Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 05-09-2012, n. 14911

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Svolgimento del processo

Con ricorso, depositato l’1/7/02 al giudice del lavoro del Tribunale di Bari, D.L.F. propose opposizione al verbale di accertamento effettuato il 24/3/95 dal servizio di vigilanza dell’Inps per omissione contributiva inerente la posizione di A. P., assumendo che con quest’ultimo era intercorso solo un rapporto di associazione in partecipazione e non di lavoro subordinato, come sostenuto erroneamente dall’Istituto previdenziale.

Il Tribunale adito rigettò la domanda in opposizione dopo aver ritenuto che il rapporto in esame era riconducibile allo schema del contratto di lavoro subordinato.

A seguito di impugnazione del D.L., la Corte d’appello di Bari – sezione lavoro, con sentenza del 16/4 – 11/5/07, ha respinto il gravame e confermato la decisione appellata dopo aver condiviso l’iter argomentativo del primo giudice in ordine alla rilevata insussistenza del dedotto rapporto di associazione in partecipazione alla luce delle risultanze istruttorie.

Per la cassazione della sentenza propone ricorso il D.L., il quale affida l’impugnazione a tre motivi di censura. Resiste con controricorso l’Inps.

Motivi della decisione

1. Col primo motivo il D.L. censura l’impugnata sentenza per violazione e falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3. Il ricorrente parte dalla constatazione che le dichiarazioni rese il 10/3/95 dal lavoratore A.P. nel corso degli accertamenti ispettivi erano state utilizzate dalla Corte d’appello per la valutazione delle altre prove, tanto che nella stessa sentenza di primo grado si era dato atto della loro allegazione al verbale dell’Inps; senonchè, aggiunge il ricorrente, l’Inps, pur ritualmente citato, non si era costituito nel giudizio d’appello, per cui nemmeno la sua documentazione era stata acquisita al fascicolo di secondo grado, col risultato che la Corte d’appello aveva finito per porre a fondamento della propria decisione un mezzo di prova non proposto dalle parti.

Viene, quindi, formulato il seguente quesito di diritto: "Dica la Suprema Corte se sia in contrasto con il principio della disponibilità della prova di cui all’art. 115 c.p.c. la valutazione da parte del giudice di documenti non prodotti dalle parti". Il motivo è infondato.

Invero, come hanno avuto modo di statuire le sezioni unite di questa Corte (Cass. Sez. Un. n. 28498 del 23/12/2005), "nel sistema processualcivilistico vigente – in specie dopo il riconoscimento costituzionale del principio del giusto processo – opera il principio di acquisizione della prova, in forza del quale un elemento probatorio, una volta introdotto nel processo, è definitivamente acquisito alla causa e non può più esserle sottratto, dovendo il giudice utilizzare le prove raccolte indipendentemente dalla provenienza delle stesse dalla parte gravata dell’onere probatorio.

Ne consegue che la parte che nel corso del processo chieda il ritiro del proprio fascicolo ha l’onere di depositare copia dei documenti probatori che in esso siano inseriti, onde impedire che qualora essa, in violazione dei principi di lealtà e probità, ometta di restituire il fascicolo con i documenti in precedenza prodotti, risulti impossibile all’altra parte fornire, anche in sede di gravame, le prove che erano desumibili dal fascicolo avversario". Con la stessa decisione le Sezioni unite hanno, poi, precisato che "l’appellante è tenuto a fornire la dimostrazione delle singole censure, atteso che l’appello, non è più, nella configurazione datagli dal codice vigente, il mezzo per passare da uno all’altro esame della causa, ma una "revisio" fondata sulla denunzia di specifici "vizi" di ingiustizia o nullità della sentenza impugnata.

Ne consegue che è onere dell’appellante, quale che sia stata la posizione da lui assunta nella precedente fase processuale, produrre, o ripristinare in appello se già prodotti in primo grado, i documenti sui quali egli basa il proprio gravame o comunque attivarsi, anche avvalendosi della facoltà, ex art. 76 disp. att. cod. proc. civ., di farsi rilasciare dal cancelliere copia degli atti del fascicolo delle altre parti, perchè questi documenti possano essere sottoposti all’esame del giudice di appello, per cui egli subisce le conseguenze della mancata restituzione del fascicolo dell’altra parte (nella specie rimasta contumace), quando questo contenga documenti a lui favorevoli che non ha avuto cura di produrre in copia e che il giudice di appello non ha quindi avuto la possibilità di esaminare".

Orbene, nel caso di specie la Corte d’appello ha spiegato, con motivazione esente da vizi di natura logico-giuridica, come tale insindacabile in cassazione, le ragioni di condivisione del giudizio del primo giudice in merito alla inattendibilità della deposizione del teste A.P. per il contenuto contrastante delle dichiarazioni dal medesimo rese in corso di causa a fronte di quelle rilasciate inizialmente agli ispettori verbalizzanti, ai quali, nell’immediatezza dei rilievi, aveva riferito della natura subordinata e non autonoma del suo rapporto di lavoro col D.L., per cui deve dedursi che era ormai acquisita al giudizio la prova dell’esistenza delle suddette dichiarazioni di cui al verbale di accertamento degli ispettori dell’Inps; ne consegue che, in base al principio costituzionale del giusto processo e a quello processualistico dell’acquisizione della prova, principi richiamati nella suddetta decisione delle Sezioni unite, una volta che un elemento probatorio è definitivamente acquisito alla causa non può più essere sottratto all’esame del giudicante, il quale deve utilizzarlo indipendentemente dalla provenienza dello stesso dalla parte gravata dell’onere probatorio. Oltretutto, in base a quanto statuito nella summenzionata decisione delle sezioni unite di questa Corte, era onere dell’odierno ricorrente quello di sottoporre in visione al giudice d’appello il documento prodotto dall’avversario in prime cure se egli intendeva avvalersene per mettere in risalto eventuali elementi delle dichiarazioni rese agli ispettori dall’ A. atti a rivelare il loro supposto contrasto col contenuto della deposizione testimoniale resa in giudizio da quest’ultimo, indipendentemente dalla contumacia dell’ente previdenziale nel giudizio di secondo grado.

2. Col secondo motivo il ricorrente si duole, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, della violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., nonchè dell’omessa motivazione su un punto decisivo della controversia e della illogicità della motivazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5.

In particolare, il ricorrente lamenta l’omessa considerazione, da parte dei giudici d’appello, del fondamentale mezzo di prova rappresentato dal contratto di associazione in partecipazione intercorso con l’ A., nonostante che tale documento fosse stato regolarmente prodotto; inoltre, si duole del fatto che, contrariamente a quanto affermato dagli ispettori nel verbale di accertamento del 24/3/05 in ordine al luogo in cui era ubicato lo stabilimento in cui si svolgeva l’attività oggetto di causa, la Corte di merito ha ritenuto che l’immobile di cui all’atto di compravendita, intestato anche all’ A. e stipulato prima dell’associazione in partecipazione, era costituito, in realtà, da una casa di abitazione e non risultava essere adibito a sede dell’attività di falegnameria.

Ulteriore travisamento dei fatti che il ricorrente imputa alla Corte d’appello è quello di aver quest’ultima ritenuto, ad onta delle dichiarazioni rese dal teste A., che non vi era traccia di "effettiva corresponsione di utili "pro quota" o soprattutto di addebito di perdite all’ A. rispetto alla somma di L. 1.000.000 percepita mensilmente".

A conclusione del motivo è formulato il seguente quesito di diritto:

"Dica la Suprema Corte se l’omessa salutazione da parte del Giudice dei documenti prodotti dalle parti sia in contrasto con il principio sulla disponibilità di cui all’art. 115 c.p.c.; dica, inoltre, la Suprema Corte se l’affermazione di una circostanza in contrasto con il contenuto dei mezzi di prova proposti dalle parti integra la violazione dell’art. 116 c.p.c." Il motivo è infondato.

Invero, nel ravvisare la natura subordinata del rapporto di lavoro oggetto di causa, la Corte d’appello ha privilegiato e motivato adeguatamente, nell’ambito del suo libero convincimento, le risultanze degli altri elementi istruttori offerti dagli atti di causa, dopo aver condiviso il giudizio del Tribunale sulla accertata insussistenza dei tratti caratteristici del rapporto di associazione in partecipazione, quali l’obbligo di rendiconto periodico dell’assodante e l’esistenza per l’associato di un rischio d’impresa, mostrando implicitamente di voler disattendere il dato della formale redazione di un contratto di associazione in partecipazione.

Nell’ambito della libera e motivata valutazione del materiale istruttorio si inserisce anche la rilevanza attribuita dalla Corte di merito, in sintonia col ragionamento del primo giudice, alle prime dichiarazioni rese dall’ A. agli ispettori dell’Inps rispetto a quelle della sua successiva deposizione testimoniale, non supportata, quest’ultima, dalla dimostrazione di rendiconti annuali o dalla effettiva corresponsione di utili "pro quota" o da addebiti di perdite d’esercizio a carico del lavoratore. Nè può ritenersi sussistere un travisamento dei fatti nel giudizio di valutazione operato dalla Corte con riferimento alla ritenuta finalità abitativa, piuttosto che produttiva, dell’immobile menzionato nel verbale di accertamento ispettivo: invero, il giudicante, dopo aver esaminato l’atto di compravendita concernente tale immobile, ha desunto che si trattava di immobile adibito ad abitazione e non a falegnameria, mostrando, in tal modo, di dar rilievo, nell’esercizio del suo potere di valutazione degli atti di causa, al documento stilato dalle parti anzichè alla descrizione contenuta nel verbale di accertamento.

Non sussiste, pertanto, la lamentata violazione della norma di cui all’art. 115 c.p.c., in quanto il giudice d’appello ha fondato la decisione di conferma del rigetto dell’opposizione dei ricorrente sulla base di elementi di prova diversi da quelli indicati da quest’ultimo, così come non è configurabile la violazione dell’art. 116 c.p.c., atteso che il medesimo giudicante ha valutato le prove nel loro complesso secondo il suo prudente apprezzamento, esattamente come previsto da tale norma di rito.

E’ da ritenere egualmente infondato il lamentato vizio motivazionale in quanto, come è stato già affermato da questa Corte (Cass. sez. lav. n. 2272 del 2/2/2007), "il difetto di motivazione, nel senso di sua insufficienza, legittimante la prospettazione con il ricorso per cassazione del motivo previsto dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), è configurabile soltanto quando dall’esame del ragionamento svolto dal giudice del merito e quale risulta dalla sentenza stessa impugnata emerga la totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre ad una diversa decisione ovvero quando è evincibile l’obiettiva deficienza, nel complesso della sentenza medesima, del procedimento logico che ha indotto il predetto giudice, sulla scorta degli elementi acquisiti, al suo convincimento, ma non già, invece, quando vi sia difformità rispetto alle attese ed alle deduzioni della parte ricorrente sul valore e sul significato attribuiti dal giudice di merito agli elementi delibati, poichè, in quest’ultimo caso, il motivo di ricorso si risolverebbe in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti dello stesso giudice di merito che tenderebbe all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, sicuramente estranea alla natura e alle finalità del giudizio di cassazione. In ogni caso, per poter considerare la motivazione adottata dal giudice di merito adeguata e sufficiente, non è necessario che nella stessa vengano prese in esame (al fine di confutarle o condividerle) tutte le argomentazioni svolte dalle parti, ma è sufficiente che il giudice indichi (come accaduto nella specie) le ragioni del proprio convincimento, dovendosi in tal caso ritenere implicitamente disattese tutte le argomentazioni logicamente incompatibili con esse". Orbene, nella fattispecie in esame può tranquillamente affermarsi che, nel loro complesso, le valutazioni del materiale probatorio operate dal giudice d’appello appaiono sorrette da argomentazioni logiche e perfettamente coerenti tra di loro, per cui le stesse non meritano affatto le censure di omessa ed illogica disamina avanzate col presente motivo di doglianza.

3. Col terzo motivo il ricorrente denunzia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1321, 1322, 2094, 2549, 2552 e 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, nonchè l’insufficiente motivazione su un fatto decisivo della controversia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5.

Sostanzialmente il D.L. rimprovera alla Corte d’appello di non aver dato rilievo, ai fini della esatta qualificazione del rapporto di lavoro, al "nomen iuris" attribuito allo stesso dalle parti, preferendo dare, invece, importanza esclusiva alle dichiarazioni rese dal sig. A.P. in occasione dell’accertamento ispettivo.

Nel contempo, il ricorrente contesta la motivazione della sentenza nella parte in cui si asserisce che "durante il periodo interessato dal contratto di (asserita) associazione in partecipazione, tra le parti vi sia sempre stato in realtà un rapporto di lavoro subordinato". A base della contestazione il ricorrente fa osservare che le dichiarazioni rese dall’ A. in sede ispettiva erano fragili, mentre dalla sua deposizione resa in corso di causa, confortata dalla produzione del contratto, potevano ricavarsi elementi utili alla configurazione del rapporto come di associazione in partecipazione.

A conclusione del motivo il ricorrente pone il seguente quesito di diritto: "Dica la Suprema Corte se ai fini della qualificazione del rapporto di lavoro, nel valutare il complesso probatorio, in presenza di elementi compatibili con diverse figure contrattuali, va attribuita incidenza decisoria al nomen iuris attribuito dalle parti al negozio in quanto espressione dell’autonomia contrattuale; dica, inoltre, se elemento distintivo del contratto di associazione in partecipazione è l’assunzione del rischio a carico dell’associato col quale è compatibile la previsione di una partecipazione del medesimo agli utili ed alle perdite dell’attività pur col riconoscimento, a titolo di acconto, di un compenso fisso sganciato dai parametri di cui all’art. 36 Cost., salvo conguaglio finale; dica ancora, la Suprema Corte se elemento distintivo ed essenziale che caratterizza il contratto di lavoro subordinato è costituito dall’assoggettamento del lavoratore al potere direttivo e disciplinare del datore di lavoro". Il motivo è infondato.

Come, infatti, si è avuto modo di statuire (Cass. Sez. Lav. n. 1420 del 4/2/2002), "gli elementi che differenziano, alla stregua dei parametri normativi desumibili innanzitutto dagli artt. 2094 e 2099 cod. civ., il lavoro subordinato da quello autonomo sono l’assoggettamento del lavoratore al potere direttivo e disciplinare del datore di lavoro con la conseguente limitazione della sua autonomia e il suo inserimento nell’organizzazione aziendale; a quest’ultimo riguardo è rilevante l’esistenza in tal senso di un diritto del datore di lavoro e, rispettivamente, di un obbligo del lavoratore, derivanti dal contratto, mentre la qualificazione del rapporto compiuta dalle parti nella iniziale stipulazione del contratto non è determinante, stante la idoneità, nei rapporti di durata, del comportamento delle parti ad esprimere sia una diversa effettiva volontà contrattuale, sia una nuova diversa volontà.

Invece, elementi quali l’assenza del rischio, la continuità della prestazione, l’osservanza di un orario e la cadenza e la misura fissa della retribuzione assumono natura meramente sussidiaria e non decisiva, fermo restando che l’apprezzamento in concreto circa la riconducibilità di determinate prestazioni ad un rapporto di lavoro subordinato o autonomo si risolve in un accertamento di fatto che, ove adeguatamente e correttamente motivato in rapporto ad un esatto parametro normativo, è incensurabile in cassazione. (Nella specie il giudice di merito, con la sentenza confermata dalla S.C., aveva ritenuto la sussistenza della subordinazione in relazione a due lavoratrici che, addette, insieme ad altri lavoratori in posizione di minore responsabilità, ad un negozio di abbigliamento, ricevevano – in contrasto con le previsioni dei sottoscritti contratti di associazione in partecipazione, ritenuti fittizi dal giudice a quo – una retribuzione fissa, erano tenute al rispetto di un orario rigido corrispondente a quello di apertura del negozio, e rimanevano assoggettate a direttive e istruzioni impartite da persona delegata dal datore di lavoro)".

Nella fattispecie la Corte d’appello, con apprezzamento di fatto adeguatamente motivato e, perciò, insindacabile in cassazione, ha avuto modo di accertare, attraverso il vaglio degli elementi istruttori, che anche durante il periodo interessato dalla stipula del contratto di associazione in partecipazione tra le parti permaneva, in realtà, un rapporto di lavoro subordinato, non essendovi alcuna traccia contabile di rendiconto annuale o di effettiva corresponsione agli utili o di addebito delle perdite d’esercizio all’ A., nè la prova di effettivi atti di gestione, da parte di quest’ultimo, del conto corrente cointestatogli, mentre i contatti del medesimo coi fornitori e la clientela ben potevano entrare a far parte delle mansioni di un dipendente di un’impresa artigiana di ebanisteria che notoriamente si reca presso i fornitori per prelevare e pagare i materiali o presso la clientela per rendersi conto del manufatto da realizzare, incassandone il corrispettivo in nome e per conto del datore di lavoro.

Inoltre, come illustrato in precedenza, la Corte di merito ha ritenuto, con motivazione congrua ed esente da vizi di natura logico- giuridica, di dar rilievo determinante al contenuto delle dichiarazioni rese nell’immediatezza degli accertamenti ispettivi da A.P., dichiarazioni che conducevano all’accertamento della natura subordinata del rapporto in esame. Il ricorso va, in definitiva, rigettato.

Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza del ricorrente e vanno poste a suo carico nella misura liquidata come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente alle spese del presente giudizio nella misura di Euro 2500,00 per onorario, oltre Euro 40,00 per esborsi, nonchè accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 10 maggio 2012.

Depositato in Cancelleria il 5 settembre 2012

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