Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 15-10-2013) 11-12-2013, n. 49824

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/




Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con sentenza in data 28 giugno 2012 la Corte d’Appello di Reggio Calabria ha confermato la sentenza del locale Tribunale che in data 7 marzo 2008 aveva condannato D.N. per i reati aggravati di truffa e falsità in scrittura privata.

Ricorre per cassazione l’imputato deducendo:

1. violazione di legge per erronea applicazione dell’art. 640 c.p., per assenza del profilo del profitto e del danno, dell’aggravante di cui all’art. 61 c.p., n. 11 e dell’art. 485 c.p.;

2. vizio della motivazione.

Lamenta assenza di motivazione con riguardo alle censure sollevate in sede di appello.

Rileva il Collegio che il primo motivo di ricorso deve essere dichiarato inammissibile ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 3, posto che le violazioni denunziate in questa sede di legittimità non sono state dedotte innanzi alla Corte di Appello avverso la cui sentenza è ricorso e sono quindi questioni nuove.

Con i motivi d’appello il ricorrente si era limitato a contestare la penale responsabilità sostenendo che non c’era stato diretto contatto fra D. e F. e comunque che non vi erano stati i contestati raggiri e a richiedere genericamente il minimo della pena.

Questa Corte (Cass. Sez. 4^, 18/05/1994 – 13/07/1994, n. 7985) ha infatti affermato che sussiste violazione del divieto di "novum" nel giudizio di legittimità quando siano per la prima volta prospettate in detta sede questioni, come quella in esame, coinvolgenti valutazioni in fatto, mai prima sollevate ovvero siano dedotti motivi di censura attinenti capi e/o punti della decisione ormai intangibili per non essere investiti da tempestiva doglianza nella fase di merito e, perciò, assistiti dalla presunzione di conformità al diritto.

Anche il secondo motivo del ricorso è manifestamente infondato. Il ricorrente censura l’apparato motivazionale della sentenza della Corte d’Appello lamentando un’assenza di motivazione in ordine alle specifiche censure mosse alla sentenza di primo grado.

Questa Corte, nel precisare i limiti di legittimità della motivazione per relationem della sentenza di appello, ha avuto modo di affermare che l’integrazione della motivazione tra le conformi sentenze di primo e secondo grado è possibile soltanto se nella sentenza d’appello sia riscontrabile un nucleo essenziale di argomentazione, da cui possa desumersi che il giudice del secondo grado, dopo avere proceduto all’esame delle censure dell’appellante, ha fatto proprie le considerazioni svolte dal primo giudice. Più specificamente, l’ambito della necessaria autonoma motivazione del giudice d’appello risulta correlato alla qualità e alla consistenza delle censure rivolte dall’appellante.

Se questi si limita alla mera riproposizione di questioni di fatto già adeguatamente esaminate e correttamente risolte dal primo giudice, oppure di questioni generiche, superflue o palesemente inconsistenti, il giudice dell’impugnazione ben può motivare per relazione e trascurare di esaminare argomenti superflui, non pertinenti, generici o manifestamente infondati. Quando, invece, le soluzioni adottate dal Giudice di primo grado siano state specificamente censurate dall’appellante, sussiste il vizio di motivazione, sindacabile ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e, se il giudice del gravame si limita a respingere tali censure e a richiamare la contestata motivazione in termini apodittici o meramente ripetitivi, senza farsi carico di argomentare sulla fallacia o inadeguatezza o non consistenza dei motivi di impugnazione. ( Cass. N. 6221 del 2006 Rv. 233082, N. 38824 del 2008 Rv. 241062, N. 12148 del 2009 Rv. 242811;Cass. Sez. 6^, 20-4-2005 n. 4221).

Nel caso in esame, il giudice d’appello, seppure con una motivazione stringata, ha risposto in modo specifico a tutte le doglianze avanzate dall’appellante dando conto della sussistenza del reato in tutti i suoi elementi, facendo specifico richiamo ad elementi probatori assunti in primo grado, così come ha dato conto della correttezza del trattamento sanzionatorio.

A mente dell’art. 616 c.p.p., alla declaratoria di inammissibilità – determinata da profili di colpa emergenti dal ricorso (v. Corte Cost.

sent. 186/2000) – consegue l’onere delle spese del procedimento, nonchè del versamento di una somma in favore della Cassa delle ammende, fissata in via equitativa, in ragione dei motivi dedotti, nella misura di 1.000,00 (mille) Euro.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro mille alla Cassa delle ammende.

Così deciso in Roma, il 15 ottobre 2013.

Depositato in Cancelleria il 11 dicembre 2013

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *