T.A.R. Lazio Roma Sez. II, Sent., 31-01-2011, n. 863

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/




Svolgimento del processo

Con il ricorso in esame la ricorrente società chiede l’annullamento del decreto del Ministero dell’economia e delle finanze del 17 ottobre 2088 recante "determinazione del prezzo minimo di vendita al pubblico delle sigarette" (e comunque la sua non applicazione) e di ogni altro atto a questo presupposto, connesso e conseguente, ed, in particolare, del decreto del 25 luglio 2005, con il quale è stato introdotto il prezzo minimo di vendita delle sigarette.

E’ chiesto, peraltro, il risarcimento del danno.

Premette in fatto di essere una società che importa tabacchi lavorati, la quale ha affidato ad altra società l’insieme dei servizi di logistica, amministrazione e gestione dati connessi allo scarico, immagazzinamento e rivendita al dettaglio dei propri prodotti.

Rileva quindi che, in applicazione dell’art. 1 comma 386 della legge 30 dicembre 2004 n. 311, il quale stabilisce che "per il perseguimento di obiettivi di pubblico interesse, ivi compresi quelli di difesa della salute pubblica, con provvedimento direttoriale del Ministero dell’economia e delle finanze – Amministrazione autonoma dei monopoli di Stato, sentito il Ministero della salute, possono essere individuati criteri e modalità di determinazione di un prezzo minimo di vendita al pubblico di tabacchi lavorati", è stato adottato il decreto del Ministero dell’economia e delle finanze 25 luglio 2005 con cui è stato introdotto il "prezzo minimo di vendita al dettaglio delle sigarette al di sotto del quale è vietata la commercializzazione dei prodotti". Il citato decreto inoltre stabilisce che "Il prezzo minimo di vendita è individuato in una percentuale del prezzo medio ponderato di vendita al dettaglio di tutte le sigarette inscritte nella tariffa ed effettivamente commercializzate. Il valore assoluto del prezzo minimo non può essere superiore al prezzo registrato dalla sigaretta più venduta, così come individuata ai sensi del secondo comma dell’art. 9 della legge 7 marzo 1985, n. 76, e successive modificazioni".

Da ultimo, considerata "la necessità di adeguare il prezzo minimo di vendita al pubblico delle sigarette con le modalità previste dal decreto direttoriale 25 luglio 2005" è intervenuto – appunto in attuazione del decreto 25 luglio2005 – il decreto ministeriale del 17 ottobre 2008, il cui annullamento è chiesto con il presente ricorso (unitamente al citato decreto presupposto). In concreto, con il decreto 17 ottobre 2008 è stato determinato il prezzo minimo di vendita al pubblico a 3,60 euro per il pacchetto da 20 sigarette e a 1,80 euro per il pacchetto da 10 sigarette, confermandosi per il resto le disposizioni del citato decreto direttoriale 25 luglio 2005.

A sostegno del proposto ricorso si deduce violazione ed erronea interpretazione e falsa applicazione della Direttiva del Consiglio dell’Unione Europea 95/59; illegittimità propria e derivata. In altri termini, con la fissazione di un prezzo minimo l’Italia è venuta meno, ad avviso della ricorrente, agli obblighi che le incombono in forza dell’art. 9 della citata Direttiva relativa alle imposte diverse dall’imposta sul volume d’affari che gravano sul consumo dei tabacchi lavorati. E comunque, a prescindere dalla violazione della Direttiva citata, la ricorrente deduce la illegittimità dell’avversato decreto anche con riguardo all’art. 30 del Trattato CE, nel senso che esso non può trovare supporto sulla base della paventata tutela della salute pubblica ex art. 30 citato.

Si è costituita in giudizio l’intimata Amministrazione affermando la infondatezza del proposto ricorso e concludendo perché lo stesso venga respinto.

Con ordinanza 25 gennaio 2010 n. 149, questo Tribunale, "Considerato che la controversia si appalesa identica a quella oggetto della procedura C57108 (Commissione delle Comunità europee/Repubblica italiana) pendente innanzi alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea (G.U. dell’Unione Europea 7 marzo 2009C 55/13)" e che "in particolare, che in quella sede è stato richiesto di accertare, tra altro, se la Repubblica italiana, fissando un prezzo minimo per le sigarette, ha mancato agli obblighi ad essa incombenti in forza dell’art. 9, comma 1 della direttiva 95/59/CE’, ha sospeso "il processo sino alla definizione della procedura C57108 (Commissione delle Comunità europee/Repubblica italiana) pendente innanzi alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea". Essendo venuta meno la causa di sospensione del giudizio, la ricorrente ha, in riassunzione del ricorso, chiesto all’adito Tribunale di voler accogliere le richieste di cui al ricorso introduttivo.

Alla pubblica udienza del 17 dicembre 2010 il ricorso viene ritenuto in decisione in esito alla discussione orale.

Motivi della decisione

Il ricorso è fondato e va, pertanto, accolto ai sensi e nei limiti di seguito chiariti.

Rileva preliminarmente il Collegio che con l’art. 4 del decreto legislativo 29 marzo 2010 n. 48 è stato abrogato – con decorrenza 1° aprile 2010 – l’innanzi richiamato art. 1 comma 486 della legge 311 del 2004,e tuttavia lo stesso decreto legislativo ha modificato il D.Lgs. 26 ottobre 1995 n. 504, recante il Testo unico delle disposizioni legislative concernenti le imposte sulla produzione e sui consumi e relative sanzioni penali e amministrative, introducendo, sempre con decorrenza 1° aprile 2010, un nuovo art.. 39quater, rubricato "Tariffe di vendita", il quale dispone che "I prezzi di vendita al pubblico e le relative variazioni sono stabiliti in conformità a quelli richiesti dai fabbricanti e dagli importatori. Le richieste sono corredate, in relazione ai volumi di vendita di ciascun prodotto, da una scheda rappresentativa degli effetti economicofinanziari conseguenti alla variazione proposta" (comma 2) e che "Per il perseguimento di obiettivi di pubblico interesse, ivi compresi quelli di difesa della salute pubblica, con provvedimento del Direttore dell’Amministrazione autonoma dei monopoli di Stato, sentito il Ministero della salute, possono essere individuati criteri e modalità di determinazione di un prezzo minimo di vendita al pubblico dei tabacchi lavorati".

La causa di sospensione del presente giudizio è, come rileva la ricorrente, venuta meno per essere intervenuta la sentenza della III Sezione della Corte di Giustizia CE del 24 giugno 2010 con cui la Corte ha dichiarato e statuito che "La Repubblica italiana, prevedendo un prezzo minimo di vendita per le sigarette, è venuta meno agli obblighi che le incombono in forza dell’art. 9, n. 1, della direttiva del Consiglio 27 novembre 1995, 95/59/CE, relativa alle imposte diverse dall’imposta sul volume d’affari che gravano sul consumo dei tabacchi lavorati, come modificata dalla direttiva del Consiglio 12 febbraio 2002, 2002/10/CE’.

La causa innanzi al giudice comunitario è stata originata da ricorso per inadempimento, ai sensi dell’art. 226 CE, proposto il 22 dicembre 2008, dalla Commissione europea contro la Repubblica italiana. In particolare, la Commissione delle Comunità europee ha chiesto alla Corte di dichiarare che la Repubblica italiana, prevedendo un prezzo minimo per le sigarette, è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza dell’art. 9, n. 1, della direttiva del Consiglio 27 novembre 1995, 95/59/CE, come modificata dalla direttiva del Consiglio 12 febbraio 2002, 2002/10/CE. Per quanto qui più direttamente interessa, il citato art. 9, n. 1 stabilisce che "I produttori o, se del caso, i loro rappresentanti o mandatari nella Comunità, nonché gli importatori di paesi terzi stabiliscono liberamente i prezzi massimi di vendita al minuto di ciascuno dei loro prodotti per ciascuno Stato membro in cui sono destinati ad essere immessi in consumo". Detta disposizione "non osta, tuttavia, all’applicazione delle legislazioni nazionali sul controllo del livello dei prezzi imposti, sempreché siano compatibili con la normativa comunitaria".

Innanzi alla Corte, invero, la Repubblica italiana ha contestato l’inadempimento addebitatole sostenendo che il citato art. 9, n. 1 non incide sul diritto degli Stati membri di imporre un prezzo minimo di vendita per ragioni collegate alla tutela della sanità pubblica, posto che l’unico limite all’ambito di intervento degli Stati medesimi è quello fissato, in proposito, dall’art. 30 CE.

Ciò posto, la Corte di Giustizia è pervenuta alla già esposta conclusione muovendo dal preliminare richiamo al terzo "considerando" della direttiva 95/59 dal quale "emerge che essa si inserisce nel contesto di una politica di armonizzazione delle strutture dell’accisa dei tabacchi lavorati che mira ad evitare che la competitività delle varie categorie di tabacchi lavorati appartenenti ad uno stesso gruppo sia falsata e che, per tal via, sia realizzata l’apertura dei mercati nazionali degli Stati membri" ed al settimo "considerando" della direttiva medesima, secondo cui le esigenze della concorrenza implicano un sistema di prezzi che si formino liberamente per tutti i gruppi di tabacchi lavorati.

Ciò premesso, ad avviso della Corte (che richiama propria costante giurisprudenza) la disposizione di cui all’art. 9. n. 1 "mira a garantire che la determinazione della base imponibile dell’accisa proporzionale sui prodotti del tabacco, vale a dire il prezzo massimo di vendita al minuto di tali prodotti, sia sottoposta alle stesse regole in tutti gli Stati membri. Essa mira altresì a tutelare la libertà degli operatori sopracitati, che consente loro di beneficiare effettivamente del vantaggio concorrenziale risultante da eventuali prezzi di costo inferiori". Pertanto, prosegue la Corte, "l’imposizione di un prezzo minimo di vendita al minuto ad opera delle autorità pubbliche fa sì che il prezzo massimo di vendita al minuto stabilito dai produttori e dagli importatori non possa essere in alcun caso inferiore a tale prezzo minimo obbligatorio. Una normativa che impone un siffatto prezzo minimo è quindi idonea ad arrecare pregiudizio alle relazioni concorrenziali, impedendo a taluni di questi produttori o importatori di trarre vantaggio da prezzi di costo inferiori per proporre più allettanti prezzi di vendita al minuto". Di qui l’affermazione per cui "un sistema di prezzi minimi di vendita al minuto dei prodotti del tabacco lavorato non può essere considerato compatibile con l’art. 9, n. 1, della direttiva 95/59, ove non sia strutturato in modo tale da escludere, in ogni caso, che risulti pregiudicato il vantaggio concorrenziale che potrebbe risultare, per taluni produttori o importatori di prodotti siffatti, da prezzi di costo inferiori e che, pertanto, si produca una distorsione della concorrenza". Questi sono dunque i principi alla luce dei quali la Corte ha poi proceduto ad esaminare la normativa nazionale. La Corte ha affermato che la normativa italiana (la quale, si rammenta, impone ai produttori e agli importatori attivi sul mercato italiano un prezzo minimo di vendita al minuto delle sigarette, sotto forma di una percentuale del prezzo medio ponderato di vendita al minuto di tutte le sigarette iscritte nella tariffa di vendita al pubblico ed effettivamente commercializzate) "non consente di escludere, in ogni caso, che il prezzo minimo imposto pregiudichi il vantaggio concorrenziale che potrebbe risultare, per taluni produttori o importatori di prodotti del tabacco, da prezzi di costo inferiori. Al contrario,….allineando ai prezzi più elevati i prezzi di vendita al minuto delle sigarette che si situano nella parte inferiore della forcella di prezzi, tende a neutralizzare le differenze di prezzo tra i vari prodotti". Con la conseguenza che "detto regime pregiudica quindi la libertà dei produttori e degli importatori di stabilire il loro prezzo massimo di vendita al minuto, libertà garantita dall’art. 9, n. 1, secondo comma, della direttiva 95/59". Quanto alla tesi sostenuta in sede difensiva dal nostro Paese, secondo cui il regime di prezzi minimi sarebbe giustificato dall’obiettivo di tutela della salute e della vita delle persone di cui all’art. 30 CE, la Corte ha affermato che "detta disposizione non può essere intesa nel senso che consente ad una normativa nazionale di discostarsi da un obbligo espressamente sancito da una disposizione di una direttiva, ma deve intendersi nel senso che essa può essere invocata esclusivamente allo scopo di giustificare una restrizione agli artt. 28 CE e 29 CE’. Di sicuro interesse allora il passaggio della motivazione della Corte con il quale si chiarisce che, fermo restando che nell’attuazione di tutte le politiche ed attività della Comunità deve essere garantito un livello elevato di protezione della salute umana, il livello di imposizione fiscale è un elemento fondamentale del prezzo dei prodotti del tabacco, che a sua volta influenza le preferenze dei consumatori. Quindi, per i prodotti del tabacco, "la disciplina fiscale costituisce uno strumento importante ed efficace di lotta al consumo di tali prodotti e, pertanto, di tutela della sanità pubblica", con la conseguenza allora che "l’obiettivo di garantire che i prezzi di tali prodotti siano fissati a livelli elevati può essere adeguatamente perseguito mediante l’aumento dell’imposizione fiscale su tali prodotti, dal momento che gli aumenti dei diritti di accisa devono prima o poi tradursi in un aumento dei prezzi di vendita al minuto, senza con ciò compromettere la libertà di determinazione del prezzo".

Consegue, al chiaro ed inequivoco argomentare della pronuncia della Corte di Giustizia, la "illegittimità comunitaria" degli avversati decreti ministeriali, recante appunto fissazione del prezzo minimo dei tabacchi lavorati, i quale vanno dunque annullati, previa disapplicazione della legislazione nazionale (di cui gli stessi fanno invero applicazione) poiché contrastante con il diritto comunitario..

Ciò nel presupposto che, come afferma pacifica giurisprudenza, le pronunce della Corte di giustizia delle Comunità europee hanno efficacia diretta nell’ordinamento interno degli Stati membri, al pari dei regolamenti e delle direttive e delle decisioni della commissione, vincolando il giudice nazionale alla disapplicazione delle norme interne con esse configgenti (cfr. Cons.giust.amm. Sicilia, sez. giurisd., 25 maggio 2009, n. 470 e Consiglio Stato, sez. V, 13 luglio 2006, n. 4440).

Sussiste, infatti, un obbligo, per il giudice nazionale, di interpretare le norme nazionali in conformità al diritto comunitario, ovvero di procedere in via immediata e diretta alla loro disapplicazione in favore del diritto comunitario, previa eventuale pronuncia (come nel caso di specie) del giudice comunitario ma senza dover transitare per il filtro dell’accertamento della loro incostituzionalità sul piano interno (cfr. T.A.R. Lazio Roma, sez. II, 18 maggio 2010, n. 11984). Si tratta, in sostanza, del principio della primauté del diritto comunitario, in forza del quale deve essere disapplicata qualsiasi disposizione della legislazione nazionale in contrasto con una norma comunitaria, indipendentemente dal fatto che sia anteriore o posteriore a quest’ultima, incombendo tale obbligo di disapplicazione sul giudice nazionale e su tutti gli organi dello Stato (cfr.T.A.R. Sicilia Catania, sez. IV, 25 febbraio 2010, n. 395).

Ed infatti, non vanno disapplicati gli avversati decreti ministeriali, che costituiscono ordinaria esplicazione di potere amministrativo, quanto è piuttosto la normativa pro tempore vigente (ed invero successivamente abrogata ed al contempo riscritta), segnatamente l’art. 1 comma 486 della legge 30 dicembre 2004 n. 311, a dover essere disapplicata poiché appunto configgente con l’art. 9 n. 1 della Direttiva del Consiglio dell’Unione Europea n. 95/59; laddove gli avversati decreti ministeriali vanno annullati poiché illegittimi per violazione delle richiamate disposizioni comunitarie, per come del resto argomentatamene dedotto dalla ricorrente. Del resto, avuto riguardo ai decreti ministeriali impugnati, la violazione dell’ordinamento comunitario altro non è che una violazione di legge e dunque sostanzia una ordinaria fattispecie di illegittimità dell’atto conducente al suo annullamento.

Va quindi ribadita condivisibile giurisprudenza amministrativa, a mente della quale la violazione, da parte dell’atto amministrativo nazionale, di norme appartenenti al diritto comunitario (primario o derivato), comporta una illegittimità dell’atto da inquadrare nell’ambito dell’annullabilità, con conseguente applicabilità, nei suoi confronti, delle ordinarie regole sostanziali e processuali in materia di efficacia, di inoppugnabilità per decorso dei termini di impugnazione e di non disapplicabilità dell’atto in sede di giurisdizione amministrativa (cfr. T.A.R. Sardegna Cagliari, sez. I, 11 luglio 2008, n. 1367). Come già rilevato, infatti, la violazione della disposizione comunitaria implica un vizio di illegittimità dell’atto interno (e non di nullità dello stesso), che comporta, alla stregua degli ordinari canoni di valutazione della patologia dell’atto amministrativo, l’annullabilità di quest’ultimo, che può conseguirsi solo attraverso la sua impugnazione dinanzi al g.a. ovvero attraverso l’esercizio degli ordinari poteri di autotutela (cfr. Consiglio Stato, sez. VI, 20 maggio 2005, n. 2566).

Quanto alla richiesta di risarcimento del danno, invero introdotta già con il ricorso originario, essa è ancorata – nella esposizione di parte ricorrente – al calo delle vendite e quindi di fatturato conseguente all’aumento del prezzo minimo imposto dal decreto ministeriale impugnato, all’uopo indicando la medesima ricorrente una perdita di ricavi per euro 420.000,00.

La pretesa risarcitoria non è fondata.

Orbene, comè noto, il risarcimento del danno non è una conseguenza automatica dell’annullamento giurisdizionale del provvedimento impugnato, richiedendosi la positiva verifica di tutti i requisiti previsti, e cioè la lesione della situazione soggettiva tutelata, la colpa dell’amministrazione, l’esistenza di un danno patrimoniale e la sussistenza di un nesso causale tra l’illecito ed il danno subito e, riguardo all’elemento soggettivo, è indispensabile accedere ad una nozione di tipo oggettivo, che tenga conto dei vizi che inficiano il provvedimento, nonché, in conformità con quanto emerge dalle indicazioni della giurisprudenza comunitaria, della gravità della violazione commessa dall’amministrazione, anche alla luce dell’ampiezza delle valutazioni discrezionali ad essa rimesse, dei precedenti giurisprudenziali, delle condizioni concrete e dell’apporto dato dai privati nel procedimento (cfr., da ultimo, T.A.R. Lombardia Milano, sez. I, 14 giugno 2010, n. 1811).

Ciò posto, nella specie difetta, ad avviso del Collegio, l’elemento "colpa dell’amministrazione".

Al riguardo, è sufficiente osservare che la competente struttura burocratica chiamata dalla legge finanziaria a fissare le tariffe di vendita al pubblico delle sigarette non ha, appunto, fatto altro che dare applicazione ad un chiaro disposto normativo, quello (già richiamato in fatto) di cui all’art. 1 comma 386 della legge 30 dicembre 2004 n. 311, ai sensi del quale "per il perseguimento di obiettivi di pubblico interesse, ivi compresi quelli di difesa della salute pubblica, con provvedimento direttoriale del Ministero dell’economia e delle finanze – Amministrazione autonoma dei monopoli di Stato, sentito il Ministero della salute, possono essere individuati criteri e modalità di determinazione di un prezzo minimo di vendita al pubblico di tabacchi lavorati".

La circostanza per cui al Direttore generale dell’Amministrazione Autonoma dei Monopoli di Stato la stessa citata legge lasciasse spazi di discrezionale apprezzamento quanto ai criteri di determinazione del prezzo minimo, non leva che la "scelta" del prezzo minimo per le sigarette sia da ricondurre al legislatore nazionale.

Scelta che, come si è visto innanzi, è stata dalla Corte di Giustizia CE ritenuta incompatibile con la disciplina comunitaria.

E, tuttavia, non si può imputare all’amministrazione di non aver essa – con colpa – omesso di disapplicare la legge nazionale per incompatibilità con il diritto comunitario, non essendo così univoca la lettura della disposizione comunitaria assunta a parametro di riferimento. Lo stesso più volte citato art. 9 n. 1 della direttiva comunitaria n. 95/59 (peraltro espressamente richiamato nelle premesse del decreto in data 25 luglio 2005) stabilisce, infatti, che la regola dallo stesso posta per cui "i produttori o, se del caso, i loro rappresentanti o mandatari nella Comunità, nonché gli importatori di paesi terzi stabiliscono liberamente i prezzi massimi di vendita al minuto di ciascuno dei loro prodotti per ciascuno Stato membro in cui sono destinati ad essere immessi in consumo" "non osta, tuttavia, all’applicazione delle legislazioni nazionali sul controllo del livello dei prezzi imposti, sempreché siano compatibili con la normativa comunitaria".

Il legislatore nazionale, valorizzando in particolare tra gli interessi pubblici coinvolti quello alla difesa della salute pubblica, ha operato un discrezionale apprezzamento che rientra ovviamente nelle proprie prerogative. Che detto apprezzamento, conducente alla regola del prezzo minimo, sia stato poi ritenuto dalla Corte di Giustizia CE incompatibile con il diritto comunitario, non significa che in sede di attuazione della legislazione nazionale l’amministrazione italiana abbia agito in maniera illogica, arbitraria o manifestamente irragionevole.

Va quindi esclusa la sussistenza del profilo della colpa dell’amministrazione agente, con conseguente rigetto della richiesta di risarcimento del danno.

Conclusivamente, ribadite le svolte considerazioni, il Collegio accoglie il ricorso in esame quanto alla parte impugnatoria e, previa disapplicazione dell’art. 1 comma 486 della legge 30 dicembre 2004 n. 311, annulla gli avversati decreti ministeriali, e lo respinge limitatamente alla richiesta di risarcimento del danno.

Condanna la resistente Amministrazione al pagamento delle spese di giudizio in favore della ricorrente, che liquida in euro 3.000,00 (tremila(00).

P.Q.M.

definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie quanto alla parte impugnatoria e, previa disapplicazione dell’art. 1 comma 486 della legge 30 dicembre 2004 n. 311, annulla gli avversati decreti ministeriali, e lo respinge limitatamente alla richiesta di risarcimento del danno.

Condanna la resistente Amministrazione al pagamento delle spese di giudizio in favore della ricorrente, che liquida in euro 3.000,00 (tremila(00).

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 17 dicembre 2010 con l’intervento dei magistrati:

Luigi Tosti, Presidente

Silvestro Maria Russo, Consigliere

Salvatore Mezzacapo, Consigliere, Estensore

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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