Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 11-10-2013) 22-01-2014, n. 2934

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/




Svolgimento del processo
1. R.A., impugna per cassazione, personalmente, la sentenza della Corte di Appello di Roma, che per quanto d’interesse, aveva confermato quella di primo grado che lo aveva condannato, previo riconoscimento delle attenuanti generiche, alla pena di anni 1 e mesi 6 di reclusione, siccome colpevole delitto di favoreggiamento della permanenza nel territorio dello Stato di stranieri clandestini (capo H della rubrica), contestatogli per avere in (OMISSIS), in veste di dottore commercialista, concorso con T. G. nella presentazione di false dichiarazioni di emersione di immigrati cinesi, nelle quali si affermava l’avvenuta assunzione degli stessi da parte di fittizi datori di lavoro i cui dati erano in possesso dell’imputato, per essere stati, in passato, suoi clienti.
2. Nel ricorso, mentre non si contesta specificamente l’esistenza di elementi di prova a carico dell’imputato relativamente alla condotta a lui contestata, si deduce:
1) inosservanza ed erronea applicazione di legge, in relazione al mancato riconoscimento della desistenza volontaria di cui all’art. 56 c.p., comma 3, emergendo dalle intercettazioni telefoniche versate in atti e dall’interrogatorio dell’imputato, come questi, dopo aver accettato l’offerta di procacciare, a fronte di un corrispettivo, dei datori di lavoro disponibili ad assumere lavoratori stranieri come colf o badanti, beneficiando della sanatoria del 2009, si era subito dopo dichiarato non più disponibile a collaborare con il T., tanto da venire ripetutamente rimproverato dal coimputato, enumerando, a tal fine, tutte le conversazioni che assevererebbero tale tesi difensiva, incongruamente disattesa dai giudici di merito, i quali, sostenendo che l’imputato non avrebbe restituito il compenso percepito per l’indicazione dei datori di lavoro, e ciò sebbene fossero stati prodotti i vaglia postali comprovanti l’avvenuta restituzione, hanno privilegiato il solo dato formale della presentazione delle dichiarazioni, svalutando il dato dell’avvenuto abbandono del proposito criminoso, pur determinante ai fini della mancata attuazione del proposito delittuoso;
2) mancanza di motivazione, con riferimento alla denunciata eccessività della pena, sensibilmente maggiore rispetto al minimo legale, in quanto i giudici di merito avrebbero dovuto fornire più adeguata spiegazione di tale decisione, e non già limitarsi ad affermare che quella determinata era una pena adeguata e proporzionata alla gravità dei fatti, atteso anche il riconoscimento delle attenuanti generiche con implicito giudizio di prevalenza.
Motivi della decisione
1. L’impugnazione proposta da R.A. è basata su motivi infondati e va pertanto rigettata.
1.1 Quanto al primo motivo, per evidenziarne l’infondatezza è sufficiente rimarcare che la condotta accertata configura senz’altro il reato per il quale è intervenuta condanna. L’imputato, agendo in concorso con il T., ha infatti fornito a quest’ultimo i dati di fittizi datori di lavoro – in suo possesso essendo stato l’imputato il loro commercialista – che sono stati utilizzati per la presentazione di false dichiarazioni di emersione di cittadini extracomunitari irregolarmente soggiornanti sul territorio italiano, il tutto dietro la percezione di un compenso in denaro, ricavato da quanto versato dai cittadini extracomunitari contattati. La condotta, sì come descritta ed accertata, configura quindi senz’altro il reato addebitato: si consideri, a tal proposito, quanto affermato da Sez. 1, n. 40320 del 09/10/2008 – dep. 29/10/2008, xxx e altro, Rv.
241434, secondo cui ad integrare il reato in questione non occorre che la regolarizzazione della posizione degli extracomunitari pervenga ad un esito positivo mediante rilascio del permesso di soggiorno, non essendo tanto richiesto dalla norma incriminatrice, che contempla qualsiasi attività con cui si favorisca la permanenza degli stranieri nel territorio dello Stato e, dunque, anche ogni attività propedeutica all’avvio delle pratiche di regolarizzazione, cui indubitabilmente tendeva la presentazione delle dichiarazioni di emersione, ritenute, con non più sindacabile giudizio di fatto, fittizie.
1.2 Del tutto incongrua si rivela in particolare la deduzione difensiva relativa alla pretesa configurabilità di un’ipotesi di desistenza.
Ribadito infatti il principio, già affermato da questa Corte regolatrice, secondo cui integra il più grave delitto di favoreggiamento dell’illegale permanenza dello straniero nel territorio dello stato (D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 12, comma 5), e non il reato previsto dal D.L. n. 78 del 2009, art. 1 ter, comma 15, convertito nella L. n. 102 del 2009), la condotta criminosa consistente nella presentazione di false dichiarazioni di emersione di lavoro irregolare, se sorretta anche dallo specifico ed ulteriore fine di trarre un ingiusto profitto dalla condizione di illegalità dello straniero. (Sez. 1, n. 8529 del 09/01/2013 – dep. 21/02/2013, xxx, Rv. 254925), occorre allora considerare che l’integrazione della desistenza volontaria, ex art. 56 c.p., comma 3 richiede che il soggetto attivo arresti, per volontaria iniziativa, la propria condotta delittuosa prima del completamento dell’azione esecutiva, impedendo l’evento, e che nel caso di specie, tale eventualità non si è determinata, atteso che già la sola presentazione della dichiarazione di emersione, impedendo l’attivazione della procedura di espulsione dello straniero irregolare, ha favorito immediatamente l’ulteriore permanenza illegale degli stranieri.
1.2.1 L’inconfigurabilità di un’ipotesi di desistenza, per altro, emerge evidente ove si consideri che in caso di concorso di persone nel reato, il semplice abbandono o l’interruzione dell’azione criminosa da parte di uno dei compartecipi non è sufficiente a integrare la desistenza, ma è necessario un "quid pluris" che consiste nell’annullamento del contributo dato alla realizzazione collettiva, per altro, come già precisato, già irreversibilmente perfezionatasi (in tal senso, Sez. 1, n. 9775 del 01/02/2008 – dep. 04/03/2008, xxx, Rv. 239175).
2. Infondato si rivela anche il secondo motivo d’impugnazione in quanto la conferma della misura della pena inflitta al R. dal primo giudice risulta adeguatamente giustificata, avendo i giudici di appello, con plausibile valutazione, ritenuto la stessa proporzionata alla gravità della condotta ed in particolare al contesto delittuoso particolare allarmante in cui la stessa andava inquadrata (non avendo l’imputato esitato, per denaro, a mettere a disposizione la sua opera a favore di un soggetto, il coimputato T., implicato in un intensa attività di sfruttamento della prostituzione di giovani cinesi immigrate clandestinamente in Italia), evidenziando, per altro, come il riconoscimento delle attenuanti generiche quasi nella loro massima estensione rendeva la pena determinata insuscettibile di ulteriori mitigazioni.
3. Il rigetto del ricorso comporta le conseguenze di cui all’art. 616 c.p.p. in ordine alla spese del presente procedimento.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 11 ottobre 2013.
Depositato in Cancelleria il 22 gennaio 2014

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