Cass. civ. Sez. VI – 1, Sent., 06-09-2012, n. 14969

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Svolgimento del processo
Con ricorso depositato il 23 marzo 2010 presso la Corte d’appello di Genova, xxx ha chiesto il riconoscimento dell’equa riparazione per la irragionevole durata della procedura fallimentare relativa alla s.n.c. xxx di xxx & C, della quale egli era socio, iniziata con dichiarazione di fallimento in data 13 ottobre 1989 e chiusa con decreto in data 25 settembre 2009.
L’adita Corte d’appello ha dichiarato la decadenza della L. n. 89 del 2001, ex art. 4, ritenendo che la domanda fosse stata proposta oltre la scadenza del termine di sei mesi a far data dal 10 settembre 2009.
Per la cassazione di questo decreto xxx ha proposto ricorso sulla base di un motivo; l’intimata Amministrazione ha resistito con controricorso.
Motivi della decisione
Il collegio ha deliberato l’adozione della motivazione semplificata nella redazione della sentenza.
Con l’unico motivo di ricorso, il ricorrente denuncia violazione o falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 4.
Il ricorrente sostiene che la Corte d’appello avrebbe errato a far decorrere il termine di decadenza dalla data del deposito del decreto di chiusura del fallimento e non anche dal momento in cui il detto decreto poteva considerarsi divenuto definitivo. Nel caso di specie, il decreto, in quanto suscettibile di reclamo ai sensi della L. Fall., art. 119, comma 2 (nel testo previgente), era divenuto definitivo decorsi i quindici giorni previsti per la proposizione del reclamo, e cioè il 25 settembre 2009, con la conseguenza che alla data di deposito del ricorso per equa riparazione il termine semestrale non era ancora decorso.
Ove poi la Corte d’appello avesse inteso ritenere applicabile alla procedura fallimentare presupposta la normativa introdotta dal D.Lgs. n. 5 del 2006 e dal D.Lgs. n. 169 del 2007, art. 22, egualmente il ricorso avrebbe dovuto essere ritenuto tempestivo, atteso che per la nuova disciplina il termine per il reclamo, stabilito in dieci giorni, decorre dalla data della comunicazione o notificazione del decreto di chiusura e non anche da quella del suo deposito in cancelleria.
Il ricorso è manifestamente fondato, alla stregua del principio, di recente affermato da questa Corte e dal Collegio condiviso, secondo cui "in tema di equa riparazione per l’irragionevole durata del processo, la decisione che conclude il procedimento nel cui ambito si assume verificata la violazione, la quale segna il dies a quo del termine semestrale di decadenza per la proponibilità della domanda, può essere considerata definitiva se insuscettibile di essere revocata, modificata o riformata dal medesimo giudice o da altro giudice, chiamato a provvedere in grado successivo; pertanto, nelle procedure fallimentari giunte a compimento, il predetto termine semestrale decorre dalla data in cui il decreto di chiusura del fallimento non è più reclamabile in appello. (Principio affermato in relazione a fattispecie ratione temporis disciplinata dalla Legge Fall., nel testo anteriore alle modifiche apportate dal D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5 e D.Lgs. 12 settembre 2007, n. 169)" (Cass. n. 15251 del 2011).
Pertanto, posto che, come esattamente sostenuto dal ricorrente, il dies a quo del termine semestrale di decadenza per la proposizione della domanda di equa riparazione andava individuato non già in quello del deposito del provvedimento di chiusura del fallimento, ma in quello successivo di quindici giorni, e quindi, nella specie, nel 25 settembre 2009, il ricorso, depositato il 23 marzo 2010 doveva essere considerato tempestivo.
Alla stregua delle considerazioni che precedono il ricorso deve essere accolto con conseguente annullamento del decreto impugnato.
Non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito, ai sensi dell’art. 384 cod. proc. civ., comma 2. In particolare – determinata in diciannove anni e undici mesi la durata complessiva della procedura fallimentare presupposta, iniziata con dichiarazione di fallimento del 13 ottobre 1989 e conclusasi con decreto di chiusura della procedura depositato il 25 settembre 2009 – il periodo di durata non ragionevole va fissato in dodici anni e undici mesi, previa detrazione dalla durata complessiva del termine di sette anni, ritenuto dalla giurisprudenza di questa Corte ragionevole per il compimento di una procedura fallimentare (Cass. n. 5316 del 2011).
Il parametro per indennizzare la parte del danno non patrimoniale subito in detto giudizio va individuato nell’importo non inferiore ad Euro 750,00 per anno di ritardo, alla stregua degli argomenti svolti nella sentenza di questa Corte n. 16086 del 2009; secondo tale pronuncia, in tema di equa riparazione per violazione del diritto alla ragionevole durata del processo e in base alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (sentenze 29 marzo 2006, sui ricorsi n. 63261 del 2000 e nn. 64890 e 64705 del 2001), gli importi concessi dal giudice nazionale a titolo di risarcimento danni possono essere anche inferiori a quelli da essa liquidati, "a condizione che le decisioni pertinenti" siano "coerenti con la tradizione giuridica e con il tenore di vita del paese interessato", e purchè detti importi non risultino irragionevoli, reputandosi, peraltro, non irragionevole una soglia pari al 45 per cento del risarcimento che la Corte avrebbe attribuito, con la conseguenza che, stante l’esigenza di offrire un’interpretazione della L. 24 marzo 2001, n. 89, idonea a garantire che la diversità di calcolo non incida negativamente sulla complessiva attitudine ad assicurare l’obiettivo di un serio ristoro per la lesione del diritto alla ragionevole durata del processo, evitando il possibile profilarsi di un contrasto della medesima con l’art. 6 della CEDU (come interpretata dalla Corte di Strasburgo), la quantificazione del danno non patrimoniale deve essere, di regola, non inferiore a Euro 750,00 per ogni anno di ritardo eccedente il termine di ragionevole durata;
tali principi vanno confermati in questa sede, con la precisazione che il suddetto parametro va osservato in relazione ai primi tre anni eccedenti la durata ragionevole, dovendo invece aversi riguardo per quelli successivi, al parametro di Euro 1.000,00 per anno di ritardo, tenuto conto che l’irragionevole durata eccedente tale periodo comporta un evidente aggravamento del danno (Cass. n. 16086 del 2009;
Cass. n. 819 del 2010); nel caso di specie si deve, di conseguenza, riconoscere al ricorrente, in relazione ad una durata non ragionevole di dodici anni e undici mesi l’indennizzo di Euro 12.200,00, oltre agli interessi legali dalla domanda al saldo, al cui pagamento deve essere condannato il Ministero soccombente.
Le spese del giudizio di merito e quelle del giudizio di cassazione seguono la soccombenza e vanno liquidate come in dispositivo, in base alle tariffe professionali previste dall’ordinamento italiano con riferimento al giudizio di natura contenziosa (Cass. n. 16367 del 2011).
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso; cassa il decreto impugnato e, decidendo nel merito, condanna il Ministero della giustizia al pagamento in favore del ricorrente della somma di Euro 12.200,00, oltre agli interessi legali dalla domanda; condanna il Ministero soccombente al pagamento in favore del ricorrente delle spese del giudizio di merito, che si liquidano in Euro 1.140,00, di cui Euro 600,00 per competenze ed Euro 50,00 per esborsi, oltre a spese generali e accessori di legge, nonchè di quelle del giudizio di cassazione, che si liquidano in Euro 965,00, di cui Euro 865,00 per onorari, oltre a spese generali e accessori di legge.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Sesta Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 8 marzo 2012.
Depositato in Cancelleria il 6 settembre 2012

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