.R. e De.Bl.Ar. per sentirli condannare al pagamento della somma di lire 12.000.000 a titolo di risarcimento danni per inadempimento della promessa di vendita di un terreno per il quale aveva già pagato l’intero prezzo di lire 1.800.000, ma che la proprietaria D.C. aveva venduto ad altri; il D.B. era convenuto quale sottoscrittore della promessa nella veste di incaricato della proprietaria.

Nel corso del giudizio decedevano entrambi i convenuti e la causa proseguiva nei confronti dei loro eredi.

Con sentenza non definitiva 24/2/1983, parzialmente modificata dalla C.A. di Lecce con sentenza 1/6/1985, passata in giudicato, era dichiarato il difetto di legittimazione passiva del D.B. (e quindi dei suoi eredi) e gli eredi D.C. erano condannati alla restituzione del prezzo pagato dal L..

La causa proseguiva per l’accertamento del danno da mancato guadagno e all’uopo era disposta ed espletata CTU, successivamente aggiornata e poi dichiarata nulla dal GOA per violazione del contraddittorio.

All’esito di nuova CTU il Tribunale, con sentenza 10/12/2002 condannava gli eredi D.C., in proporzione delle rispettive quote ereditarie, a pagare a L.A., a titolo di risarcimento per mancato guadagno, la somma di Euro 40.302,11 oltre interessi e spese; l’importo era calcolato in base alla differenza tra il prezzo pattuito con il preliminare e il maggior valore del suolo al momento della proposizione della domanda di risarcimento; la differenza era stata, quindi, rivalutata fino alla data della sentenza; condannava il L. al pagamento delle spese processuali a favore degli eredi D.B..

Il L. proponeva appello lamentando:

– che non era stato rispettato, nella liquidazione del danno, il criterio enunciato nella sentenza non definitiva, che era individuato nella differenza tra il valore del suolo al momento del preliminare e il valore attuale del suolo;

– la mancata liquidazione di alcune componenti dei danno da lucro cessante;

– alcune inesattezze della CTU;

– l’insufficiente liquidazione delle spese a proprio favore e la mancata compensazione delle spese nei confronti degli eredi D. B..

Tutte le parti si costituivano anche nel giudizio di appello e la Corte di Appello di Lecce con sentenza del 21/6/2005 rigettava l’appello del L., rigettava l’appello incidentale degli eredi D.C., condannava il L. a pagare alle eredi D.C. e agli eredi D.B. le spese del grado di appello.

La Corte di Appello rilevava:

che la sentenza non definitiva era passata in giudicato solo quanto all’accertamento della mancanza di legittimazione passiva del D. B. (ed eredi) e quanto alla liquidazione del danno emergente, ma non con riferimento alla liquidazione del mancato guadagno secondo criteri che il giudice chiamato a pronunciare la sentenza definitiva era libero di individuare, anche di scostandosi da quelli in precedenza indicati;

che il criterio di liquidazione seguito dal primo giudice era corretto e conforme ai principi stabiliti dal giudice di legittimità (richiamava Cass. 7/2/1998 n. 1298);

– che, in particolare, per calcolare il danno per incremento di valore del bene non trasferito rispetto al prezzo pattuito non poteva farsi riferimento al valore attuale del bene, ma doveva essere fatto riferimento al valore del bene al momento della proposizione della domanda di risoluzione per inadempimento perchè in tale momento l’inadempimento diveniva definitivo, non potendo più essere richiesto l’adempimento e diventando, quindi, irrilevanti le vicende successive;

– che le censure alla CTU erano infondate anche con riferimento al calcolo della superficie edificabile, coerente non solo con i dati di comune esperienza, ma anche con le indicazioni del piano particolareggiato approvato il 2/4/1994; egualmente corretto era il calcolo del valore del suolo fondato sulla media tra il metodo sintetico e il metodo della cubatura;

– che correttamente il L. era stato condannato, in quanto soccombente nei confronti degli eredi D.B., a pagare agli stessi le spese del giudizio;

– che la censura sull’insufficienza della liquidazione delle spese processuali in favore del L. e a carico degli eredi D.C. era generica e infondata nel merito, mancando censure sulle singole voci e risultando la liquidazione in linea con le tariffe professionali.

L.A. propone ricorso affidato a otto motivi e deposita memoria.

Resistono con distinti controricorsi sia le intimate Lu.Il. e Lu.Ma.Ce. (eredi D.C.), sia gli intimati D.B. A., V., L., N. e M. (eredi D. B.); entrambe le parti controricorrenti depositano memoria.

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione di norme di diritto in relazione agli artt. 177, 277 e 279 c.p.c. e il vizio di motivazione. Il ricorrente sostiene:

– che secondo la corretta interpretazione dell’art. 279 c.p.c. i provvedimenti assunti con la sentenza non definitiva, avendo natura decisoria, non possono revocati o modificati con la sentenza definitiva, ma possono solo formare oggetto di impugnazione e che aveva sicuramente natura decisoria il provvedimento con il quale era disposta la prosecuzione del giudizio per l’ammontare del danno (da mancato guadagno) stabilendosi di espletare una CTU al fine di accertare il valore del suolo al momento della stipula del contratto e ai momento attuale, criterio invece disatteso con la sentenza definitiva che aveva fatto riferimento al valore del suolo al momento della proposizione della domanda;

– che, ove si dovesse attribuire alla statuizione valore di ordinanza revocabile, comunque, il provvedimento di revoca sarebbe nullo per totale mancanza di motivazione;

– che il Tribunale, con la sentenza non definitiva non aveva solo esaminato la questione della legittimazione passiva e del risarcimento del danno emergente, ma aveva altresì stabilito il modus procedendi per l’accertamento del lucro cessante.

1.1 Il motivo è infondato in ogni sua parte.

Occorre premettere, in linea di principio, che, qualora in una sentenza non definitiva oltre a statuizioni di carattere decisorio siano contenute anche disposizioni meramente ordinatorie od istruttorie, esse non possono formare oggetto di gravame con la sentenza non definitiva, perchè resta impregiudicata la futura decisione sulle domande e sulle questioni per le quali è stato disposto il prosieguo del giudizio (cfr. Cass. 16/2/2000 n. 1721).

Ne consegue che sulle statuizioni a carattere istruttorio della sentenza non definitiva non può formarsi un giudicato per mancata riserva di impugnazione.

Nella specie, con la sentenza non definitiva non era stata assunta alcuna decisione di merito sulla spettanza del danno da lucro cessante, ma si era semplicemente stabilito che fosse disposta una consulenza tecnica per stabilire il valore del suolo al momento della stipula del preliminare e il valore del suolo al momento attuale, ossia una semplice attività istruttoria, ancorchè orientata verso determinati criteri (relativi all’attività richiesta al CTU) preparatori della futura decisione, ma che non snaturano la natura meramente ordinatoria ed istruttoria della statuizione, come tale sempre revocabile o modificabile da parte del collegio che la ha emessa e, come detto, insuscettibile di impugnazione con la sentenza non definitiva che la contiene, perchè tale statuizione non pregiudicava (quali che fossero le ragioni poste a sostegno della necessità di ulteriore istruzione come sopra orientata) la futura decisione sulle domande e sulle questioni per le quali era stato disposto il prosieguo del giudizio (cfr., ex plurimis, Cass. 29/5/1972 n. 1704, 19/10/1974 n. 2944, 3/1/1996 n. 19, Cass. 16/2/2000 n. 1721).

In conclusione, la decisione, assunta con la sentenza definitiva, di applicare criteri di liquidazione del danno da lucro cessante parzialmente diversi rispetto a quelli indicati al CTU (ma non oggetto di decisione) con il provvedimento istruttorio contenuto nella sentenza non definitiva costituisce una semplice modifica del provvedimento istruttorie che, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, è adeguatamente motivata con l’evidenziata necessità di determinare il danno con riferimento al momento in cui l’inadempimento diviene definitivo, ossia al momento delle proposizione della domanda, secondo i principi costantemente affermati da questa Corte, come più dettagliatamente sarà illustrato al successivo punto.

2. Con il secondo motivo la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione di norme di diritto in relazione agli artt. 177, 277 e 279 c.p.c. e il vizio di motivazione. Il ricorrente sostiene:

– che il G.I. aveva disposto l’aggiornamento dei valori calcolati dal CTU sulla base dei criteri indicati con la sentenza non definitiva;

– che invece il successivo G.I. (il GOA della sezione stralcio) aveva annullato le due precedenti CTU e mutato il quesito con ciò violando il giudicato Interno.

2.1 Il motivo è infondato per le ragioni già esposte, ossia perchè non sussisteva un vincolo di immodificabilità della statuizione istruttoria assunta con la sentenza non definitiva posto che le ordinanze emesse nel corso del giudizio, avendo efficacia del tutto provvisoria e non comportando alcun effetto preclusivo, sono sempre revocabili e modificabili, anche implicitamente, con la sentenza che definisce il merito della controversia, fatte salve le limitazioni ex art. 177 c.p.c. (Cass. 4/8/2000, n. 10251; 31/5/2005, n. 11580; Cass. 24/1/2007 n. 1596).

3. Con il terzo motivo il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione di norme di diritto in relazione agli artt. 1223 e 1453 c.c. e il vizio di motivazione. Il ricorrente sostiene che:

– il limitare il risarcimento del danno alla differenza tra il valore del bene (che avrebbe dovuto essere trasferito) al momento del preliminare e il valore al momento al momento della proposizione della domanda penalizzerebbe la parte attrice premiando la parte inadempiente;

– che il prezzo pagato per l’acquisto era stato restituito solo dopo 27 anni;

– che la liquidazione non teneva conto del mancato incremento patrimoniale di esso ricorrente;

– che il criterio di liquidazione del danno da lucro cessante fondato sulla differenza tra il prezzo pattuito e il valore attuale era già stato affermato con la sentenza 15/5/1997 n. 4280 di questa Corte, così come nella precedente sentenza 5/4/1990 n. 2802;

– che il criterio fatto proprio dalla Corte di Appello di Lecce viola l’art. 1223 c.c. per il quale il risarcimento deve comprendere sia la perdita che il mancato guadagno che siano conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento;

– che il pregiudizio derivante dalla mancata acquisizione di un bene deve; essere risarcito con l’equivalente in denaro determinato con riferimento al momento in cui avviene la liquidazione (al riguardo richiama Cass. 29/4/2003 n. 6651 e Cass. 28/7/1992 n. 9043).

3.1 Il motivo è manifestamente infondato e in contrasto con i principi affermati da questa Corte da circa un ventennio.

Infatti, già nel 1994 questa Corte, a sezioni unite (Cass. SS.UU. 25.7.1994 n. 6938) affermava che, in caso di risoluzione per inadempimento del preliminare dei promittente venditore la differenza (tra il valore commerciale dell’immobile e il prezzo convenuto) si calcola con riferimento al momento in cui, per effetto della proposizione della domanda di risoluzione, l’inadempimento è divenuto definitivo e si rivaluta, al fine di compensare gli effetti della svalutazione monetaria verificatasi nelle more del giudizio (richiamando anche Cass. 6/2/1986, n. 747; Cass. 7/5/1982, n. 2850).

L’esposto orientamento, al quale questa Corte ritiene di dovere dare continuità, è stato, poi, costantemente seguito negli anni successivi da Cass. 7/2/1998 n. 1298, Cass. 17/11/2003 n. 17340 e Cass. 29/11/2004 n. 22384 e, infine, ancora da Cass. 10/10/2008 n. 25016 che, nel confermare che il risarcimento da lucro cessante deve essere calcolato nella differenza tra il prezzo d’acquisto pattuito al momento della stipula del preliminare ed il maggior valore commerciale acquisito dall’immobile al momento in cui l’inadempimento del promittente venditore è diventato definitivo, ha ulteriormente specificato che, nel caso in cui il promettente venditore prima della stipula del definitivo, si spogli della proprietà del bene promesso in vendita attraverso un atto opponibile al promissario acquirente perchè trascritto anteriormente alla trascrizione della domanda di esecuzione in forma specifica dell’obbligo di contrarre, il momento in cui l’inadempimento diventa definitivo deve essere identificato nella trascrizione dell’atto di vendita a terzi dell’immobile già promesso in vendita (tale diversa, anteriore, decorrenza, comunque, non forma oggetto di contestazione nel presente giudizio).

La giurisprudenza richiamata dal ricorrente a sostegno della tesi per la quale la differenza di valore dovrebbe essere calcolata al momento della liquidazione e non con riferimento al momento della proposizione della domanda, non è assolutamente pertinente alla fattispecie della domanda di risarcimento danni conseguente alla risoluzione del preliminare per inadempimento (ossia alla domanda nella specie proposta), perchè trattasi di giurisprudenza relativa al diverso caso di inadempimento di obblighi di fare nei quali il risarcimento riveste natura e svolge funzione sostitutiva della prestazione mancata (v. ad esempio il caso di cui a Cass. 29/4/2003 n. 6651, pure richiamata dal ricorrente, che, tuttavia, si riferiva all’inadempimento di un legato con il quale era stato imposto l’obbligo di vendere, al miglior prezzo, l’appartamento che ne costituiva l’oggetto, e a distribuirne il ricavato tra i legatari) e non al caso della risoluzione del contratto per inadempimento che comporta il venir meno degli effetti del contratto con effetto retroattivo e, dunque, anche il venir meno dell’obbligo di trasferire il bene, posto che ai sensi dell’art. 1453 c.c., u.c. l’inadempiente non può neppure più adempiere la propria prestazione.

4. Con il quarto motivo il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione di norme di diritto in relazione all’art. 194 c.p.c., artt. 90 e 91 disp. att. c.p.c. con riferimento alla decisione del giudice di primo grado di ritenere nulle due precedenti CTU. Il ricorrente sostiene:

– che il giudice di primo grado non doveva dichiarare nulle due CTU per mancato avviso alle parti dell’inizio delle operazioni peritali perchè l’avviso fu dato e, comunque, non avrebbe dovuto essere dato un nuovo avviso per le nuove indagini a seguito della richiesta di chiarimenti;

– che la Corte di Appello, malgrado lo specifico motivo di appello, non aveva motivato sull’annullamento delle precedenti CTU. 4.1 Il motivo è inammissibile sia perchè (quanto al vizio di omessa motivazione) dalla lettura della sentenza appellata non risulta che sia stato proposto specifico motivo di appello sulla declaratoria di nullità delle consulenze nè è riportato nel motivo di ricorso il motivo di appello, sia per carenza di interesse conseguente alla manifesta irrilevanza della censura: il giudice di appello, infatti, ritenendo infondato il criterio di liquidazione sostenuto dall’appellante e fatto proprio dalle due precedenti consulenze, ne ha disatteso i contenuti così che non era tenuto a motivare sulla legittimità o illegittimità della declaratoria di nullità pronunciata dal primo giudice, trattandosi di pronuncia che, concernendo consulenza fondata su criteri non condivisi dal giudicante, era totalmente irrilevante.

5. Con il quinto motivo il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione di norme di diritto in relazione agli artt. 61, 116 e 191 c.p.c., la nullità della sentenza e il vizio di motivazione.

Il ricorrente sostiene:

– che in sede di appello era specificamente censurata la CTU sulla base della quale il primo giudice aveva liquidato il danno;

– che in particolare era stata censurata la determinazione della superficie edificabile, calcolata al 30%, ma variabile tra il 50% e oltre il 65%;

– che il fondo non aveva ricevuto una valutazione attuale, secondo il criterio fissato nella sentenza non definitiva;

che la domanda di acquisto del fondo era superiore all’offerta in quanto localizzato in posizione privilegiata;

– che il valore reale dell’area era superiore a quello indicato dal CTU e che non era coerente una stima di lire 50.000.000 a fronte di acquisti per lire 200.000 a mq., mentre non era convincente (tale il termine usato) la sentenza della Corte di Appello che asserisce, "senza darne prova" (altra espressione testuale) la correttezza del calco ottenuto con una media aritmetica tra il metodo sintetico comparativo e il metodo della cubatura;

5.1 il motivo è manifestamente infondato.

La censura relativa alla violazione degli artt. 61, 116 e 191 c.p.c. è inammissibile in quanto non è spiegato per quale motivo queste norme, che riguardano, rispettivamente, la possibilità per il giudice di farsi assistere da un consulente scelto tra le persone iscritte negli albi, la valutazione delle prove secondo il prudente apprezzamento e la nomina del consulente, sarebbero violati, nè risulta dagli atti alcuna violazione.

Con riferimento alla motivazione, alla considerazione delle censure alla CTU (che si dice omessa) e alla valutazione del giudice, occorre osservare:

– che sulla mancata valutazione del fondo al momento della decisione il giudice, come detto, ha adeguatamente motivato e in conformità alla costante giurisprudenza di questa Corte;

– che sul calcolo della superficie edificabile il giudice di appello ha ampiamente motivato sia con riferimento ai dati di comune esperienza sia con riferimento alle indicazioni del piano particolareggiato approvato e, quindi, non sussiste il vizio di motivazione, nè il giudice era tenuto a condividere le diverse indicazioni del consulente tecnico di parte appellante; inoltre la censura appare del tutto generica, in quanto sostiene che l’indice di edificabilità non sarebbe quello calcolato dal CTU, ma dovrebbe variare da oltre il 50% a oltre il 65% secondo uno "studio attento dei periodi e delle leggi tecniche unitamente agli strumenti urbanistici", senza peraltro indicare quali sarebbero i periodi, le leggi tecniche, gli strumenti urbanistici e in quale parte e misura la CTU da essi si sarebbe discostata; in questa parte il motivo è anche inammissibile per mancanza di specificità;

– che in ordine ai criteri utilizzati per la determinazione del valore si deve premettere che il giudice non è tenuto a fornire prove (come pare ritenere il ricorrente addebitando alla Corte di non avere dato una prova), ma motivazioni e che le motivazioni inficiano la sentenza non quando non sono "convincenti", ma quando sono omesse, insufficienti e contraddittorie. Nel merito la censura è inammissibile per la sua estrema genericità perchè non specifica da dove sarebbe tratto il dato relativo agli acquisti per lire 200.000 a mq., a quale periodi si riferirebbe, in quale misura contrasterebbe con la valutazione del CTU, quale sarebbe il dato risultante dalla media aritmetica tra metodo sintetico e metodo della cubatura, se diverso da quello ricavato dal CTU e per quale motivo questo metodo non avrebbe dovuto essere seguito; di conseguenza non è neppure possibile apprezzare la rilevanza della censura di vizio di motivazione.

6. Con il sesto motivo il ricorrente deduce il vizio di motivazione con riferimento all’art. 91 c.p.c..

Il ricorrente lamenta la mancata compensazione delle spese del primo grado nel rapporto processuale che lo vedeva contrapposto agli eredi D.B. e sostiene che, siccome non vi fu mai stato un provvedimento di estromissione dei predetti dal giudizio, doveva ritenersi che la loro presenza era necessaria, come infatti lo era perchè se non fossero stati convenuti in giudizio non vi sarebbe mai stata la prova dell’esistenza della forma scritta del mandato a vendere; la sentenza di appello, invece, non aveva chiarito, in relazione agii evidenziati profili, la ragione della soccombenza del L. nei confronti dei D.B..

6.1 Il motivo è manifestamente infondato: il D.B. non era stato convenuto in giudizio per l’esibizione del mandato a vendere, ma perchè fosse condannato in solido con la promittente venditrice, nè risulta che tale domanda sia mai stata rinunciata; pertanto dal mancato accoglimento della domanda del L. nei confronti del D. B. e dei suoi eredi discende la soccombenza correttamente ritenuta dalla Corte di Appello.

7. Con il settimo motivo il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione del combinato disposto di cui all’art. 91 c.p.c. in relazione alla L. n. 794 del 1942, art. 24, al D.M. n. 794 del 1994 e alla L. n. 36 del 1934, art. 59, la violazione della L. n. 794 del 1942, art. 13 e il vizio di motivazione perchè, pur essendo stata dedotta come motivo di appello la mancanza di motivazione in ordine alla liquidazione delle spese processuali a suo favore per importi inferiori alla richiesta di Euro 44.314,11, la Corte di Appello ha disatteso la doglianza per mancanza di specificità, mentre il primo giudice, liquidando forfetariamente, non aveva consentito di verificare l’osservanza dei limiti minimi tariffar e aveva violato l’obbligo di dare giustificazione delle riduzioni operate.

7.1 Il motivo è infondato perchè il giudice di appello ha rilevato che il motivo di appello era mancante di specificità difettando censure su singole voci e che la liquidazione del primo giudice era in linea con le tariffe professionali; pertanto la motivazione sussiste; per dedurre la violazione dei minimi tariffar l’appellante avrebbe dovuto dedurre che, anche calcolando al minimo le singole prestazioni, la liquidazione sarebbe stata superiore a quanto liquidato dal primo giudice e negli stessi termini la censura doveva essere formulata anche in questo giudizio di cassazione; infatti, il potere-dovere del giudice d’appello presuppone, comunque, che qualora la censura riguardi la violazione dei minimi tariffari, la parte indichi gli importi nonchè le singole voci riportate nella nota spese, tenuto conto che: – che tale onere dell’appellante vale a configurare l’ambito del "devolutum" in base ad una mera allegazione di merito, secondo la funzione propria del giudizio di appello (Cass. 9/9/2009 n. 19419);

che non è ammissibile, per carenza di interesse, censurare tale liquidazione ove non sia stato specificamente comprovato (ossia con l’indicazione delle specifiche prestazioni e degli scaglioni applicabili) che la liquidazione globale arreca un pregiudizio alla parte vittoriosa, in quanto attributiva di una somma inferiore ai minimi inderogabili, essendo quindi irrilevante la mera allegazione della violazione dei criteri per la liquidazione delle spese (Cass. 8/3/2007 n. 5318).

8. Con l’ottavo motivo il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione di norme di diritto in relazione all’art. 91 c.p.c. e alla L. n. 794 del 1942, art. 24 e il vizio di motivazione perchè il giudice di appello lo ha condannato al pagamento delle spese del grado di appello, malgrado avesse rigettato anche l’appello incidentale delle sue controparti e così trascurando di considerare la soccombenza di queste ultime.

8.1 Il motivo è infondato perchè l’appellante è risultato integralmente soccombente nel giudizio da appello da lui proposto e pertanto non è violato il principio di cui all’art. 91 c.p.c. per il quale il giudice deve condannare il soccombente alle spese di lite.

Per quanto riguarda la soccombenza delle promittenti venditrici in ordine al loro appello incidentale (fondato sull’asserita previsione di una caparra e l’asserita limitazione del danno al doppio della caparra)dal complesso della motivazione (su cinque pagine di motivazione solo 4 righe sono dedicate al rigetto dell’appello incidentale; nessuna attività istruttoria risulta espletata in ordine ai fatti dedotti dalle appellanti incidentali) emerge come chiarezza che il giudice di appello ha implicitamente valutato come prevalente la soccombenza dell’appellante principale e la valutazione discrezionale della soccombenza prevalente è rimessa alla valutazione discrezionale del giudice di merito.

Pertanto non sussiste violazione delle norme processuali in tema di responsabilità delle parti per le spese processuali e non sussiste il vizio di motivazione in quanto la sentenza di appello non confiigge con i principi costantemente affermati da questa Corte secondo i quali:

a) in tema di spese processuali, la facoltà di disporle la compensazione tra le parti rientra nel potere discrezionale del giudice di merito, il quale non è tenuto a dare ragione con una espressa motivazione del mancato uso di tale sua facoltà, con la conseguenza che la pronuncia di condanna alle spese, anche se adottata senza prendere in esame l’eventualità di una compensazione, non può essere censurata in cassazione, neppure sotto il profilo della mancanza di motivazione (Cass. S.U. 15/7/2005 n. 14989; Cass. 23/2/2012 n. 2730);

b) in materia di spese processuali, l’identificazione della parte soccombente è rimessa al potere decisionale del giudice del merito, insindacabile in sede di legittimità, con l’unico limite di violazione del principio per cui le spese non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa (Cass. n. 11537/02; Cass. n. 13229/011).

9. In conclusione il ricorso deve essere rigettato con la condanna della società ricorrente al pagamento delle spese liquidate come in dispositivo a favore di ciascuna delle due parti (plurisoggettive) controricorrenti.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a pagare le spese di questo giudizio di questo giudizio di cassazione che liquida in Euro 3.200,00 di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali e accessori di legge per ciascuna delle due parti controricorrenti.

Così deciso in Roma, il 7 giugno 2012.

Depositato in Cancelleria il 30 agosto 2012
Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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