Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 10-10-2013) 23-01-2014, n. 3250

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/




Svolgimento del processo

M.A. ha proposto ricorso per cassazione avverso l’ordinanza in data 26 febbraio 2013 del Tribunale della Libertà di Catania, con la quale, è stato rigettato il ricorso avverso l’ordinanza del G.I.P. del Tribunale di Catania in data 2 febbraio 2013, con cui è stata applicata nei suoi confronti la misura della custodia cautelare in carcere in ordine al reato di estorsione aggravata anche ai sensi della L. n. 203 del 1991, art. 7.

A sostegno dell’impugnazione lo S. ha dedotto:

a) Violazione ed erronea applicazione della legge penale in relazione all’art. 192 c.p.p., comma 3.

Il ricorrente censura la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza ritenuti sussistenti dal TDL. Contesta l’attendibilità dei dichiaranti T. e C., di cui non sarebbe stata vagliata l’attendibilità intrinseca soggettiva ed oggettiva. In ogni caso il T. non avrebbe mai indicato il M. come responsabile del delitto in contestazione, relativo all’estorsione perpetrata in danno dei proprietari del Bar (OMISSIS), come pure lo stesso L. C..

b) Inosservanza delle norme processuali stabilite a pena di nullità o di inutilizzabilità e, segnatamente, inutilizzabilità delle dichiarazioni delle persone offese, C. e P., per violazione dell’art. 63 c.p.p., comma 2.

Il ricorrente censura le valutazioni operate in ordine all’attendibilità delle dichiarazioni delle persone offese, in considerazione della contraddittorietà delle medesime e del fatto che non furono mai minacciate di ritorsioni o comunque di pressioni per non collaborare con gli inquirenti. In ogni caso le dichiarazioni rese sarebbero inutilizzabili in quanto acquisite in violazione dell’art. 64 c.p., comma 3, lett. c), poichè, in base alla falsità del contenuto delle prime dichiarazioni rese alla Polizia giudiziaria, si sarebbero resi responsabili del reato di favoreggiamento, e quindi, in qualità di potenziali indagati, dovevano essere sentiti con le forme previste dal codice sin dall’inizio.

c) Inosservanza o erronea applicazione della legge penale e, segnatamente dell’art. 629 c.p. in ordine alla sussistenza degli elementi costitutivi del reato atti a determinare la compartecipazione del M..

Il ricorrente contesta il ruolo a lui attribuito dal TDL nell’estorsione perpetrata ai danni dei titolari del Bar (OMISSIS), in quanto da nessun elemento potrebbe trarsi la prova della sua partecipazione all’attività estorsiva, e quindi ipotizzare un concorso nella consumazione del reato medesimo sulla base della mera cooperazione passiva.

d) Inosservanza o erronea applicazione della legge penale e, segnatamente, della L. n. 203 del 1991, art. 7 in ordine alla sussistenza degli elementi costitutivi della circostanza aggravante ad effetto speciale; inosservanza delle norme processuali stabilite a pena di nullità e, segnatamente, dell’art. 292 cod. proc. pen., comma 2, lett. c) e c bis), in relazione all’art. 275 c.p.p., comma 3.

Il ricorrente censura la configurabilità nei suoi confronti dell’aggravante in cui la L. n. 203 del 1991, art. 7, sia per quanto riguarda l’individuazione del dolo specifico, concernente le modalità utilizzate per arrecare vantaggio all’associazione a delinquere, come sotto il profilo dei metodi utilizzati, di cui non vi è alcuna descrizione. In ogni caso la misura della custodia cautelare in carcere sarebbe in contrasto con il principio di adeguatezza come sancito dalla Corte costituzionale con l’arresto giurisprudenziale del 29 marzo 2013, n. 57.

Motivi della decisione

1. Il ricorso è infondato.

Il Tribunale ha spiegato con coerenza logico-giuridica le ragioni in base alle quali devono ritenersi sussistenti le esigenze cautelari in ordine al reato contestato. Infatti la figura del M. e il suo ruolo nella vicenda sono stati inseriti all’interno di un quadro di elementi probatori che hanno ricevuto un positivo vaglio procedimentale attraverso i riscontri della parti offese, deposizioni testimoniali, documentali e sequestri del profitto del reato a seguito di arresti eseguiti in flagranza dello stesso dalla P.g.. Vi è solo da aggiungere che in ordine all’utilizzabilità delle dichiarazioni delle parti offese appare assolutamente condivisibile il canone ermeneutico utilizzato dal TDL, in base al principio giurisprudenziale in base al quale poichè l’inutilizzabilità nei confronti dei terzi prevista dall’art. 63 cod. proc. pen. per le dichiarazioni rilasciate da persona che fin dall’inizio avrebbe dovuto essere sentita in qualità di indagato o imputato è subordinata, in ogni caso, alla condizione che il dichiarante sia colpito da indizi in ordine al medesimo reato ovvero al reato connesso o collegato attribuito al terzo, devono ritenersi utilizzabili le dichiarazioni rese contro l’estorsore dal soggetto passivo del reato di estorsione che sia indiziato di favoreggiamento nei confronti dell’estorsore medesimo, perchè rispetto al delitto da cui è offeso il dichiarante si trova in una posizione di estraneità ed assume la specifica veste di testimone. (Sez. 2, n. 2539 del 05/05/2000 – dep. 25/05/2000, Papa, Rv. 216299; Sez. 3, n. 18765 del 26/02/2003 – dep. 18/04/2003, Lenzo, Rv. 224910; Sez. 2, n. 45566 del 21/10/2009 – dep. 26/11/2009, Bonanata e altro, Rv. 245630; Sez. 3, n. 16856 del 10/03/2010 – dep. 04/05/2010, P.P., Rv. 246985); per quanto riguarda le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, le stesse sono state vagliate in maniera critica ed approfondita e la valutazione operata appare esente da censure logico giuridiche.

E il collegio ha indicato a tal fine poi, in ordine alla permanente necessità della misura custodiale in atto, non solo la circostanza della gravità del fatto e della personalità del prevenuto, ma anche la probabile (pressochè certa) presenza di contatti con altri soggetti coinvolti nell’attività criminosa e con altri personaggi della malavita; proprio tale situazione complessiva ha fatto ritenere al Tribunale ancora concreta ed attuale la pericolosità del M., con la necessità della permanenza della misura custodiale della custodia cautelare in carcere, in considerazione del pericolo di reiterazione del reato, della personalità e del comportamento del prevenuto, condannato in via definitiva anche in ordine al reato di cui all’art. 416 bis c.p., e gravato di pesanti e numerosi precedenti penali, anche specifici, e violazioni che ne confermano l’attualità della pericolosità sociale, essendo riferibili alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale di P.S.. Tutte queste circostanze appaiono idonee a rendere concretamente ipotizzabile una recidivanza dell’attività criminosa.

Peraltro il profilo dedotto attiene in modo univoco al merito della decisione e non è censurabile in questa sede, avendo comunque il giudice del riesame fornito una adeguata giustificazione della decisione assunta.

2. Alla Corte di cassazione resta comunque preclusa la rilettura di altri elementi di fatto rispetto a quelli posti a fondamento della decisione impugnata e l’autonoma adozione di nuovi o diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti medesimi, ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa, dovendosi essa limitare a controllare se la motivazione dei giudici di merito sia intrinsecamente razionale e capace di rappresentare e spiegare l’iter logico seguito (ex plurimis: Cass. 1 ottobre 2008 n. 38803). La Corte non deve accertare se la decisione di merito propone la migliore ricostruzione dei fatti, nè deve condividerne la giustificazione, ma limitarsi a verificare se questa giustificazione sia compatibile con il senso comune e con i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento (v. Cass. 3 ottobre 2006, n. 36546; Cass. 10 luglio 2007, n. 35683; Cass. 11 gennaio 2007, n. 7380).

3. Nella specie, peraltro il M. si limita a proporre una lettura riduttiva degli elementi di fatto posti a base del provvedimento di rigetto in modo non esaustivo sotto il profilo motivazionale. Appare evidente che queste doglianze danno luogo a censure che non possono trovare ingresso nel giudizio di legittimità. E in questo senso il ricorso appare infondato anche per quanto concerne il motivo relativo alla sussistenza delle esigenze cautelari collegate alla contestazione dell’aggravante di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7.

4. Osserva la Corte che, rispetto al principio affermato dalla giurisprudenza, in base al quale, la presunzione di adeguatezza della custodia in carcere di cui all’art. 275 c.p.p., comma 3, opera non solo nel momento di adozione del provvedimento genetico della misura coercitiva, ma anche nelle successive vicende che attengono alla permanenza delle esigenze cautelari, la Corte di cassazione ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 275 c.p.p., comma 3, in riferimento all’art. 3 Cost., art. 13 Cost., comma 1 e art. 27 Cost., comma 2, nella parte in cui faceva operare la presunzione assoluta di adeguatezza della custodia cautelare in carcere in riferimento ai delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste all’art. 416-bis cod. pen. ovvero al fine di agevolare le attività delle associazioni di tipo mafioso. (Cass., Sez. un., 19 luglio 2012, ordinanze n. 34473 e n. n. 34474 del 2012).

Con la sentenza del 29 marzo 2013, n. 57, la Corte costituzionale ha dichiarato illegittima la previsione della custodia "obbligatoria" in carcere per i reati di contesto mafioso (ma non per le condotte di partecipazione o concorso nell’associazione di tipo mafioso). La Corte ha evidenziato la differenza tra la previsione sottoposta al suo giudizio e le precedenti, che riguardavano singoli reati o gruppi di reati. Nella fattispecie concreta, in particolare, il meccanismo faceva riferimento a qualsiasi delitto, a prescindere dai suoi elementi costitutivi, oggettivi e soggettivi, con l’unico limite della pena edittale pari o superiore a quattro anni di reclusione, in ossequio alla regola generale prevista dall’art. 280 c.p.p., comma 2.

Nella valutazione operata dalla Corte è stata tenuta presente la circostanza relativa al fatto che un reato commesso in un contesto caratterizzato dalla mafiosità del crimine è più grave di un fatto analogo, sganciato da tale condizione, ed in tal senso è stato giustificato l’aumento di pena previsto. Tuttavia nella sua analisi la Corte ha ribadito il concetto, già espresso in precedenza prendendo in esame la costituzionalità della norma con riferimento, ad esempio, ai reati di omicidio volontario, come dalla gravità del fatto non possa essere fatta discendere in via automatica una presunzione insuperabile di pericolosità estrema. D’altra parte la realtà storica coperta dall’aggravante in esame appare talmente multiforme da giustificare un giudizio di irragionevolezza rispetto all’automaticità della ritenuta regola d’esperienza. Sotto questo aspetto la Corte ha dunque sottolineato che: "anche sotto questo profilo … la posizione dell’autore dei delitti commessi avvalendosi del cosiddetto "metodo mafioso" o al fine di agevolare le attività delle associazioni di tipo mafioso, delle quali egli non faccia parte, si rivela non equiparabile a quella dell’associato o del concorrente nella fattispecie associativa, per la quale la presunzione delineata dall’art. 275 c.p.p., comma 3, risponde, come si è detto, a dati di esperienza generalizzati".

In base al principio affermato dalla Corte costituzionale dunque la carcerazione non può essere irrimediabilmente imposta sulla sola base della pertinenza del fatto al "contesto mafioso", mentre tale presunzione rimane legittima quanto alla condotta associativa di tipo mafioso.

In base a questi arresti della Corte costituzionale deve dunque ritenersi, tra l’altro, che, nell’ipotesi in cui l’appartenente ad una organizzazione criminale debba rispondere anche di reati diversi da quello associativo, e riconducibili al "contesto" nel senso che si è sopra chiarito, che la presunzione assoluta comunque venga meno anche in questi casi, anche se il giudizio in concreto dovrà necessariamente parametrarsi con la legittimità della presunzione nell’ipotesi di condotta associativa.

Con l’avvenuta trasformazione della presunzione da assoluta a relativa il giudice, pertanto, nell’applicare nel caso concreto una misura diversa dalla custodia in carcere, dovrà individuare analiticamente elementi di positiva e concreta attenuazione del valore sintomatico del fatto, ovvero, nel caso di mantenimento della misura, gli elementi negativi di concreta permanenza del valore sintomatico del fatto medesimo. E questa attività ermeneutica dovrà trovare i suoi paletti di riferimento specifici, in base all’affermazione della Corte costituzionale, a seconda che emerga "l’appartenenza dell’agente ad associazioni di tipo mafioso ovvero la sua estraneità ad esse".

5. Ciò premesso, nel caso in esame, la valutazione in ordine alla possibile sostituzione della misura cautelare nel corso di esecuzione della cautela, è stata esaminata sulla base dei nuovi parametri fissati dalla Corte costituzionale, in base ai quali non è stato possibile adottare la revoca della originaria misura proprio perchè le esigenze originariamente ritenute non solo non sono venute meno, ma si sono ulteriormente rafforzate con l’intervenuta condanna definitiva per partecipazione ad associazione di tipo mafioso.

6. Alla luce delle suesposte considerazioni il ricorso deve essere rigettato.

Ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., l’imputato deve essere condannato al pagamento delle spese del procedimento.

La Cancelleria deve provvedere ai sensi dell’art. 94 disp. att. cod. proc. pen..

P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Si provveda ai sensi dell’art. 94 disp. att. cod. proc. pen..

Così deciso in Roma, il 10 ottobre 2013.

Depositato in Cancelleria il 23 gennaio 2014

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