Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 10-09-2012, n. 15103

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/




Svolgimento del processo
1.- La sentenza attualmente impugnata rigetta l’appello della xxx s.r.l. avverso la sentenza del Tribunale di Salerno n. 1563/2006, la quale: 1) ha dichiarato la nullità del licenziamento intimato dalla suddetta società a A.P., con ordine del ripristino funzionale del rapporto e condanna della società stessa al pagamento, in favore del lavoratore, di tutte le retribuzioni spettanti dalla data del licenziamento fino all’effettiva reintegra, oltre agli accessori di legge; 2) ha anche condannato la società xxx al pagamento di quanto dovuto per differenze paga, tredicesima mensilità, indennità sostitutiva di ferie non godute, compenso per lavoro straordinario, oltre accessori di legge e rifusione delle spese di lite.
La Corte d’appello di Salerno, per quel che qui interessa, rileva che:
a) nel ricorso introduttivo del giudizio l’ A. ha, fra l’altro, precisato di avere inutilmente esperito il tentativo obbligatorio di conciliazione;
b) il giudice di primo grado – sull’assunto che le circostanze ivi addotte sono rimaste prive di qualsivoglia riscontro – ha rigettato la domanda riconvenzionale spiegata dalla società xxx onde ottenere la condanna dell’ A. al risarcimento del danno subito a causa delle numerose assenze dal lavoro effettuate dal dipendente, che, secondo la società, avevano reso impossibile l’ultimazione di lavori commissionati da un cliente, con conseguente decurtazione del compenso pattuito;
c) l’appello della xxx s.r.l. è volto principalmente a contestare la valutazione del compendio probatorio effettuata dal primo giudice in ordine alle modalità di risoluzione del rapporto di lavoro in oggetto, nonchè le valutazioni effettuate in merito alla data di inizio del rapporto stesso e al riconoscimento al dipendente del diritto all’inquadramento nel 4 livello della contrattazione collettiva di settore;
d) la contestazione dell’affermazione dell’avvenuta risoluzione del rapporto a seguito di licenziamento orale non è fondata perchè non risulta sorretta da valide e convincenti argomentazioni, sicchè alla luce della prova testimoniale svolta e in assenza di risultanze contrarie non può non essere confermata la decisione sul punto del giudice di primo grado, tanto più che la società xxx non ha offerto alcun elemento di prova in ordine alla sussistenza di un’eventuale causa risolutiva diversa dal licenziamento orale;
e) in base alla giurisprudenza di legittimità, infatti, se il lavoratore deduce di essere stato licenziato oralmente è sufficiente che provi la cessazione del rapporto – cioè la mancata accettazione della prestazione – che nella specie non è controversa, mentre il datore di lavoro ha l’onere di provare i fatti su cui fonda la propria eccezione di presentazione delle dimissioni da parte del dipendente;
f) del pari infondata è la censura relativa all’accertamento della data di inizio del rapporto, visto che le concordi deposizioni rese dai testi escussi confermano che il rapporto è iniziato nel settembre 1990 e si è protratto senza soluzione di continuità fino al novembre 2000, con un primo triennio (dal 1990 al 1993) di prestazione di lavoro "in nero", essendo stato il rapporto regolarizzato solo nel 1993;
g) ugualmente infondata è la doglianza riguardante l’attribuzione all’ A. di una qualifica asseritamente non spettantegli, in quanto le stesse buste paga versate in atti dimostrano che la società ha riconosciuto al lavoratore la qualifica attribuitagli giudizialmente, che non è quella di "operaio specializzato" (5 livello) rivendicata, ma quella inferiore di "operaio qualificato" (4 livello);
2- Il ricorso della xxx s.r.l, domanda la cassazione della sentenza per quattro motivi; resiste, con controricorso, A.P..
La società ricorrente deposita anche memoria ex art. 378 cod. proc. civ., nella quale, ad ulteriore illustrazione del secondo motivo del ricorso, sottolinea come, per effetto della sostituzione dell’art. 410 cod. proc. civ. ad opera della L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 31 l’istituto del tentativo obbligatorio di conciliazione sia stato ridisegnato e per la relativa richiesta sia stato espressamente stabilito un contenuto più specifico.
Motivi della decisione
1 – Sintesi dei motivi di ricorso.
1.- Con il primo motivo – illustrato da quesito di diritto – si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, violazione degli artt. 99, 112 e 161 cod. proc. civ. Si sostiene che la Corte territoriale avrebbe violato il principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato perchè – "senza alcuna motivazione implicita o esplicita" – avrebbe completamente omesso di esaminare la domanda riconvenzionale ritualmente proposta dalla società xxx nella memoria di costituzione nel giudizio di primo grado – sulla quale anche il Tribunale avrebbe omesso di pronunciarsi – e reiterata nel ricorso in appello (perchè compresa tra tutte le richiamate precedenti domande, conclusioni ed difese svolte in primo grado), volta ad ottenere la condanna dell’ A. al risarcimento del danno subito a causa delle numerose assenze dal lavoro effettuate dal dipendente, che avevano reso impossibile l’ultimazione di lavori commissionati da un cliente, con conseguente decurtazione del compenso pattuito.
2.- Con il secondo motivo – illustrato da quesito di diritto – si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4, violazione dell’art. 410 cod. proc. civ..
Si sostiene che l’accertamento della ritualità e completezza del tentativo obbligatorio di conciliazione rispetto alla domanda giudiziale successivamente proposta non sarebbe stato effettuato adeguatamente dal Tribunale – perchè non si è tenuto conto del rilievo della società secondo il quale nella relativa richiesta non si faceva specifico riferimento alla prospettata illegittimità del licenziamento – ed anche in appello la questione sarebbe stata ignorata.
In particolare si sottolinea che la suindicata omissione viene rilevata in questa sede al fine di chiarire l’esatta portata dell’obbligatorietà del tentativo di conciliazione e di stabilire se si tratta di un obbligo meramente formale che può considerarsi assolto attraverso la mera allegazione della prova documentale dell’avvenuto deposito della relativa richiesta ovvero se l’esame dell’assolvimento dell’obbligo debba anche riguardare l’idoneità del contenuto della richiesta a mettere in condizione la controparte di prendere posizione sulle pretese che si fanno valere, nel senso che l’esatta portata dell’art. 410 cod. proc. civ., determinata sulla base dei principi di buona fede e correttezza, debba essere quella secondo cui le rivendicazioni menzionate nella richiesta di tentativo di conciliazione debbano necessariamente corrispondere a quelle fatte valere con il successivo ricorso introduttivo del giudizio, sicchè l’eventuale non corrispondenza dei petita comporti la sospensione del giudizio eventualmente instaurato e l’assegnazione di un termine per rinnovare il tentativo di conciliazione.
3- Con il terzo motivo – illustrato da quesito di diritto – si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4, violazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ..
Si contesta la attribuzione della 4 qualifica professionale al lavoratore, effettuata in adesione totale alle conclusioni del c.t.u.
– non adeguatamente vagliate dalla Corte salernitana – basate sull’erroneo presupposto del possesso da parte dell’ A. delle qualità professionali rivendicate, ma non dimostrate.
Ne consegue che sarebbero erronei – perchè fondati sull’indicato inquadramento inesatto – anche il conteggio della retribuzione riconosciuta al lavoratore e la valutazione della complessiva attività lavorativa svolta dal dipendente.
Inoltre, sarebbero del tutto arbitrarie – perchè prive di prova – le conclusioni del c.t.u. sulla cui base è stato attribuito il compenso per lo straordinario ed è stata stabilita la sussistenza del rapporto di lavoro anche nel periodo 1990-1993.
4 – Con il quarto motivo – illustrato da quesito di diritto – si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione dell’art. 2697 cod. civ..
Si contesta il punto della motivazione nel quale la Corte salernitana ha affermato che, sulla base dell’istruttoria svolta, il rapporto si deve considerare risolto su iniziativa della società datrice di lavoro, "a fortori ove si consideri che quest’ultima non ha offerto alcun elemento di prova in ordine alla sussistenza di un’eventuale diversa causa risolutiva".
Si sostiene che, all’esito dell’istruttoria, avrebbe dovuto essere escluso che da parte del lavoratore fosse stata fornita la prova – posta a suo carico – dell’intervenuto licenziamento verbale e questo, nell’incertezza, avrebbe dovuto far propendere per l’avvenuta risoluzione in conseguenza delle dimissioni dell’ A., come sostenuto dalla datrice di lavoro.
2 – Esame delle censure.
5- Il ricorso è da respingere, per le ragioni di seguito precisate.
6- Per quel che riguarda il primo motivo va ricordato che, in base ad un consolidato e condiviso orientamento di questa Corte:
la parte che impugna una sentenza con ricorso per cassazione per omessa pronuncia su una domanda o eccezione ha, per il principio di specificità dei motivi del ricorso – da intendere alla luce del canone generale "della strumentalità delle forme processuali" – l’onere, a pena di inammissibilità, di indicare nel ricorso il contenuto rilevante della domanda o eccezione asseritamente pretermessa, di specificare in quale atto difensivo o verbale di udienza l’ha formulata e di fornire al contempo al Giudice di legittimità elementi sicuri per consentirne l’individuazione e il reperimento negli atti processuali, onde porre in condizione il Giudice stesso di verificarne la ritualità e tempestività nonchè di vagliare quindi la decisività della questione proposta; ciò in quanto – ancorchè la violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. si configuri come un error in procedendo, per il quale la Corte di cassazione è giudice anche del "fatto processuale" – tuttavia, non essendo tale vizio rilevabile d’ufficio, il potere-dovere della Corte di esaminare direttamente gli atti processuali non significa che la medesima debba ricercarli autonomamente, spettando, invece, alla parte di indicarli in modo compiuto (arg. ex Cass. SU 14 maggio 2010, n. 11730; Cass. 7 gennaio 2007, n. 978; Cass. 19 marzo 2007, n. 6361;
Cass. 14 ottobre 2010, n. 21226)".
Nella specie la ricorrente non si è attenuta al su riportato principio in quanto non solo non ha trascritto nè la parte della memoria di costituzione nel giudizio di primo grado nella quale la domanda riconvenzionale in argomento sarebbe stata formulata nè quella del ricorso in appello in cui sarebbe stata reiterata, ma non ha neanche fornito alcuna indicazione per consentire il reperimento di tali atti tra quelli inclusi nel fascicolo.
Di qui l’inammissibilità del primo motivo.
7.- Anche il secondo motivo è inammissibile, a prescindere dall’irrilevanza dello jus superveniens rappresentato dalla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 31 avvertita dalla stessa ricorrente che espressamente afferma di fare riferimento alla suddetta norma perchè se ne possa tenere conto ai fini motivazionali e quindi non perchè possa vantare rispetto al suddetto richiamo alcun interesse impugnatorio. E’ noto, infatti, che tale interesse, manifestazione del generale principio dell’interesse ad agire – sancito, quanto alla proposizione della domanda ed alla relativa contraddizione alla stessa, dall’art. 100 cod. proc. civ. – va apprezzato in relazione all’utilità concreta derivabile alla parte dall’accoglimento del gravame, non potendo esaurirsi in un mero interesse astratto ad una più corretta soluzione di una questione giuridica, priva di riflessi pratici sulla decisione (vedi, per tutte: Cass. 10 novembre 2008, n. 26921; Cass. 25 giugno 2010, n. 15353).
Per quel che riguarda le censure formulate con il presente motivo va osservato che, in base a consolidati e condivisi indirizzi di questa Corte:
a) ai fini dell’espletamento del tentativo obbligatorio di conciliazione, oggetto di preventiva comunicazione è la domanda nella formulazione che essa avrà in giudizio, onde ogni diversa implicazione processuale della stessa non importa il venir meno della validità dell’esperito tentativo di composizione della lite (arg. ex 22 luglio 2004, n. 13623; Cass. 15 gennaio 2002, n. 381);
b) è riservata al giudice del merito la valutazione se gli atti comunicati al datore di lavoro nel corso dell’espletato tentativo obbligatorio di conciliazione contengano idonea manifestazione della volontà del lavoratore di impugnare il licenziamento di cui si tratta (Cass. 5 agosto 2003, n. 11806);
c) comunque, nelle controversie di lavoro, la questione della procedibilità della domanda giudiziaria in relazione al preventivo espletamento del tentativo obbligatorio di conciliazione è sottratta alla disponibilità delle parti e rimessa al potere-dovere del giudice del merito, da esercitarsi, ai sensi dell’art. 443 cod. proc. civ., comma 2 solo nella prima udienza di discussione, sicchè ove la improcedibilità, ancorchè segnalata, non venga rilevata dal giudice entro detto termine e non sia stato fissato il termine perentorio per la richiesta del tentativo, l’azione giudiziaria prosegue, in ossequio al principio di speditezza di cui all’art. 24 Cost. e all’art. 111 Cost., comma 2, e la questione stessa non può essere riproposta nei successivi gradi del giudizio (Cass. 27 febbraio 2003, n. 3022; Cass. 19 giugno 2004, n. 13394; Cass. 22 giugno 2004, n. 11629; Cass. 17 maggio 1996, n. 4578; Cass. 1 agosto 2000, n. 10089;
Cass. 12 giugno 2007, n. 13708).
Ne deriva che al regime da ultimo indicato deve considerarsi assoggettata anche la proposizione di una questione afferente – come quella prospettata nella specie – l’idoneità o meno della richiesta del tentativo obbligatorio di conciliazione a manifestare la volontà del lavoratore di impugnare il licenziamento, questione che implica una valutazione riservata al giudice del merito e che è compresa nella più ampia valutazione relativa all’effettuato – idoneo – preventivo espletamento dello stesso tentativo obbligatorio di conciliazione.
Di qui l’inammissibilità del secondo motivo.
8 – Pure il terzo motivo risulta inammissibile, per molteplici ragioni.
Con esso sostanzialmente la ricorrente si duole della acritica adesione della Corte territoriale alla consulenza tecnica, pur in presenza di deduzioni comportanti uno specifico esame.
Al riguardo in base a consolidati e condivisi indirizzi di questa Corte:
a) il suddetto tipo di censura – pur non costituendo la consulenza tecnica d’ufficio un mezzo di prova, ma uno strumento finalizzato all’acquisizione, da parte del giudice, di un parere tecnico necessario, o quanto meno utile, per la valutazione di elementi probatori già acquisiti o per la soluzione di questioni che comportino specifiche conoscenze – è denunciabile come vizio di motivazione, in base al generale principio secondo cui la prospettazione da parte del ricorrente di un coordinamento dei dati acquisiti al processo asseritamente migliore o più appagante rispetto a quello adottato nella sentenza impugnata, riguarda aspetti del giudizio interni all’ambito di discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti che è proprio del giudice del merito, in base al principio del libero convincimento del giudice, sicchè la violazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. è apprezzabile, in sede di ricorso per cassazione, nei limiti del vizio di motivazione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, e deve emergere direttamente dalla lettura della sentenza, non già dal riesame degli atti di causa, inammissibile in sede di legittimità (Cass. 26 marzo 2010, n. 7394; Cass. 6 marzo 2008, n. 6064; Cass. 20 giugno 2006, n. 14267; Cass. 12 febbraio 2004, n. 2707; Cass. 13 luglio 2004, n. 12912; Cass. 20 dicembre 2007, n. 26965; Cass. 18 settembre 2009, n. 20112);
b) la censura stessa presuppone che la parte – in ossequio del principio di specificità dei motivi del ricorso per cassazione – indichi se la relazione cui fa riferimento sia presente nel fascicolo di ufficio del giudizio di merito (specificando, in tal caso, gli estremi di reperimento della stessa), ovvero chiarisca al Giudice di legittimità il diverso modo in cui essa possa essere altrimenti individuata, non potendosi affidare al Giudice medesimo il compito di svolgere un’attività di ricerca della relazione, in sede decisoria, senza garanzia del contraddittorio ed in violazione del principio costituzionale di ragionevole durata del processo (Cass. 22 febbraio 2010, n. 4201; Cass. 3 luglio 2010, n. 17915);
c) peraltro, nella suddetta ipotesi, le doglianze di parte, che siano solo dirette al riesame degli elementi di giudizio già valutati dal consulente tecnico e non individuino gli specifici passaggi della sentenza idonei ad inficiarne, anche per derivazione dal ragionamento del consulente, la logicità, non possono configurare l’anzidetto vizio di motivazione e si risolvono nell’invito ad una inammissibile diversa ricostruzione dei fatti e ad una diversa valutazione delle prove (Cass. 7 marzo 2006, n. 4885);
d) comunque, non incorre nel vizio di carenza di motivazione la sentenza che recepisca per relationem le conclusioni e i passi salienti di una relazione di consulenza tecnica d’ufficio di cui dichiari di condividere il merito, sicchè per infirmare, sotto il profilo dell’insufficienza argomentativa, tale motivazione è necessario che la parte alleghi le critiche mosse alla consulenza tecnica d’ufficio già dinanzi al giudice a quo, la loro rilevanza ai fini della decisione e l’omesso esame in sede di decisione; al contrario, una mera disamina, corredata da notazioni critiche, dei vari passaggi dell’elaborato peritale richiamato in sentenza, si risolve nella mera prospettazione di un sindacato di merito, inammissibile in sede di legittimità (Cass. 4 maggio 2009, n. 10222).
Nella specie non solo la censura è stata inammissibilmente formulata come violazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. e come violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 4, anzichè come vizio di motivazione, ma non è stato rispettato, nei suindicati termini, il principio di specificità dei motivi del ricorso per cassazione, anch’esso sanzionato con l’inammissibilità.
9 – Il quarto motivo è infondato.
Esso, muove da una interpretazione della normativa di riferimento opposta rispetto a quella adottata dalla costante giurisprudenza di questa Corte, cui si è uniformata, invece, la sentenza impugnata.
In base alla suindicata giurisprudenza:
nell’ipotesi di controversia in ordine al quomodo della risoluzione del rapporto (licenziamento orale o dimissioni) si impone una indagine accurata da parte del giudice del merito, che tenga adeguato conto del complesso delle risultanze istruttorie, in relazione anche all’esigenza di rispettare non solo l’art. 2697 c.c., comma 1, relativo alla prova dei fatti costitutivi del diritto fatto valere dall’attore, ma anche il comma 2, che pone a carico dell’eccipiente la prova dei fatti modificativi o estintivi del diritto fatto valere dalla controparte. Conseguentemente, in mancanza di prova delle dimissioni, l’onere della prova concernente il requisito della forma scritta del licenziamento (prescritta ex lege a pena di nullità) resta a carico del datore di lavoro, in quanto nel quadro della normativa limitativa dei licenziamenti, la prova gravante sul lavoratore riguarda esclusivamente la cessazione del rapporto lavorativo, mentre la prova sulla controdeduzione del datore di lavoro – avente valore di una eccezione – ricade sull’eccipiente- datore di lavoro ex art. 2697 cod. civ. (Cass. 15 maggio 2011, n. 10733; Cass. 27 agosto 2007. n. 18087; Cass. 20 maggio 2005, n. 16051; Cass. 8 gennaio 2009. n. 155; Cass. 13 aprile 2005, n. 7614;
Cass. 11 giugno 2010, n. 14082; Cass. 16 dicembre 2004, n. 22852;
Cass. 20 novembre 2000. n. 14977).
Al suddetto orientamento interpretativo il Collegio intende dare continuità, sicchè la sentenza impugnata risulta esente dalla censura mossale con il quarto motivo.
3 – Conclusioni.
10 – In sintesi il ricorso va rigettato. Alla soccombenza consegue la condanna della società ricorrente al pagamento delle spese di questo giudizio di cassazione, liquidate nella misura indicata in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di cassazione, liquidate in Euro 50,00 (cinquanta/00) per esborsi, Euro 3000,00 (tremila/00) per onorari, oltre IVA, CPA e spese generali.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione lavoro, il 12 luglio 2012.
Depositato in Cancelleria il 10 settembre 2012

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