Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 11-10-2013) 22-01-2014, n. 2933

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Svolgimento del processo
1. M.D., sorvegliato speciale con obbligo di soggiorno e dipendente della xxx S.p.A., società a totale partecipazione pubblica, in occasione di un controllo eseguito in Palermo la mattina del 23 dicembre 2009 dai Carabinieri del Comando provinciale di quella città, veniva sorpreso a bordo della vettura del genero, all’interno della quale, in una tasca porta oggetti, veniva rinvenuto un coltello a serramanico e per ciò denunciato all’Autorità giudiziaria, oltre che per il reato di truffa, essendo emerso che il prevenuto, mentre aveva formalizzato l’ingresso sul posto di lavoro alle ore 7,16, non aveva registrato l’orario di uscita nè richiesto ai suoi superiori apposita autorizzazione per il suo allontanamento, e per la detenzione del coltello, anche in relazione al reato previsto e punito dalla L. n. 1423 del 1956, art. 9, comma 2, contestatogli per aver violato l’obbligo di rispettare le leggi, previsto dall’art. 5 della suddetta legge.
2. Pur avendo la difesa del sorvegliato dedotto:
– che nei confronti dell’imputato non si era proceduto penalmente per la truffa in danno della xxx S.p.A., per difetto di querela, necessaria in assenza dell’aggravante di cui al capoverso dell’art. 640 cod. pen.;
– che per la detenzione del coltello si procedeva separatamente;
– che in riferimento al suo allontanamento dal luogo di lavoro, l’imputato aveva ricevuto soltanto una lettera di contestazione di un illecito disciplinare;
il M. veniva riconosciuto colpevole del reato di cui alla L. n. 1423 del 1956, art. 9, comma 2 sia nel giudizio di primo grado che in quello di appello.
2.1 Ritenevano infatti i giudici di merito, che incontestato all’esito del giudizio di primo grado, il fatto storico dell’abusivo allontanamento dell’imputato dal posto di lavoro, desumibile oltre che dalla dichiarazioni dei Carabinieri che avevano proceduto al controllo anche dalla lettera di contestazione di illecito disciplinare inviata al M. dal suo datore di lavoro, e che pertanto la condotta del sorvegliato speciale, sul piano materiale, integrava gli estremi del reato di truffa, pur essendo tale reato improcedibile, la penale responsabilità del prevenuto in relazione al reato previsto e punito dalla L. n. 1423 del 1956, art. 9, comma 2 andava comunque affermata, in quanto il precetto di vivere onestamente, anche alla luce della nota sentenza n. 282 del 2010 della Corte Costituzionale, non può riferirsi soltanto alle norme penali, ma a qualsiasi disposizione la cui inosservanza sia ulteriore indice della già accertata pericolosità sociale.
In particolare la Corte territoriale, per quanto ancora interessa nel presente giudizio, ha escluso che la circostanza che il giudice di prime cure abbia valorizzato, ai fini dell’affermazione di responsabilità, uniformandosi ad alcuni arresti di questa Corte, la ritenuta commissione da parte del M. di un illecito amministrativo, comportasse una nullità della sentenza per difetto di correlazione tra imputazione contestata e condanna, dal momento che la condotta presa in esame dal primo giudice era proprio quella che, integrando gli estremi del reato di truffa ai danni della società datrice di lavoro, era stata contestata in un separato procedimento.
3. Avverso la pronuncia di condanna della Corte di appello di Palermo, ha proposto ricorso per cassazione il M., per il tramite del suo difensore, denunziando:
1) violazione di legge e vizio di motivazione (mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità) in relazione al rigetto dell’eccezione di nullità della sentenza di primo grado, per difetto di correlazione tra imputazione contestata e sentenza di condanna, evidenziando al riguardo che all’imputato era stato contestato di aver violato la legge penale e non già di aver violato gli obblighi contrattuali scaturenti dal contratto di lavoro in essere con la xxx;
2) violazione di legge e vizio di motivazione (mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità) in relazione alla ritenuta sussistenza del reato di cui alla L. n. 1423 del 1956, art. 9, comma 2, evidenziando, per un verso, che il momentaneo allontanamento dal posto di lavoro non era qualificabile come illecito amministrativo; che la commissione di un illecito disciplinare non può comunque integrare una violazione delle prescrizioni inerenti la sorveglianza speciale, anche perchè la condotta addebitata al M. non ha determinato alcuna concreta lesione o messa in pericolo dell’interesse all’ordine e alla sicurezza pubblica tutelato dalla norma incriminatrice.
Motivi della decisione
1. L’impugnazione proposta nell’interesse del M. è basata su motivi infondati e va quindi rigettata.
1.1 Quanto al primo motivo dedotto in ricorso, l’illustrazione delle ragioni della sua infondatezza non può prescindere da alcune preliminari considerazioni in diritto.
In primo luogo occorre considerare che il principio di correlazione tra l’imputazione contestata e la sentenza nasce dall’esigenza di assicurare all’imputato la piena possibilità di difendersi in rapporto a tutte le circostanze rilevanti del fatto che è oggetto dell’imputazione.
Ne consegue che il principio in parola non è violato ogni qualvolta siffatta possibilità non risulti sminuita. Pertanto, nei limiti di questa garanzia, quando nessun elemento che compone l’accusa sia sfuggito alla difesa dell’imputato, non si può parlare di mutamento del fatto. In altri termini, quindi, siffatta violazione non ricorre, quando nella contestazione, considerata nella sua interezza, siano contenuti gli stessi elementi del fatto costitutivo del reato ritenuto in sentenza (Cass., sez. 2, 11 aprile 1994, n. 5907, De Vecchi, rv. 197831; Cass., sez. 4, 24 maggio 1994, n. 8612, xxx, rv. 198689; Cass., sez. 1, 10 dicembre 2004, n. 4655, rv. 230771).
Sussiste, invece, violazione del principio di correlazione della sentenza all’accusa formulata quando il fatto ritenuto in sentenza si trovi, rispetto a quello contestato, in rapporto di eterogeneità o di incompatibilità sostanziale, nel senso che si sia realizzata una vera e propria trasformazione, sostituzione o variazione dei contenuti essenziali dell’addebito nei confronti dell’imputato, posto, così, di fronte – senza avere avuto alcuna possibilità di difesa – ad un fatto del tutto nuovo.
La violazione del suddetto principio postula, quindi, una modificazione – nei suoi elementi essenziali – del fatto, inteso come dato empirico, fenomenico, un accadimento, un episodio della vita umana, cioè la fattispecie concreta e non la fattispecie astratta, lo schema legale nel quale collocare quell’episodio della vita umana (Cass., sez. un. 22 ottobre 1996, De Francesco).
Si ha, perciò, mancata correlazione tra fatto contestato e sentenza quando vi sia stata una immutazione tale da determinare uno stravolgimento dell’imputazione originaria (Sez. U., n. 36551 del 15 luglio 2010).
1.2 Alla stregua delle considerazioni che precedono è agevole rilevare che nel caso in esame non sussiste la dedotta violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza, in quanto, come si evince agevolmente dagli atti, al ricorrente è stata espressamente contestata, nel capo d’imputazione formulato nei suoi confronti, l’inosservanza della prescrizione di vivere onestamente e di rispettare le leggi, con riferimento a delle condotte, specifiche e ben individuate, consistite, tra l’altro, nell’essersi arbitrariamente allontanato dal posto di lavoro e che il M., all’esito dei due gradi di giudizio, è stato ritenuto colpevole del reato di cui alla L. n. 1423 del 1956, art. 9, proprio per aver violato la summenzionata prescrizione, allontanandosi dal posto di lavoro arbitrariamente.
La circostanza che nei confronti del M. non si sia poi proceduto anche per il reato di truffa e che il giudice di primo grado abbia evidenziato che la condotta del sorvegliato, seppure non sanzionabile penalmente per difetto di querela, integrava, in ogni caso, sul piano oggettivo, oltre che il reato di truffa, anche un illecito disciplinare e conseguentemente una inosservanza della prescrizione di vivere onestamente e rispettare le leggi, non configura alcuno stravolgimento dei termini dell’accusa, nè tampoco una violazione del diritto di difesa dell’imputato.
2. Privo di fondamento si rivela, altresì, anche il secondo motivo d’impugnazione.
Il mancato esercizio dell’azione penale nei confronti dell’imputato, per mancanza di querela, in relazione al reato di truffa in danno della xxx S.p.A. non vale ad escludere la responsabilità del M. in relazione all’ulteriore contestazione L. n. 1423 del 1956, ex art. 9, atteso che allontanarsi dal posto di lavoro e porre in essere degli artifici e raggiri diretti a conseguire un ingiusto profitto in danno del proprio datore di lavoro (la retribuzione per attività lavorativa non prestata), a prescindere dalla causazione di un effettivo danno patrimoniale, contrasta palesemente con la prescrizione di "vivere onestamente e rispettare le leggi" connessa con la misura della sorveglianza speciale di P.S. applicata all’imputato; e ciò perchè una siffatta attività, oltre che fraudolentemente diretta a percepire un ingiusto profitto, pone comunque in pericolo beni di primario interesse (la fede pubblica e la tutela del patrimonio) e contrasta con quelle esigenze di difesa sociale che si vogliono tutelare attraverso la prescrizione in questione e le ulteriori che accedono alla misura della sorveglianza speciale.
L’irrilevanza del dato relativo alla punibilità in concreto del sorvegliato per la condotta trasgressiva posta in essere durante l’esecuzione della misura, rappresenta, del resto, un principio non nuovo nella giurisprudenza di questa Corte, che ha già avuto occasione di precisare come integri la contravvenzione di cui alla L. n. 1423 del 1956, art. 9, perchè viola la prescrizione di "vivere onestamente e rispettare le leggi", la condotta del sottoposto alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale di P.S. che fa commercio di sostanze stupefacenti pur prive di un sufficiente quantitativo di principio attivo. (Sez. 1, n. 46876 del 12/11/2009 – dep. 09/12/2009, Brancato, Rv. 245672).
Pertanto, poichè la Corte di merito si è attenuata al principio di diritto come sopra definito ed ha congruamente motivato al proposito, il motivo testè esaminato deve essere rigettato.
2. Il rigetto del ricorso comporta le conseguenze di cui all’art. 616 cod. proc. pen. in ordine alla spese del presente procedimento.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 11 ottobre 2013.
Depositato in Cancelleria il 22 gennaio 2014

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