Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 11-10-2013) 02-12-2013, n. 47855

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/




Svolgimento del processo

1. Il 18 dicembre 2012 la Corte d’assise d’appello di Palermo, in funzione di giudice dell’esecuzione, rigettava l’opposizione proposta da G.G., ex art. 667 c.p.p., comma 4, avverso il provvedimento della medesima Autorità giudiziaria che, in data 27 settembre 2012, aveva dichiarato inammissibile l’istanza presentata dallo stesso, volta ad ottenere l’applicazione dell’indulto ai sensi della L. n. 241 del 2006.

2. La Corte così riepilogava lo svolgimento della vicenda processuale.

Il 21 febbraio 2008 il giudice dell’esecuzione applicava, nella misura di tre anni, l’indulto ex 1. n. 241 del 2006 "sulla pena di cui alla sentenza resa dalla Corte d’assise d’appello il 18 marzo 2000 dalla Corte d’assise d’appello…con cui a G. era stata irrogata la pena di trenta anni di reclusione, cui si era pervenuti anche in virtù del ricorso al criterio moderatore di cui all’art. 78 c.p.".

L’Ufficio del Pubblico ministero, dando esecuzione alla suddetta ordinanza, detraeva i tre anni dai trenta anni della pena fissata dalla Corte d’assise d’appello, omettendo di considerare che sulla pena di cinque anni di reclusione, irrogata dalla suddetta Corte d’assise per il delitto di associazione per delinquere di stampo mafioso, l’indulto non poteva essere applicato e che, a seguito del nuovo cumulo, la pena rimaneva sempre pari a trenta anni di reclusione.

Con una successiva ordinanza del 24 giugno 2009 il giudice dell’esecuzione, pronunziandosi su richiesta del Procuratore generale presso la Corte d’appello di Palermo, precisava che il precedente provvedimento aveva applicato l’indulto sul cumulo materiale (trentacinque anni di reclusione) e non su quello giuridico (trenta anni di reclusione), sicchè, nonostante l’applicazione dell’indulto, la pena da espiare era pari a trenta anni di reclusione.

3. Sulla base di tali premesse fattuali il provvedimento oggetto del presente ricorso osservava che la "non ottimale chiarezza" dell’ordinanza del 21 febbraio 2008 non poteva avere dato luogo ad alcuna giudicato, sicchè, oltre che opportuna, l’ordinanza del 24 giugno 2009, era sicuramente legittima.

Rilevava, inoltre, che l’istanza avanzata da G. il 15 giugno 2012, volta ad ottenere l’annullamento dell’ordinanza del 24 giugno 2009, si sostanziava in una mera opposizione al provvedimento del 24 giugno 2009 e, in quanto tale, risultava proposta fuori termine. La stessa, inoltre, riproponeva le medesime richieste, già disattese dalla Corte d’assise d’appello con altra ordinanza del 9 novembre 2009.

Quand’anche, poi, si ritenessero fondate le doglianze del ricorrente circa l’esatta interpretazione della sua domanda, volta in realtà ad ottenere soltanto che, in presenza di due diverse e contrapposte ordinanze emesse dalla medesima Autorità giudiziaria in materia di applicazione dell’indulto ex L. n. 241 del 2006, sia ritenuta definitiva e insuscettibile di successiva modificazione, in assenza di nuovi elementi di fatto, quella emessa per prima e più favorevole (nel caso in esame quella in data 21 febbraio 2008 messa in esecuzione dal Pubblico ministero), è in ogni caso indubitabile che, in materia esecutiva, non può parlarsi di "giudicato" e che il giudice dell’esecuzione ha, sia pure in diversa composizione, il potere di chiarire la portata applicativa di un precedente provvedimento.

Nel merito, infine, il giudice dell’esecuzione argomentava che era improprio il riferimento alla decisione delle Sezioni Unite di questa Corte (Sez. Un. n. 36837 del 15 luglio 2010), non concernente una questione analoga a quella in esame, e che doveva, pertanto, essere riconfermato l’indirizzo interpretativo per il quale è da escludere che nel novero delle pene non eseguibili per qualsiasi causa debbano includersi anche quelle residuate dopo l’applicazione del criterio moderatore di cui all’art. 78 c.p.. Quest’ultima disposizione normativa ha la sola finalità di prevedere (contenendolo) il massimo della pena da espiare, ma non incide sulle pene residuali, non estinguendole nè escludendone in via definitiva l’esecutività, tanto meno per agevolare il duplice ingiustificato abbattimento della pena.

