Corte di Cassazione – Sentenza n. 22281 del 2011 Parcella all’avvocato pagamento in nero giura la cliente

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Ritenuto in fatto

1. Con sentenza del 17 aprile 2009, la Corte di appello di Trento, in riforma della sentenza del Tribunale di Rovereto che aveva assolto, all’esito di giudizio abbreviato, G.F.A. dal reato di cui all’art. 371 c.p., dichiarava l’imputata responsabile del reato ascrittole e la condannava alla pena di mesi due e giorni venti di reclusione, concedendole i benefici di legge.
L’imputata era accusata di aver giurato il falso nella causa civile nella quale era stata convenuta in giudizio dall’avv. F. per il pagamento di prestazioni professionali per il patrocinio in una causa penale, e segnatamente dichiarava di aver interamente saldato ogni spettanza al legale.
In prime cure, il Tribunale aveva ritenuto non provato, oltre ogni ragionevole dubbio, che il debito fosse stato saldato dall’imputata, in quanto non apparivano decisive né la testimonianza della segretaria del legale, che per prassi veniva informata dei pagamenti ricevuti (non potendosi escludere che l’avvocato non l’avesse avvertita nel caso in esame), né la lettera scritta da quest’ultimo all’imputata a sette anni di distanza per sollecitare il pagamento di una parcella (non risultando certo che si trattasse proprio dello stesso credito).
I giudici dell’appello ritenevano invece provata la penale responsabilità dell’imputata sulla base della denuncia effettuata dall’avv. F., la cui veridicità risultava pienamente confermata da altri elementi di prova, tra i quali la richiesta scritta di pagamento inoltrata all’imputata nel 2002 dal legale, nella quale si parlava di “parcelle”, così da comprendere sia le prestazioni per la causa penale che per quella civile, e la testimonianza della segretaria di quest’ultimo che aveva dichiarato che la G. non aveva mai versato acconti per il rapporto di particolare cordialità instaurato con il legale e che aveva manifestato, nel restituire un prestito, l’intenzione di non pagare le “parcelle”. Diversamente, secondo la Corte di merito, la tesi difensiva del pagamento “in nero” effettuato al legale non risultava suffragata da elementi concreti idonei ad avvalorarne l’attendibilità.
2. Avverso la suddetta sentenza, ha proposto ricorso per cassazione l’imputata, con il quale denuncia, con un unico motivo, la mancanza e l’illogicità della motivazione.
Secondo la ricorrente, la Corte territoriale avrebbe omesso di vagliare con il necessario rigore l’attendibilità della deposizione della parte offesa, portatrice di interessi antitetici rispetto a quelli dell’imputata.
Quanto al riscontro costituito dalla deposizione della segretaria M., la ricorrente rileva che la Corte di merito, da un lato, avrebbe omesso di considerare che costei ebbe a dichiarare di non essere stata a conoscenza diretta di pagamenti effettuati dall’imputata e, dall’altro, non avrebbe considerato che proprio il rapporto fiduciario esistente tra le parti avrebbe giustificato un pagamento “in nero”, come sostenuto in giudizio dall’imputata.
Infine, si denuncia il passaggio contenuto nella motivazione in cui la Corte trentina avrebbe affermato che l’imputata non avrebbe addotto nulla a sostegno della propria innocenza, in quanto la versione dei fatti (l’avvenuto pagamento) era stata resa già in sede civile con il giuramento decisorio e comunque la pretesa di ottenere dall’imputata una prova del pagamento “in nero” contrasterebbe, oltre che con il divieto dell’inversione dell’onere della prova, con la logica, apparendo inverosimile ottenere ricevute da chi ottiene siffatti pagamenti, e con la ratio dell’istituto della presunzione presuntiva, che si fonda proprio sull’impossibilità di ottenere o conservare la prova dei pagamenti.

Considerato in diritto

1. Il ricorso è manifestamente infondato e in parte basato su motivi non deducibili in sede di legittimità.
La Corte di appello si è attenuta ai criteri elaborati da questa Corte Suprema in tema di valutazione della deposizione della parte offesa, secondo cui, qualora la persona offesa si sia costituita parte civile e sia, perciò, portatrice di pretese economiche, il controllo di attendibilità deve essere più rigoroso rispetto a quello generico cui si sottopongono le dichiarazioni di qualsiasi testimone e può rendere opportuno procedere al riscontro di tali dichiarazioni con altri elementi (Sez. 1, n. 29372 del 24/06/2010, dep. 27/07/2010, Stefanini, Rv. 248016).
Il giudice a quo ha puntualmente vagliato la tenuta probatoria delle dichiarazioni dell’avv. F. alla luce delle complessive emergenze processuali, in premessa illustrate.
Quanto alle censure mosse dalla ricorrente al giudizio di attendibilità espresso dalla Corte di appello, deve osservarsi che, trattandosi di apprezzamento di fatto, è incensurabile in sede di legittimità. Il controllo della Corte Suprema di Cassazione non concerne infatti né la ricostruzione dei fatti, né l’apprezzamento del giudice di merito circa l’attendibilità delle fonti e la rilevanza e/o concludenza dei dati probatori (essendo inammissibile in sede di legittimità la prospettazione di una diversa valutazione di circostanze già esaminate dal giudice di merito), ma è circoscritto alla verifica che il testo dell’atto impugnato risponda a due requisiti che lo rendono insindacabile: 1) l’esposizione delle ragioni giuridicamente significative che lo hanno determinato; 2) l’assenza di illogicità evidenti, ossia la congruenza delle argomentazioni rispetto al fine giustificativo del provvedimento.
Orbene, dal vaglio di legittimità, a cui è stata sottoposta l’argomentazione motivazionale adottata dal decidente, a supporto della confermata affermazione di responsabilità dell’imputata, non sono ravvisabili carenze ed illogicità evidenti, mentre le argomentazioni portate nel ricorso, al fine di contraddire la linea argomentativa della Corte di appello, sconfinano inammissibilmente nel merito nelle parti in cui propongono una lettura alternativa delle emergenze probatorie.
La Corte di merito ha infatti valutato la tesi difensiva del pagamento per contanti “in nero”, ritenendola logicamente inconsistente, per l’assenza di un benché minimo riscontro probatorio. Né si può desumere la verosimiglianza delle giustificazioni, dal solo fatto che, come argomenta la difesa, sarebbe impossibile provare l’avvenuto pagamento in nero, per la mancanza di ricevute, posto che la sentenza impugnata non richiedeva di documentare tale circostanza, secondo il rigore formale e le regole della legge civile, ma di darne dimostrazione, ragionevolmente, sulla base di ogni elemento utile allo scopo.
2. All’inammissibilità del ricorso consegue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e di una somma in favore della cassa delle ammende nella misura che, in ragione delle questioni dedotte, si stima equo determinare in Euro 1.000.

P.Q.M.

Dichiara il ricorso inammissibile e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000 alla cassa delle ammende.

Depositata in Cancelleria il 06.06.2011

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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