Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 11-10-2013) 06-02-2014, n. 5781

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/




Svolgimento del processo

Con sentenza dell’11.4.2012, la Corte d’Appello di Torino confermava la decisione del Gip di Vercelli che aveva condannato B. A. alla pena di anni due mesi otto di reclusione e Euro 1.200,00 di multa per i reati di usura e di estorsione.

Ricorre per cassazione l’imputato, deducendo: 1) la violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. b) e e), per errata interpretazione della legge penale e mancanza e manifesta illogicità della motivazione, la violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. b)e e) in relazione alle dichiarazioni della parte offesa, che ha riferito di aver ricevuto minacce solo dal P., e in particolare alla compatibilità delle stesse con quelle dell’imputato, dalla stessa indicato come amico interessato ai suoi problemi economici; 2) per errata interpretazione della legge penale e mancanza e manifesta illogicità della motivazione, la violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. b) e e), per errata interpretazione della legge penale e mancanza e manifesta illogicità della motivazione in riferimento all’art. 192 c.p.p. e art. 530 c.p.p., comma 2, in quanto la versione dell’imputato è perfettamente coincidente con quella della parte offesa, e pertanto anche in presenza di altri elementi, sia in relazione al reato di usura che a quello di estorsione, si imponeva una pronuncia assolutoria ex art. 530 cpv c.p. per insufficienza e contraddittorietà della prova; 3) la violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. b) e e), per errata interpretazione della legge penale e mancanza e manifesta illogicità della motivazione in relazione all’insussistenza di entrambi i reati e all’applicazione dell’art. 110 c.p.: il reato di usura non sussiste in quanto le minacce per ottenere il pagamento degli interessi pattuiti sarebbero state usate "ab initio" e il B. non ha posto in essere alcun atto estorsivo nei confronti della Ba. che possano avere in qualche modo causalmente reso un contributo alla verificazione del fatto, essendosi limitato a mettere in contatto la Ba. con il P. unicamente per aiutare l’amica in difficoltà; le condotte di entrambi i reati sono comunque attribuibili unicamente al coimputato, e non al B. a titolo di concorso; 4) la violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. b)., per errata interpretazione della legge penale in relazione all’art. 62 c.p., comma 4 in assenza di concreto pregiudizio da parte della parte offesa; 5) la violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. b), per errata interpretazione della legge penale in relazione all’art.62 bis c.p.; 6) la violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. b) e e), per errata interpretazione della legge penale e mancanza e manifesta illogicità della motivazione in relazione all’eccessivo aumento della pena in continuazione.

Chiede pertanto l’annullamento della sentenza.

Motivi della decisione

Con il primo motivo, il ricorrente ha dedotto vizio di motivazione in ordine alla ritenuta responsabilità attesa la illogicità di alcune argomentazioni al riguardo sviluppate, e al fatto che la versione difensiva sostenuta dal B. è stata sommariamente disattesa sia dal Tribunale che dai Giudici d’Appello, i quali hanno omesso di svolgere alcun tipo di considerazione sulla valenza probatoria delle dichiarazioni dell’imputato, pur confermate da quelle della parte offesa, se adeguatamente valutate e considerate. Con il terzo motivo, è prospettato il medesimo vizio, anche sotto il profilo del travisamento della prova in riferimento agli atti allegati (verbale di interrogatorio del B. e incidente probatorio per l’esame della parte offesa) e l’erronea applicazione della legge penale in riferimento al concorso nei reati di usura e di estorsione da parte dell’imputato, essendosi l’imputato limitato a mettere in contatto la Ba. con il P., nonchè in ordine al concorso di entrambi i reati dal momento che la parte offesa ha più volte evidenziato il fatto che la prospettazione di conseguenze di una certa gravità, a fronte del pagamento del debito contratto, sia stata immediata;

pertanto non è configurabile il reato di usura essendo le presunte minacce provenienti dall’imputato del tutto contestuali alla promessa degli interessi usurari.

Le censure sono entrambe del tutto inammissibili posto che solo formalmente vengono evocate violazioni della legge penale, e che – con riguardo alla ritenuta responsabilità per i reati di usura ed estorsione – si muovono non già precise contestazioni di illogicità argomentativa, ma solo doglianze di merito, non condividendosi dal ricorrente le conclusioni attinte ed anzi proponendosi versioni più persuasive di quelle dispiegate nella sentenza impugnata.

Con il secondo motivo si è prospettata l’inosservanza ed erronea applicazione della legge penale con riferimento all’art. 192 c.p.p. e art. 530 c.p.p., comma 2. In sostanza, il ricorrente si duole del fatto che a fronte del generale quadro probatorio, e in particolare dell’assoluta conciliabilità della versione dell’imputato con quella della parte offesa, nonostante la presenza degli altri elementi richiamati in sentenza a sostegno della tesi accusatoria, la Corte avrebbe dovuto comunque pervenire ad una pronuncia assolutoria per entrambi i reati quantomeno ai sensi dell’art. 530 c.p.p., comma 2 che impone tale pronuncia in caso di insufficienza o contraddittorietà della prova. Anche tale doglianza è priva di consistenza e formulata in termini di una inammissibile richiesta di rivalutazione di fatti. La Corte di merito ha ritenuto con congrua motivazione priva di evidenti vizi logici che la responsabilità del B. per entrambi i reati emerge con chiarezza dalle dichiarazioni della Ba., riscontrate da quelle di D.V. G., dipendente del P., il quale ha riferito che ogni volta che la Ba. passava dal distributore di benzina per parlare con il P., dopo poco giungeva anche il B., "il quale si chiudeva nel gabbiotto per parlare con il P.", dall’esame dei tabulati telefonici (dai quali era emerso che il P. subito dopo aver contattato o visto la Ba., contattava o veniva contattato dal B.), e dal servizio di osservazione effettuato dagli operanti in data (OMISSIS) (nel corso del quale il B. era stato visto "giungere presso il distributore del P., proprio nel momento che la Ba. si era allontanata dopo aver consegnato le ultime due cambiali"). Le minacce vennero poi profferite non solo dal P., ma anche dal B., successivamente alla stipula del patto usurario, e avendo il B. agito in concorso con il P., "ogni minaccia posta in essere materialmente da quest’ultimo è ascrivibile anche al B." (v. pagg. 6-9 della sentenza impugnata). E contro tali valutazioni sono dal motivo in esame formulate mere contestazioni di veridicità, in un impensabile tentativo di ottenere da questa Corte di legittimità un revisione di merito delle valutazioni stesse.

I motivi quarto, quinto, e sesto relativi al trattamento sanzionatorio oltre che manifestamente infondati sono del tutto generici, non tenendo conto delle argomentazioni esposte dalla sentenza impugnata; l’attenuante di cui all’art. 62 c.p., n. 4 è stata correttamente esclusa, in quanto i delitti di usura e di estorsione non sono stati commessi per ottenere un lucro di speciale tenuità, e le attenuanti generiche alla luce della notevole gravità dei fatti, dei precedenti dell’imputato e del suo comportamento processuale. La pena è stata poi determinata partendo dal minimo edittale del reato di estorsione, ridotto nella massima estensione per il riconoscimento dell’attenuante di cui all’art. 62 c.p., n. 4, e l’aumento per la continuazione per il reato di usura è stato contenuto in soli otto mesi.

Il ricorso va pertanto dichiarato inammissibile.

Ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., con il provvedimento che dichiara inammissibile il ricorso, l’imputato che lo ha proposto deve essere condannato al pagamento delle spese del procedimento, nonchè – ravvisandosi profili di colpa (v. Corte Cost. sent. n. 186/2000), nella determinazione della causa di inammissibilità – al pagamento a favore della Cassa delle ammende della somma di mille Euro, così equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro mille alla Cassa delle ammende.

Così deciso in Roma, il 11 ottobre 2013.

Depositato in Cancelleria il 6 febbraio 2014

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