CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. VI PENALE – SENTENZA 6 ottobre 2011, n.36253 INTERRUZIONE DI UN SERVIZIO PUBBLICO

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Ritenuto in fatto e considerato in diritto

Il Procuratore generale presso la Corte di appello di Napoli ricorre avverso la sentenza 26 febbraio 2010 della Corte di appello di Napoli, la quale, in parziale riforma della sentenza 9 giugno 2008 del Tribunale di Torre Annunziata (che aveva condannato C. G., per il reato ex art. 340 c.p., ha assolto l’imputata dal reato di cui all’art. 340 c.p. perché il fatto non sussiste, ritenendo che il ritardo realizzato e consistito nell’essersi la dr.ssa recata in ambulatorio (attivo sin dalle ore 8 del mattino) alle 10, dopo essersi presentata al lavoro alle ore 9,06, non fosse idoneo ad integrare un danno rilevante all’andamento del servizio.

2) i motivi di impugnazione e le ragioni della decisione di questa Corte.

Con un unico motivo di impugnazione il Procuratore generale prospetta violazione o erronea applicazione dell’art. 340 c.p., contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, nonché travisamento della prova.

Rileva la parte pubblica:

a) che la Corte di appello, accogliendo un generico motivo di gravame della difesa, ha assolto l’imputata rilevando che la stessa era scesa all’ambulatorio, aperto dalle ore 08.00, solo alle ore 10.00 ma che tale ritardo non era temporalmente apprezzabile e che l’andamento del servizio non aveva subito danno rilevante;

b) che con tale motivazione la corte distrettuale ha ignorato il significato della norma incriminatrice, nella costante interpretazione della giurisprudenza di legittimità, secondo cui integra il reato di interruzione di un pubblico ufficio o servizio la condotta di colui che cagioni allo svolgimento del servizio anche un semplice ritardo, purché apprezzabile sul piano temporale e su quello del suo regolare andamento (si cita in proposito: Cass. Sez. VI,. 26934/200S; 334/2009; sez.V, 919/2009), escludendo che un ritardo di ben due ore nell’apertura dell’ambulatorio di ortopedia, gestito esclusivamente dall’imputata, avesse integrato un significativo disservizio;

c) che con una tale illogica e carente motivazione sono state altresì travisate tutte le prove testimoniali raccolte dal primo giudice ed analiticamente esposte nella sentenza del 9 giugno 2008, che evidenziavano una situazione di disagio ed allarme creatasi nel pubblico in attesa, così come chiaramente riferito dai testi P. D., guardia giurata in servizio all’ospedale, e S. M., agente di polizia allertato dai pazienti in attesa presso il medesimo nosocomio.

Il motivo è per più profili fondato.

Va in proposito premesso che il reato di interruzione di un ufficio o servizio pubblico o di pubblica necessità, di cui all’art. 340 c.p., è reato di evento la cui consumazione richiede un pregiudizio effettivo (e non necessariamente di particolare rilievo) nella continuità o nella regolarità di un servizio pubblico o di pubblica necessità (Cass. pen. sez. 6, 29351/2006 Rv. 235089).

Su tali premesse va quindi conseguentemente ribadito:

I) che ai fini della integrazione dell’elemento oggettivo del reato previsto dall’art. 340 c.p., non ha rilievo che l’interruzione sia stata temporanea o che si sia trattato di un mero turbamento nel regolare svolgimento dell’ufficio o del servizio, atteso che la predetta fattispecie incriminatrice tutela non solo l’effettivo funzionamento di un ufficio, ovvero di un servizio pubblico o di pubblica necessità, ma anche il suo ordinato e regolare svolgimento (Cass. pen. sez. 6, 35071/2007 Rv. 238025);

II) che il reato de quo si realizza anche se l’interruzione o il turbamento della regolarità dell’ufficio o del servizio siano temporalmente limitati e coinvolgano solamente un settore e non la totalità delle attività (Cass. pen. sez. 6, 334/2008 Rv. );

III) che, pertanto, anche la condotta che determini una temporanea alterazione, purché oggettivamente apprezzabile, nella regolarità dell’ufficio o del servizio, è idonea a realizzare l’azione esecutiva del delitto in questione (Cass. pen. sez. 5, 27919/2009 Rv. 44337).

Orbene in relazione a tali tre standards probatori non v’è dubbio che la motivazione, che ha supportato la decisione di assoluzione della Corte di appello, sia affetta dai vizi indicati nell’impugnazione del Procuratore generale di Napoli.

Conclusione da assumersi avuto riguardo al quadro complessivo della condotta attribuita alla dr.ssa C., che aveva indotto i pazienti in attesa a ricorrere all’intervento dell’agente di Polizia del “Drappello ospedaliero”, e tenuto altresì conto che nella specie dalla stessa sentenza di proscioglimento risulta un ritardo pari a due ore, che si prospetta erroneamente come giustificabile “per prassi”, in relazione a generici altri impegni di reparto.

Va invero rilevato in punto di “prassi” che in tema di reati contro la P.A. non può essere affermata la carenza dell’elemento soggettivo allorquando una prassi diffusa si sia inserita in un contesto giuridico amministrativo, sicuramente incerto in ordine é la possibilità di realizzare l’attività contestata, dovendo l’agente astenersi dal porre in essere comportamenti di incerta rilevanza ed acquisire dai competenti organi amministrativi le necessarie informazioni ed assicurazioni circa la legittimità dell’attività svolta, in modo da adempiere a quell’onere informativo che potrebbe rendere scusabile l’errore sulla legge penale (cfr. in termini Cass. pen. sezione VI, 35813/07, R.V. 237767).

Nella specie, a fronte di un orario del Pronto soccorso di ortopedia che decorreva dalle ore 8, cui è corrisposta una presenza della C. solo alle ore 10.

La “prassi di impegni altri’, dopo la marcatura dell’ingresso (nella specie avvenuta alle 9,06), a parte ogni altra considerazione, era in tale contesto sicuramente discutibile, avuto riguardo alla urgenza ed improcrastinabilità del servizio, appunto di “pronto soccorso” ed imponeva l’astensione da comportamenti diversi da quelli dovuti e corrispondenti alla gestione del servizio di pronto soccorso stesso.

Il ricorso del P.M. risulta quindi ammissibile in rito e fondato nel merito con conseguente annullamento senza rinvio dell’impugnata senten.za per intervenuta prescrizione.

Per risalente giurisprudenza (Cass. pen. sez. 4, 243/1966 Rv. 101276), formatasi già nella vigenza dell’art. 152 c.p.p. abrogato, ove nelle more del giudizio per cassazione venga a maturarsi il termine di estinzione del reato per prescrizione, la sentenza assolutoria con formula piena emessa dal giudice di appello non costituisce la prova richiesta dall’art. 129 capoverso c.p.p. e non vale quindi ad escludere l’applicazione della causa estintiva, nei casi in cui, come quello di specie, il ricorso del P.M. risulti rituale e non manifestamente infondato.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata senza rinvio perché il reato è estinto per prescrizione.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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