4. Avverso il suddetto provvedimento ha proposto ricorso per cassazione, tramite il difensore di fiducia, G., il quale lamenta violazione di legge ed erronea applicazione della legge processuale penale sotto i seguenti profili. L’ordinanza del 21 febbraio 2008 doveva ritenersi ormai definitiva, atteso che non era stata impugnata e aveva formato oggetto di esecuzione da parte della Procura generale che, per effetto dell’applicazione dell’indulto ex L. n. 241 del 2006, aveva detratto tre anni di reclusione dai complessivi trenta anni con conseguente rideterminazione della pena in ventisette anni di reclusione. Il principio della preclusione processuale opera anche in sede esecutiva, siccome principio di carattere generale dell’ordinamento processuale.

Deduce, inoltre violazione dell’art. 174 c.p., comma 2 e art. 78 c.p., comma 1, osservando che, nel caso in esame, il condannato, nel riproporre in via subordinata la questione dell’applicazione dell’indulto sul cumulo giuridico anzichè su quello materiale, aveva fatto riferimento proprio ad una decisione, sia pure incidentale delle Sezioni Unite che, in base a quanto statuito dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 18288 del 21 gennaio 2010, legittima la riproposizione della questione prima accolta con l’ordinanza del 21 febbraio 2008, riformata in peius dall’ordinanza 24 giugno 2009.

Motivi della decisione

Il ricorso è manifestamente infondato.

1. Il principio del ne bis in idem permea l’intero ordinamento giuridico e fonda il preciso divieto di reiterazione dei procedimenti e delle decisioni sull’identica regiudicanda, in sintonia con le esigenze di razionalità e di funzionalità connaturate al sistema. A tale divieto va, pertanto, attribuito, il ruolo di principio generale dell’ordinamento dal quale, a norma dell’art. 12 preleggi, comma 2, il giudice non può prescindere quale necessario referente dell’interpretazione logico-sistematica.

La matrice del divieto del ne bis in idem deve essere identificata nella categoria della preclusione processuale. Ancor prima di esplicarsi quale limite estremo segnato dal giudicato, la preclusione assolve la funzione di scandire i singoli passaggi della progressione del processo e di regolare i tempi e i modi dell’esercizio dei poteri delle parti e del giudice, dai quali quello sviluppo dipende, con la conseguenza che la preclusione rappresenta il presidio apprestato dall’ordinamento per assicurare la funzionalità del processo in relazione alle sue peculiari conformazioni risultanti dalle scelte del legislatore. Il processo, infatti, quale sequenza ordinata di atti, modulata secondo un preciso ordine cronologico di attività, di fasi e di gradi, è legalmente tipicizzato in conformità di determinati criteri di congruenza logica e di economicità procedimentale in vista del raggiungimento di un risultato finale, nel quale possa realizzarsi l’equilibrio tra le esigenze di giustizia, di certezza e di economia.

Questa impostazione teorica, comunemente accolta anche dalla dottrina processuale penalistica, rende evidente che la preclusione costituisce un istituto coessenziale alla stessa nozione di processo, non concepibile se non come serie ordinata di atti normativamente coordinati tra toro, ciascuno dei quali – all’interno dell’unitaria fattispecie complessa a formazione successiva – è condizionato da quelli che lo hanno preceduto e condiziona, a sua volta, quelli successivi secondo precise interrelazioni funzionali. L’istituto della preclusione, attinente all’ordine pubblico processuale, è intrinsecamente qualificato dal fatto di manifestarsi in forme differenti, accomunate dal risultato di costituire un impedimento all’esercizio di un potere del giudice o delle parti in dipendenza dell’inosservanza delle modalità prescritte dalla legge processuale, o del precedente compimento di un atto incompatibile, ovvero del pregresso esercizio dello stesso potere. In quest’ultima ipotesi la preclusione è normalmente considerata quale conseguenza della consumazione del potere. Nel perimetro della preclusione-consumazione ricade, oltre all’esercizio dell’azione penale, anche il potere di ius dicere ad opera del giudice, secondo quanto costantemente affermato dalla consolidata giurisprudenza di questa Corte (cfr.

