Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 14-10-2013) 09-12-2013, n. 49340

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Svolgimento del processo
1. Con sentenza in data 21.1.2013 Tribunale di Napoli, in composizione monocratica, riconosciute le circostanze attenuanti generiche ritenute equivalenti alla recidiva contestata con la continuazione, applicava la pena di mesi dieci di reclusione, ai sensi dell’art. 444 c.p.p., a B.R. in relazione ai reati di cui al D.Lgs. n. 159 del 2011, art. 75, comma 2 e art. 337 c.p..
2. Propone ricorso per cassazione l’imputato, a mezzo del difensore di fiducia, denunciando la violazione di legge avendo il giudice omesso di escludere la recidiva contestata, pur avendo applicato la pena nella misura concordata dalle parti; invero, nell’accordo tra le parti non era stato previsto il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, bensì la esclusione della recidiva.
Con il secondo motivo di ricorso lamenta la violazione di legge ed il vizio della motivazione avuto riguardo alla qualificazione del fatto contestato nel reato di cui all’art. 337 c.p..
Motivi della decisione
Premesso che per mero errore è stata disposta la trattazione del ricorso con il rito della pubblica udienza in luogo di quello di cui all’art. 611 c.p.p., senza peraltro alcun pregiudizio per il ricorrente, il ricorso, ad avviso del Collegio, deve essere dichiarato inammissibile.
Quanto al primo motivo, invero, stante la applicazione della pena nella entità convenuta dalle parti, non risulta evidente alcun interesse del ricorrente.
Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, l’interesse a proporre impugnazione deve essere apprezzabile non solo nei termini dell’attualità, ma anche in quelli della concretezza, sicchè non può risolversi nella mera aspirazione alla correzione di un errore di diritto contenuto nella sentenza impugnata. La concretezza dell’interesse può, peraltro, ravvisarsi anche quando l’impugnazione sia volta esclusivamente a lamentare una violazione astratta di una norma di diritto formale, purchè però da essa derivi un reale pregiudizio dei diritti dell’imputato, che si intendono tutelare attraverso il raggiungimento di un risultato non soltanto teoricamente corretto, ma anche praticamente favorevole (Sez. Un., 11 maggio 1993, n. 6203, Amato, m. 193743; Sez. Un., 24 marzo 1995, n. 9616, Boido, m. 202018). In particolare, l’interesse richiesto dall’art. 568 c.p.p., comma 4, quale condizione di ammissibilità di qualsiasi impugnazione, deve essere correlato agli effetti primari e diretti del provvedimento da impugnare e sussiste se il gravame sia idoneo a costituire, attraverso l’eliminazione di un provvedimento pregiudizievole, una situazione pratica più vantaggiosa per l’impugnante rispetto a quella esistente (Sez. Un., 13 dicembre 1995, n. 42/1996, Timpani, m. 203093). La concretezza dell’interesse peraltro è ravvisabile non solo quando l’imputato, attraverso l’impugnazione, si riprometta di conseguire effetti penali più vantaggiosi (come, ad esempio, l’assoluzione o la mitigazione del trattamento sanzionatorio), ma anche quando miri ad evitare conseguenze extrapenali pregiudizievoli ovvero ad assicurarsi effetti extrapenali più favorevoli.
Nella specie, non è stato rappresentato dal ricorrente alcun concreto interesse in ordine alla mancata esclusione della recidiva contestata.
E’, altresì, manifestamente infondato il secondo motivo del ricorso in ordine alla qualificazione del fatto contestato nel reato di cui all’art. 337 c.p., avendo il giudice operato adeguato controllo in ordine alla qualificazione giuridica dando, altresì, atto che dagli atti risulta che il ricorrente non si era arrestato al controllo eseguito della polizia giudiziaria che aveva costretto a porsi al suo inseguimento azionando i dispositivi di emergenza.
Come è noto, in ipotesi di patteggiamento la possibilità di ricorrere per cassazione deducendo l’erronea qualificazione del fatto contenuto in sentenza deve essere limitata ai casi di errore manifesto, ossia ai casi in cui sussiste l’eventualità che l’accordo sulla pena si trasformi in un accordo sui reati, mentre deve essere esclusa tutte le volte in cui la diversa qualificazione presenti margini di opinabilità (Sez. 6, n. 15009 del 27/11/2012, Bisignani, rv. 254865).
Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso consegue di diritto la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, in mancanza di elementi atti ad escludere la colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al versamento a favore della cassa delle ammende di una sanzione pecuniaria che pare congruo determinare in Euro mille, ai sensi dell’art. 616 c.p.p..
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di Euro mille in favore della cassa della ammende.
Così deciso in Roma, il 14 ottobre 2013.
Depositato in Cancelleria il 9 dicembre 2013

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