Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 10-10-2013) 14-05-2014, n. 19913

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/




Svolgimento del processo

Con sentenza in data 26.6.2012 la Corte d’appello di Caltanissetta, in riforma della sentenza del GIP del Tribunale di Caltanissetta in data 9.2.2011, dichiarava, fra l’altro, non doversi procedere nei confronti di ST.GI. e P.P. in ordine al reato pluriaggravato di lesioni personali in danno di L. F., così riqualificata l’originaria contestazione di tentato omicidio di cui al capo A), perchè estinto per prescrizione.

Nel capo A) era stato contestato a G.G., P. P., Sc.Em., Sc.Fi. e S. G. il reato di tentato omicidio pluriaggravato perchè – agendo in concorso tra loro e con E.D., Sm.

C. e C.S. – compivano atti idonei diretti in modo non equivoco a cagionare la morte di L.F., non realizzando l’evento per l’imprevisto malfunzionamento della pistola utilizzata per commettere il delitto; avendo agito i suddetti fratelli Sc. con il ruolo di istigatori, sollecitando E., Sm. e altri uomini d’onore della famiglia mafiosa di Gela ad uccidere il L.; avendo il P., lo St. e il G. partecipato alla fase organizzativa ed esecutiva dell’attentato, il P. rintracciando la vittima e segnalandone la posizione a St. e G., i quali avevano seguito il L., che guidava un’auto, a bordo di un ciclomotore; lo St. aveva esploso un colpo di pistola cal.

7,65 contro il predetto, non riuscendo ad attingerlo per imperizia nell’uso dell’arma e non riuscendo poi a reiterare i colpi per il malfunzionamento del meccanismo di rotazione del tamburo; in (OMISSIS).

La Corte d’appello riportava le dichiarazioni che L. F. aveva rilasciato lo stesso giorno del fatto: verso le ore 18,00 due giovani a bordo di un motorino l’avevano raggiunto appena egli era si era fermato; il trasportato del ciclomotore si era avvicinato e si era posto di fronte a lui a circa tre metri di distanza, puntandogli contro una pistola; aveva poi sparato un colpo in direzione delle sue gambe, senza colpirlo; egli era scappato, rifugiandosi nello stadio, e non sapeva dire se fosse stato inseguito.

Riportava poi le dichiarazioni di diversi collaboratori di giustizia:

Sm.Cr., B.C., T.R., C. S., Ce.Em. e S.G. nonchè le dichiarazione spontanee di St.Gi..

Riteneva accertata la partecipazione al delitto da parte di P. P. e St.Gi., quest’ultimo nel ruolo di esecutore materiale. Metteva in evidenza che solo Sm.Cr. aveva sostenuto che era stato compiuto un vero e proprio attentato omicidiario, ma la dichiarazione del predetto era stata smentita da altri collaboratori, oltre che dall’esecutore materiale del delitto;

neppure le dichiarazioni di C.S. potevano essere considerate un preciso riscontro, poichè il predetto nelle prime dichiarazioni aveva sostenuto che si voleva dare al L. solo un avvertimento; era inoltre rimasta priva di riscontri l’affermazione del C. che lo St. usava la tecnica prima di ferire la vittima allo scopo di immobilizzarla per poi finirla con i successivi colpi.

Non potevano essere considerate affidabili neanche le dichiarazioni di T.R., poichè lo stesso non era in possesso di notizie precise ed aveva desunto che si doveva trattare di una vera e propria esecuzione soltanto dalle reazione di disappunto di Sm.

C. al fallimento dell’agguato.

Aggiungeva la Corte di merito che le dichiarazioni degli altri collaboratori – che avevano affermato che l’intenzione era solo quella di intimidire il L. – erano state confermate nel giudizio d’appello dalle dichiarazioni di G.G., nel frattempo divenuto collaboratore di giustizia, e di Be.

M.C., il quale aveva precisato che era stato consegnato allo St. un revolver che si sapeva benissimo che non poteva sparare più colpi, perchè il tamburo non era in grado di girare.

La Corte territoriale, infine, riteneva che l’assenza di una volontà omicida si poteva desumere anche dal mancato inseguimento della vittima; dalle modalità dell’azione, compiuta a viso scoperto, e dalla mancanza in seguito di ulteriori tentativi di uccidere il L.; dalla direzione del colpo ai piedi della vittima e dalla consegna allo St. di un’arma difettosa.

Avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione la Procura generale della Repubblica di Caltanissetta, chiedendone l’annullamento per illogicità della motivazione risultante dal testo del provvedimento impugnato. La Corte d’appello non aveva considerato che ben tre collaboratori di giustizia ( Sm., C. e T.O.) avevano precisato che inizialmente era stato deciso di dare al L. solo un avvertimento, ma successivamente, a ridosso dell’azione delittuosa, era stato modificato l’originario piano, ordinando agli esecutori di compiere un omicidio, non riuscito per fatti indipendenti dalla volontà di colui che aveva materialmente sparato.

I predetti collaboratori erano stati ritenuti pienamente affidabili e non avevano alcun interesse a mettere in gioco la loro credibilità dando una falsa versione di un fatto al quale avevano partecipato.

La contraria versione di G. e St. – quest’ultimo peraltro non era neppure un collaboratore di giustizia – appariva invece interessata, poichè i predetti miravano, minimizzando le loro responsabilità, ad ottenere una riduzione di pena.

La Corte territoriale non aveva dato la giusta importanza ai confronti tra Sm. e C. e tra Sm. e B., e neppure aveva fatto riferimento ai risultati dei suddetti confronti.

Non era stato spiegato nella sentenza impugnata perchè T. O. fosse più credibile quando aveva accreditato la tesi dell’avvertimento dato al L. e non quando aveva dichiarato che E.D. e lo Sm. avevano deciso di uccidere il predetto, quando lo stesso si era rifiutato di lasciare la presidenza della squadra di calcio.

La sussistenza dell’animus necandi nell’azione era desumile da una serie di elementi non presi in considerazione dalla Corte d’appello:

L. si era dimesso dalla carica di presidente della Iuve Terranova e aveva cessato di opporsi all’influenza dei fratelli Sc. nello stabilimento Petrolchimico di Gela; i fratelli Sc. erano stati successivamente condannati per aver favorito gli interessi di Cosa Nostra all’interno del Petrolchimico di Gela tramite la cooperativa CONAPRO; Sm.Cr. e i suoi sodali non portarono a termine il progetto di uccidere L., poichè dopo il suddetto tentativo erano stati arrestati per altri fatti.

Illogicamente la Corte distrettuale aveva ritenuto che gli esecutori non avessero intenzione di uccidere, poichè avevano agito a volto scoperto; altrettanto illogica era la stessa conclusione per il fatto che non vi fosse stata reiterazione di colpi, dovuta invece – come riferito da collaboratori di giustizia – all’inceppamento dell’arma.

Motivi della decisione

Il ricorso è basato, nella sostanza, solo su questioni di fatto che non possono essere prese in considerazione in sede di legittimità.

Prima di esaminare i motivi di ricorso presentati dal Procuratore Generale ricorrente, si deve verificare se la ricostruzione della vicenda da parte dei giudici di merito presenti discrasie rispetto alle risultanze processuali o illogicità nelle affermazioni e nei passaggi logici attraverso i quali i giudici di merito sono pervenuti alla decisione.

Va peraltro ricordato che, in questa sede di legittimità, non si deve compiere alcuna verifica sugli atti processuali, e quindi non possono essere prese in considerazione le diverse interpretazioni date dalle parti alle prove assunte, quantunque queste interpretazioni appaiano plausibili, ma che può essere preso in considerazione solo il travisamento di una o più prove, sussistente nel caso in cui il giudice abbia dato ad una qualsiasi prova decisiva per la ricostruzione del fatto un significato diverso dal chiaro significato che la stessa appalesava, senza bisogno di alcuna interpretazione.

Il ricorrente non ha denunciato alcun travisamento di prove da parte della Corte d’appello (travisamento che peraltro deve essere denunciato allegando o indicando l’intero atto che contiene la prova che si assume travisata), ma si è limitato a dare alle stesse prove utilizzate dalla Corte territoriale una diversa interpretazione, che non può essere apprezzata da questa Corte la quale – non conoscendo il contenuto degli atti del processo – non può e non deve pronunciarsi su quale sia la migliore interpretazione delle prove, tra quella data dai giudici di merito e quella proposta dal ricorrente.

Come è noto, precipuo compito di questa Corte è – oltre al controllo sulla corretta applicazione delle norme processuali e sostanziali – la verifica del rispetto nel provvedimento impugnato dei canoni fondamentali della logica nelle affermazioni in esso contenute e nei passaggi attraverso i quali si è giunti alla decisione, che devono essere concatenati da una accettabile consequenzialità e non devono presentare nè salti logici nè contraddizioni tra loro. In altri termini, se il giudice non ha travisato prove (decisive) attraverso le quali ha ricostruito il fatto e se la motivazione non contiene nel suo sviluppo i sopra indicati vizi di natura logica, il fatto deve essere assunto come ricostruito dai giudici di merito.

Nel caso in esame, la Corte di merito doveva accertare se il colpo esploso da St.Gi. con una pistola contro L. F. – fatto questo pacifico – fosse stato sparato con l’intenzione di uccidere il predetto o solo con l’intento di ferirlo e spaventarlo.

Di fronte alle diverse versioni date dai collaboratori di giustizia (nessuno dei quali testimone diretto del fatto) che avevano potuto riferire solo sull’incarico dato a St., P. e G., la Corte ha ritenuto che non vi fosse prova certa nè di un mandato omicidiario nè dell’intenzione di uccidere da parte di colui che aveva esploso l’unico colpo, tanto più che questo pacificamente era stato diretto da breve distanza verso le gambe della parte offesa (che non era stata ferita), e quindi oggettivamente un colpo esploso con le suddette modalità faceva ritenere più probabile l’intento di ledere piuttosto che quello di uccidere. In questa ricostruzione del fatto ad opera della Corte d’appello non si ravvisa alcun vizio sotto il profilo logico giuridico.

Il ricorrente ha messo in luce elementi emergenti dagli atti favorevoli alla sua tesi, ma non ha indicato alcun vizio logico nella motivazione della sentenza, nè alcun travisamento di prove.

Non è stato neppure dimostrato che fossero decisivi alcune emergenze, come espletati confronti, non prese in considerazione dalla sentenza impugnata, perchè evidentemente ritenute inidonee a modificare l’incertezza della prova derivante dalla contraddittorietà delle dichiarazioni tra i collaboratori di giustizia.

Pertanto, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, poichè proposto per motivi di fatto che non possono essere apprezzati in sede di legittimità.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso.

Così deciso in Roma, il 10 ottobre 2013.

Depositato in Cancelleria il 14 maggio 2014

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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