Cass., Sez. Un. 28 giugno 2005, n. 34655, rv. 231799; Cass., Sez. Un. 14 luglio 2004, rv. 228666; Cass., Sez. Un. 31 marzo 2004, rv.

227358; Cass., Sez. Un. 18 maggio 1994, r. 198543; Cass., Sez. Un. 29 maggio 2002, rv. 221999; Cass., Sez. Un. 22 marzo 2000, rv. 216004;

Cass., Sez. Un. 19 gennaio 2000, rv. 216239; Cass., Sez. Un. 23 febbraio 2000, rv. 215411; Cass, Sez. Un., 10 dicembre 1997, rv.

209603; Cass., Sez. Un. 31 luglio 1997, rv. 208220; Cass., Sez. Un., 26 marzo 1997, rv. 207640; Cass., Sez. Un. 18 giugno 1993, rv.

194061; Cass., Sez. Un. 8 luglio 1994, rv. 198213; Cass., Sez. Un. 23 novembre 1990, rv. 186164; Corte Cost., sent. n. 318 del 2001, n. 144 del 1999, n. 27 del 1995).

2. Tanto premesso il Collegio osserva che, nel caso in esame, sussiste una preclusione processuale all’esame delle questioni poste dal ricorrente, atteso che le stesse hanno formato oggetto di precedenti decisioni ormai definitive sulla medesima questione.

2.1. Invero, come esattamente rilevato dal giudice dell’esecuzione, con l’ordinanza del 21 febbraio 2008 la Corte d’appello di Palermo, investita della richiesta avanzata da G., volta ad ottenere l’applicazione dell’indulto ex L. n. 241 del 2006 sulla pena di trenta anni di reclusione, inflitta con sentenza della Corte d’assise d’appello del 18 marzo 2000 (irrevocabile il 21 giugno 2001), richiamava, innanzitutto, i criteri con cui si era pervenuti alla determinazione della pena finale di trenta anni di reclusione: pena base per il delitto di omicidio (capo 43): anni 28 di reclusione;

aumento di cinque anni per il delitto di cui all’art. 416 bis c.p. (capo 2); aumento di un anno per il delitto di cui al capo 42;

aumento di un anno per il delitto di cui al capo 44; applicazione del criterio moderatore di cui all’art. 78 c.p.. Sulla base di tale premessa in fatto e richiamati i principi costantemente enunciati dalla giurisprudenza di questa Corte in tema di limiti di applicabilità dell’indulto in presenza di un provvedimento di unificazione di pene concorrenti, comprensivo anche di reati ostativi all’applicabilità del beneficio indulgenziale, e di necessità dello scioglimento del cumulo ai fini del riconoscimento del beneficio ai soli delitti non ostativi, riconosceva il diritto di G. all’applicazione dell’indulto ex L. n. 241 del 2006 nella misura di tre anni ai soli reati non ostativi.

2.2. La successiva ordinanza del 24 giugno 2009 del medesimo giudice dell’esecuzione si pronunciava su un duplice oggetto: a) la richiesta avanzata dal Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Palermo, quale organo competente a curare l’esecuzione, volta a stabilire se l’indulto ex L. n. 241 del 2006 fosse da applicare alla pena di 35 anni di reclusione, determinata ai sensi dell’art. 73 c.p., oppure su quella di trenta anni di reclusione conseguente all’applicazione del criterio moderatore; b) la domanda formulata da G., volta ad ottenere l’applicazione dell’indulto ex D.P.R. 22 dicembre 1990, n. 394 sulla medesima sentenza.

In tale contesto la Corte d’appello di Palermo rigettava l’istanza di applicazione dell’indulto ex D.P.R. n. 394 del 1990 e, con riferimento al beneficio indulgenziale di cui alla L. n. 241 del 2006 rilevava esattamente quanto segue. Occorreva procedere al preventivo scioglimento del cumulo; l’applicazione dell’indulto ex L. n. 241 del 2006 nella misura di tre anni operava solo in relazione al cumulo delle pene condonabili pari a trenta anni di reclusione così determinati: pena base di anni 28 irrogata per il delitto di omicidio; pena di un anno di reclusione per il delitto di sequestro di persona; pena di un anno di reclusione per il delitto di distruzione di cadavere). Chiariva, altresì, che, effettuata tale operazione, era necessario procedere ad un nuovo cumulo tra la pena di ventisette anni di reclusione e la pena di cinque anni di reclusione inflitta per il delitto di cui all’art. 416-bis c.p., non ricompreso nell’ambito applicativo della L. n. 241 del 2006. La pena così calcolata era soggetta al criterio moderatore di cui all’art. 78 c.p. e, pertanto, doveva essere determinata in trenta anni di reclusione.

2.3. Con successiva ordinanza del 9 novembre 2009 la Corte d’appello dichiarava inammissibile l’opposizione proposta da G. G. avverso il precedente provvedimento del 24 giugno 2009 per omesso rispetto del termine stabilito a pena di decadenza dall’art. 667 c.p.p., comma 4.

2.4. Sulla base di questi elementi di fatto puntualmente riepilogati, correttamente la Corte d’appello di Palermo, quale giudice dell’esecuzione, ha ritenuto sussistente, in assenza di nuovi elementi, la preclusione ad un nuovo esame delle medesime questioni che erano già state esaminate dall’ordinanza del 24 giugno 2009, divenuta definitiva a seguito dell’omessa tempestiva presentazione dell’opposizione da parte dell’interessato.

3. Contrariamente a quanto prospettato dalla difesa, non si è, quindi, in presenza di un’ipotesi disciplinata dall’art. 669 c.p.p., atteso l’univoco disposto delle ordinanze del 21 febbraio 2008 e del 24 giugno 2009 che hanno concordemente riaffermato il seguente principio di diritto, costantemente enunciato dalla giurisprudenza di legittimità.

La regola dettata dall’art. 174 c.p., comma 2, in base al quale, nel concorso di più reati, l’indulto si applica una sola volta, dopo avere provveduto al cumulo delle pene, secondo le norme concernenti il concorso di reati, opera solo alla condizione che tutte le pene siano condonabili, giacchè nessuna causa di estinzione della pena può incidere su un cumulo che comprenda sanzioni sulle quali la stessa causa non può esplicare i suoi effetti. In questo caso, infatti, occorre, innanzitutto, separare le pene condonabili da quelle non condonabili, procedere, quindi, alla unificazione delle pene non condonabili con la parte di quelle condonabili, residuata dopo l’applicazione del beneficio indulgenziale, ed effettuare, infine, all’esito di tale operazione, la riduzione prevista dall’art. 78 c.p..

La circostanza che la applicazione di tale principio renda di fatto inoperante il riconoscimento dell’indulto non appare, in un’ottica logico-sistematica, dirimente; la pratica inoperatività dell’effetto estintivo dell’indulto deriva dal fatto che la pena, pur ridotta per la corretta applicazione del beneficio indulgenziale, entrando nel cumulo, porta la pena complessivamente determinata con calcolo aritmetico a livelli superiori a quelli previsti dal cumulo giuridico e lascia invariato il limite massimo, pur potendo il beneficio rilevare ad altri fini (Sez. 1, 21.1.2009, n. 5978; Sez. 1, 13.11.2007, n. 43684; Sez.l, 11.5.2006, n. 19339; Sez. 1, 20.2.1996, n. 1123; Sez. 1, 18.7.1994, n. 3628).

Alla luce di questi principi appare, all’evidenza, rispettosa del dettato normativo la soluzione reiteratamente adottata dal giudice dell’esecuzione che ha argomentato che, se una delle pene diventa in tutto o in parte ineseguibile, la conseguente detrazione va operata non sull’entità della pena stabilita all’esito dell’applicazione del criterio moderatore ex art. 78 c.p., ma sulle frazioni di pena che compongono il cumulo materiale.

Inconferente, pertanto, in tale prospettiva appaiono il richiamo all’art. 73 c.p. e l’invito ad una lettura dell’art. 76 c.p. che, prescindendo dalla clausola di sussidiarietà presente in tale disposizione, tende a prospettare un’interpretazione della legge penale distonica rispetto al chiaro disposto letterale e logico- sistematico dell’art. 174 c.p., comma 2.

Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso consegue di diritto la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, in mancanza di prova circa l’assenza di colpa nella proposizione dell’impugnazione (Corte Cost. sent. n. 186 del 2000), al versamento della somma di mille Euro alla cassa delle ammende.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di mille euro alla cassa delle ammende.

Così deciso, in Roma, il 11 ottobre 2013.

Depositato in Cancelleria il 2 dicembre 2013

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *