Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 10-10-2013) 03-02-2014, n. 5201

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/




Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. Con sentenza pronunciata il 7.11.2012 la corte di appello di Milano confermava la sentenza con cui il giudice di Milano, in data 4.11.2011, aveva condannato P.A., imputato dei reati di cui all’art. 646 c.p. (capo 1) e art. 61, n. 2, art. 81 cpv., art. 476, comma 2, in relazione all’art. 482 c.p., (capo 2), alla pena ritenuta di giustizia.

2. Avverso la sentenza della corte territoriale ha proposto ricorso per Cassazione, personalmente l’imputato, lamentando i vizi di cui all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), in relazione ad entrambi i reati per cui ha riportato condanna.

2.1. In particolare il ricorrente lamenta, con riferimento al delitto di cui al capo n. 1), la mancanza, la contraddittorietà e la manifesta illogicità della motivazione dell’impugnata sentenza, in quanto la corte territoriale non ha indicato le ragioni per le quali il fatto contestato al P. assume rilevanza penale, posto che, come affermato dalla giurisprudenza di legittimità, laddove si verifichi la c.d. appropriazione omissiva, dopo che il contratto di locazione finanziaria è stato risolto, si resta nell’alveo del mero illecito civile, a meno che non vi siano gli estremi di atti di disposizione del bene oppure non vi sia stato un esplicito rifiuto alla consegna.

Nel caso in esame, dunque, non sussistono gli elementi costitutivi, sotto il profilo oggettivo e soggettivo, del delitto di appropriazione indebita, in quanto in relazione al bene oggetto del contratto di leasing (una motocicletta) il P. non si è comportato uti dominus: egli, infatti, non si è rifiutato di riconsegnare il bene in questione, in quanto ha indicato il luogo in cui era custodito, il nominativo della persona che lo aveva in custodia e le ragioni che gli rendevano oggettivamente impossibile restituire nell’immediato la motocicletta, veicolo successivamente rinvenuto nel posto indicato e restituito all’avente diritto.

Inoltre, proprio la pendenza di trattative tra l’imputato e la società di leasing, è sintomatica della mancanza dell’elemento soggettivo del reato.

2.2 Con riferimento al reato di cui al capo n. 2), il ricorrente lamenta la mancanza di motivazione della sentenza impugnata, in quanto non vi è prova che le ricevute di versamento in conto corrente postale siano state falsificate ed alterate proprio dal P. o, piuttosto, che quest’ultimo abbia in buona fede utilizzato un atto falso, apparendo, peraltro, inverosimile che il P. abbia proceduto alla falsificazione delle ricevute in questione per "provare una mancata appropriazione indebita".

4. Il ricorso non può essere accolto.

5. Infondato appare il primo motivo di ricorso.

Non appare revocabile in dubbio che in tema di appropriazione indebita, l’interversione del possesso non può desumersi dalla rivendicazione della proprietà, se non accompagnata da atti di disposizione dei beni o dalla manifestazione di rifiuto di restituirli, per cui l’omessa restituzione della cosa da parte del detentore al legittimo proprietario, integra il delitto di cui all’art. 646 c.p., solo se dal comportamento tenuto dal detentore si rilevi, per le modalità del rapporto con la cosa, un’oggettiva interversione del possesso (cfr., ex plurimis, Cass., sez. II, 21/03/2013, n. 13797, G.A.).

E’ del pari indiscutibile che l’elemento soggettivo del reato di appropriazione indebita consiste nella coscienza e volontà di appropriarsi del denaro o della cosa mobile altrui, posseduta a qualsiasi titolo, sapendo di agire senza averne diritto, ed allo scopo di trarre per sè o per altri una qualsiasi illegittima utilità (cfr., Cass., sez. 2^, 27/03/2012, n. 27023, S., rv.

253411).

Con particolare riferimento all’ipotesi in cui l’oggetto del reato di appropriazione indebita sia un bene in relazione al quale è stato stipulato un contratto di "leasing", va rilevato il formarsi di un condivisibile orientamento in seno alla giurisprudenza di legittimità, secondo cui, nel caso di ritenzione di un veicolo, utilizzato "uti dominus" nonostante la risoluzione del contratto di "leasing" e la richiesta di restituzione del bene ricevuto in leasing, l’interversione del possesso sussiste anche in caso di mera detenzione qualificata, consistente nell’esercizio sulla cosa di un potere di fatto esercitato al di fuori della sfera di sorveglianza del titolare.

Ne consegue che la condotta appropriativa del veicolo oggetto di contratto di leasing è ravvisabile nella ritenzione del mezzo, pur dopo la risoluzione del contratto e la ripetuta richiesta di restituzione; mentre la circostanza che il veicolo venga in effetti rinvenuto nell’attuale disponibilità del soggetto non costituisce sintomo dell’assenza della volontà di appropriazione, perchè l’interversione del possesso sussiste anche in caso di mera detenzione qualificata, consistente nell’esercizio sulla cosa di un potere di fatto esercitato al di fuori della sfera di sorveglianza del titolare (cfr. Cass., sez. II, 11/10/2012, n. 2684, Q.A.; Cass., sez. II, 20/09/2007, n. 38604, P.).

Orbene nel caso in esame la condotta posta in essere dal P., come correttamente affermato da entrambi i giudici di merito (le sentenze di primo e di secondo grado vanno, infatti, considerate come un prodotto unico, in quanto la decisione della corte territoriale e quella del tribunale hanno utilizzato criteri omogenei di valutazione e seguito un apparato logico-argomentativo uniforme: cfr. Cass., sez. III, 1.2.2002-12.3.2002, n. 10163, Lombardozzi D., rv. 221116), va ricondotta al paradigma normativo di cui all’art. 646 c.p., secondo l’interpretazione fornitane dalla giurisprudenza di legittimità innanzi richiamata.

Ed invero, a fronte della formale comunicazione con cui la società "Locat s.p.a" aveva reso nota al P. la risoluzione, per morosità, del contratto di leasing finanziario relativo al motoveicolo di cui l’imputato aveva il possesso, in qualità di titolare dell’impresa individuale "Non solo moda di P. A.", diffidandolo a restituire il veicolo entro i successivi otto giorni, quest’ultimo non solo non aveva ottemperato alla richiesta dell’avente diritto, ma aveva anche ceduto il bene in questione alla G.G., presso la cui abitazione la motocicletta veniva rinvenuta e sequestrata, sulla base di un accordo, come riferito dalla stessa G., che prevedeva il pagamento, a titolo di corrispettivo, della somma di Euro 2.500,00/3000,00, di cui era stato versato un solo un acconto di 1000,00 Euro.

Pur non essendo il proprietario del bene, dunque, e nella piena consapevolezza di non potere esercitare i relativi poteri di disponibilità del veicolo, il P. lo aveva alienato e consegnato alla G. (che, quindi, ne aveva il possesso non in qualità di semplice custode), intascando anche una parte del corrispettivo pattuito, condotta che, unitamente al rifiuto di consegnare la motocicletta alla "Locat", costituisce sintomo inequivocabile dell’esercizio da parte dell’imputato di un potere di fatto sul bene, svoltosi al di fuori della sfera di sorveglianza del legittimo proprietario, idonea a realizzare, dunque, quella consapevole interversione del possesso, richiesta dalla fattispecie legale per la consumazione del delitto di cui all’art. 646 c.p.. La circostanza, poi, che, come riferito dalla G., quest’ultima, avendo appreso dopo la conclusione dell’accordo con il P. che il motoveicolo non era di proprietà dell’imputato, si era recata in compagnia di quest’ultimo presso la società finanziaria al fine di conoscere quale fosse l’importo necessario per riscattare il veicolo, la cui proprietà, all’atto del sequestro presso la sua abitazione, non le era stata ancora trasferita per indisponibilità dello stesso P., che le aveva restituito l’acconto ricevuto, costituisce un mero post factum, irrilevante rispetto alla dimostrata interversione del possesso.

6. Inammissibile, invece, si appalesa il secondo motivo di ricorso, relativo alla ritenuta e dimostrata falsificazione delle ricevute postali, attestanti l’avvenuto pagamento, sia pure tardivo, dei canoni di locazione da parte del P., in quanto con esso il ricorrente si limita a fornire una versione alternativa dei fatti fondata sull’assunto (peraltro non dimostrato ed, anzi, smentito dalla deposizione testimoniale della direttrice dell’ufficio postale dove sarebbero stati effettuati i versamenti: cfr. p. 2 dell’impugnata sentenza) gli erano state consegnate dall’impiegate del suddetto ufficio.

E’, infatti, inammissibile il motivo di ricorso che, come nel caso in esame, esponga censure che si risolvono in una mera rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata, sulla base di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, senza individuare vizi di logicità tali da evidenziare la sussistenza di ragionevoli dubbi, ricostruzione e valutazione, quindi, precluse, in quanto tali, in sede di giudizio di cassazione (cfr. Cass., sez. 1^, 16.11.2006, n. 42369, De Vita, rv. 235507;

Cass., sez. 6^, 3.10.2006, n. 36546, Bruzzese, rv. 235510; Cass., sez. 3^, 27.9.2006, n. 37006, Piras, rv. 235508).

7. Sulla base delle svolte considerazioni il ricorso proposto nell’interesse del P. va, dunque, rigettato, con condanna di quest’ultimo, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., al pagamento delle spese del procedimento.

P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 10 ottobre 2013.

Depositato in Cancelleria il 3 febbraio 2014

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *