Cass. pen. Sez. IV, Sent., (ud. 15-10-2013) 22-11-2013, n. 46754

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Svolgimento del processo

Il Tribunale di Ancona in composizione collegiale, con sentenza del 25.11.2010, assolveva G.R.J.A. e M. V. dal reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74 e li dichiarava invece responsabili in ordine a fattispecie criminose di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, commi 1 e 6 e li condannava, ritenuta la continuazione, alla pena di anni 15 di reclusione ed Euro 50.000 di multa (il G.) e alla pena di anni 13 di reclusione ed Euro 45.000 di multa (il M.) oltre al pagamento delle spese processuali e confisca di quanto in sequestro. Disponeva altresì la loro espulsione a pena espiata.

Avverso tale sentenza proponevano appello i difensori dei sopra indicati imputati e il pubblico ministero, che censurava il percorso argomentativo con cui il giudice di prime cure aveva assolto gli imputati dal delitto di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74.

La Corte di appello di Ancona, con sentenza datata 16.07.2012, oggetto del presente ricorso, in parziale riforma della sentenza emessa nel giudizio di primo grado, dichiarava il solo G. R.J. colpevole anche del reato di cui al capo a) di imputazione (D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74) e rideterminava la pena a lui inflitta nel giudizio di primo grado in complessivi anni ventuno di reclusione per tutti i reati contestati unificati dal vincolo della continuazione, ritenuto più grave quello di cui al capo a), esclusa l’aggravante di cui alla L. n. 146 del 2006, art. 4 limitatamente al reato di associazione ed esclusa l’aggravante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 80, comma 2 contestata negli altri capi di imputazione (E, H e I), concesse le attenuanti generiche ritenute equivalenti a tutte le contestate aggravanti.

Rideterminava altresì la pena inflitta nel giudizio di primo grado a M.V. ed, esclusa l’aggravante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 80, comma 2 e concesse le attenuanti generiche ritenute equivalenti alle residue aggravanti, lo condannava ad anni sette di reclusione ed Euro 29.000 di multa. Confermava nel resto.

Avverso tale sentenza proponevano distinti ricorsi per cassazione il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello di Ancona e i sopra indicati imputati a mezzo dei loro difensori e concludevano chiedendone l’annullamento.

Il Procuratore generale ricorrente ha censurato la sentenza impugnata per il seguente motivo:

1) violazione di legge e difetto di motivazione ex art. 606 c.p.p., lett. b) ed e) in relazione all’esclusione della contestata aggravante (aggravante della cosiddetta transnazionalità) di cui alla L. n. 146 del 2006, art. 4 limitatamente al capo A). Sosteneva il Procuratore generale ricorrente che la Corte territoriale aveva escluso la sussistenza della sopra indicata aggravante sulla base di una sentenza della Corte di Cassazione, senza peraltro dar conto di un diverso orientamento giurisprudenziale che invece ritiene la compatibilità di tale aggravante con il reato associativo e senza chiarire il percorso ermeneutico seguito per ritenere preferibile, in quanto ritenuto più in sintonia con la norma, l’orientamento in senso negativo in luogo di quello contrario.

G.R.J.A. censurava l’impugnata sentenza per i seguenti motivi:

1) Nullità della sentenza di primo grado, della sentenza di appello e della notifica dell’impugnazione proposta dal pubblico ministero per inosservanza dell’art. 143 c.p.p.. Secondo la difesa gli atti di cui sopra sarebbero affetti da nullità per omessa traduzione nella lingua conosciuta dall’imputato (lo spagnolo) ai sensi dell’art. 143 c.p.p. e art. 606 c.p.p., lett. c). Sul punto veniva richiamata la Direttiva 2010/64/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 20.10.2010 sul diritto alla traduzione ed alla interpretazione nei procedimenti penali.

2) Mancanza, contraddittorieta e manifesta illogicità della motivazione ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e) in relazione al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74. Secondo la difesa la sentenza impugnata che, riformando quella di primo grado, aveva ritenuto la colpevolezza dell’imputato G.R. in ordine al reato di cui al cit. D.P.R., art. 74, sarebbe affetta da gravi vizi logici e giuridici. In particolare la Corte territoriale non avrebbe spiegato quale contributo di partecipazione al sodalizio criminoso avrebbe fornito il G., il quale al massimo si era limitato a fornire un apporto contingente ed occasionale, circoscritto e funzionale alla commissione di specifici reati specificamente delineati, quali gli episodi contestati negli altri capi di imputazione. Anche il rapporto del G. con la sorella I. sarebbe soltanto un rapporto di reciproco aiuto e familiarità, comunque un rapporto bilaterale e non già un rapporto plurilaterale che solo avrebbe potuto giustificare la sussistenza dell’associazione. Nulla inoltre veniva evidenziato nella sentenza impugnata a proposito della sussistenza del dolo in capo al G. per quanto concerne il medesimo reato associativo.

Carente e contraddittoria sarebbe poi la motivazione attraverso la quale la Corte territoriale aveva definito il ruolo di dirigente ed organizzatore del ricorrente, il quale invece era conosciuto dagli inquirenti soltanto come gregario di altra organizzazione criminale radicata nel suo Paese (la repubblica Dominicana).

3) Mancanza, contraddittorieta e manifesta illogicità della motivazione ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e) in relazione agli artt. 133, 62 bis e 81 cpv c.p.. Secondo la difesa la sentenza impugnata sarebbe carente di motivazione anche laddove si occupa del trattamento sanzionatorio, in quanto la Corte territoriale non avrebbe giustificato la sua valutazione in ordine alla determinazione della pena stabilita in base ai parametri di cui all’art. 133 c.p., nonchè in ordine all’applicazione delle circostanze generiche ed alla correlativa riduzione di pena. Illogico sarebbe infine l’aumento di cinque anni per la continuazione con i reati fine con violazione del divieto della "reformatio in peius".

M.V. ha censurato la sentenza impugnata per i seguenti motivi:

1) violazione e/o errata applicazione della legge processuale penale sub specie art. 267 c.p.p.. Carenza di motivazione. Lamentava sul punto la difesa del ricorrente che la motivazione dei decreti autorizzativi delle intercettazioni telefoniche era difforme dai criteri dettati dall’art. 267 c.p.p. sia per quanto concerne i "gravi indizi" di reato, sia per quanto concerne l’indispensabilità delle stesse. Secondo la difesa l’iniziale ipotesi del reato di associazione per delinquere prospettata dal pubblico ministero non può legittimare l’ampliamento indiscriminato dei soggetti le cui conversazioni siano intercettate, non potendo l’originaria ipotesi associativa costituire la sola ragione sulla base della quale giustificare una serie indiscriminata di intercettazioni.

2) Violazione della legge processuale penale in relazione all’art. 507 c.p.p.; motivazione carente e contraddittoria. Secondo la difesa la motivazione con la quale la Corte di appello aveva rigettato i motivi inerenti la violazione dell’art. 507 c.p.p. da parte del giudice di prime cure sarebbe carente e contraddittoria rispetto alle risultanze processuali. Non sarebbe infatti rispondente al vero quanto si legge in sentenza, che era stata cioè disposta l’escussione di soggetti che avevano svolto attività già risultanti da documentazione presente nel fascicolo per il dibattimento. Il verbale di fermo non era stato infatti convalidato dal G.I.P. del Tribunale di Ancona e i verbali di perquisizione e sequestro, che avevano dato esito negativo, erano stati compiuti da personale diverso e del quale non era stata disposta l’escussione. Sarebbe stato quindi violato il criterio per il quale la prova "nuova" deve rapportarsi agli elementi già esistenti in atti.

3) Violazione della legge processuale penale in relazione all’art. 192 c.p.p. e all’art. 195 c.p.p.; motivazione carente e contraddittoria; travisamento dei fatti. Lamentava sul punto la difesa che la sentenza impugnata sarebbe assolutamente priva di motivazione con riferimento al capo d) dell’imputazione, dal momento che le dichiarazioni della teste G.M.I., sorella dell’imputato G.R.J.A. riguardavano solo l’episodio del (OMISSIS). Tali dichiarazioni sarebbero inoltre inutilizzabili in quanto la donna farebbe riferimento ad affermazioni a lei fatte dal fratello che non era mai stato escusso e sarebbero inoltre in contrasto con quelle rese dal maresciallo Mo..

4) Violazione della legge penale in relazione al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 e all’art. 81 c.p., comma 2. Lamentava sul punto la difesa che la Corte territoriale aveva ritenuto responsabile il ricorrente in relazione ai reati di cui ai capi d) ed e). Tuttavia, secondo la difesa, non si sarebbe in presenza di due episodi criminosi, ma di un singolo episodio criminoso, atteso che la condotta descritta al capo d) dell’imputazione sarebbe prodromica rispetto a quella di cui al capo e), trattandosi di un’offerta in vendita di un campione rispetto ad un quantitativo maggiore.

5) Violazione di legge in relazione all’art. 62 bis c.p., D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 6 e art. 59 c.p., comma 2; motivazione carente e contraddittoria. Lamenta la difesa che in ordine al ritenuto giudizio di equivalenza tra le attenuanti generiche e la contestata aggravante la motivazione della sentenza impugnata sarebbe assolutamente carente, non essendo in alcun modo indicate le ragioni per cui non era stato invece effettuato un giudizio di prevalenza.

Non sarebbe inoltre sussistente l’aggravante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 6, dal momento che, ai fini della sua sussistenza, è necessario che la pluralità dei soggetti sia riferibile a una delle condotte necessarie all’integrazione del reato (offerta, eventuale intermediazione, acquisto) e non alla somma delle tre. Inoltre non vi sarebbe prova che il M. fosse a conoscenza della partecipazione di più persone all’attività delittuosa.

Motivi della decisione

Osserva la Corte di Cassazione che il ricorso proposto dal Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello di Ancona è fondato.

Secondo la giurisprudenza di questa Corte, infatti, (cfr, Cass., Sez.5, Sent. N.1843 del 10.11.2011. Rv.253481) la circostanza aggravante ad effetto speciale prevista dalla L. 16 marzo 2006, n. 146, art. 4 per i reati transnazionali è configurabile in riferimento al delitto di associazione per delinquere anche qualora questo venga consumato interamente in Italia, giacchè per l’operatività dell’aggravante in questione non è necessario che il reato venga commesso anche all’estero, essendo invece sufficiente che alla sua realizzazione concorra un gruppo dedito ad attività criminali a livello internazionale.

Sul punto sono di recente intervenute anche le Sezioni Unite di questa Corte (cfr, SU, Sent. N.18374 del 31.01.2013, Rv.255034) secondo cui il gruppo criminale organizzato, cui fanno riferimento la L. n. 146 del 2006, artt. 3 e 4 è configurabile, secondo le indicazioni contenute nell’art. 2, punti a) e c) della Convenzione delle Nazioni Unite contro il crimine organizzato del 15 novembre 2000, in presenza dei seguenti elementi: a) stabilità dei rapporti tra gli adepti; b) minimo di organizzazione senza formale definizione di ruoli; c) non occasionalità o estemporaneità della stessa; d) costituzione in vista anche di un solo reato e per il conseguimento di un vantaggio finanziario o di altro vantaggio materiale. La sentenza in questione ha poi evidenziato in motivazione che il gruppo criminale organizzato è certamente un "quid pluris" rispetto al mero concorso di persone, ma si diversifica anche dall’associazione a delinquere di cui all’art. 416 c.p. che richiede un’articolata organizzazione strutturale, seppure in forma minima od elementare, tendenzialmente stabile e permanente, una precisa ripartizione di ruoli e la pianificazione di una serie indeterminata di reati. La sentenza impugnata deve essere pertanto annullata con rinvio limitatamente al punto concernente l’aggravante di cui alla L. n. 146 del 2006, art. 4 attenendosi ai principi ricordati.

Passando quindi all’esame del ricorso di G.R.J. A., si osserva quanto segue: inammissibile è il primo motivo, atteso che il ricorrente non aveva richiesto nell’atto di appello la traduzione della sentenza di primo grado e della notifica dell’impugnazione proposta dal pubblico ministero.

Sul punto vi è peraltro condivisibile giurisprudenza di questa Corte (cfr, Cass., sez.6, sent. N.16164 del 19.02.2013, Rv.254903; Cass., sez.3, sent. N.5486 del 12.07.2012, Rv.254399)secondo cui è inammissibile l’istanza di restituzione nel termine per proporre appello avverso una sentenza sul presupposto della nullità della stessa per mancata traduzione nella lingua dell’imputato alloglotta, in quanto trattasi di motivo estraneo al modello procedimentale previsto dall’art. 175 c.p.p..

Infondato è altresì il secondo motivo di ricorso, in quanto la Corte territoriale ha spiegato, con adeguata e congrua motivazione, le ragioni per cui ha ritenuto il ricorrente responsabile in ordine al reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74. I giudici della Corte territoriale hanno infatti sul punto evidenziato, sulla base delle prove acquisite in sede di istruttoria dibattimentale, che il G., potendo fare affidamento su importanti canali di approvvigionamento di cocaina, la cui esistenza aveva verosimilmente conosciuto nell’ambito di analoga attività svolta nel proprio Paese di origine, aveva ideato, organizzato e diretto un gruppo di persone legate tra loro da forti vincoli familiari che si dedicavano all’attività di "import export" di cospicue quantità di cocaina proveniente dalla Repubblica Dominicana.

Per quanto infine concerne il terzo motivo di ricorso, si osserva che lo stesso riguarda il trattamento sanzionatorio che dovrà essere rivalutato dal giudice di merito alla luce dell’annullamento con rinvio avente ad oggetto il punto concernente l’aggravante di cui alla L. n. 146 del 2006, art. 4 e i punti concernenti (in virtù dell’effetto estensivo) il riconoscimento della continuazione tra i reati contestati ai capi d ed e della rubrica e dell’aggravante prevista dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 6 di cui si parlerà a proposito del ricorso proposto dal M..

Passando all’esame del ricorso proposto da M.V., si osserva che lo stesso è fondato nei limiti di cui in motivazione.

Infondato è il primo motivo.

Il provvedimento impugnato infatti indica dettagliatamente i motivi per cui devono ritenersi utilizzabili le effettuate intercettazioni telefoniche, atteso che ben potevano i difensori degli imputati produrre essi stessi i decreti di intercettazione di cui lamentavano vizi relativi al loro contenuto. Rilevavano infine i giudici della Corte territoriale che i predetti decreti di intercettazione erano stati acquisiti in sede di appello al fascicolo processuale e in tale sede era stata verificata la loro conformità al dato normativo anche per quanto concerne l’indicazione degli indizi di reato.

Tanto premesso, il ricorrente si è limitato a sostenere che la motivazione dei sopra indicati decreti sarebbe in contrasto con quanto indicato dall’art. 267 c.p.p. sia per quanto concerne i "gravi indizi" di un reato, sia per quanto concerne l’indispensabilità delle intercettazioni, ma non li ha prodotti onde consentirne l’esame a questa Corte. Sul punto la giurisprudenza della Corte di Cassazione è concorde nell’affermare che (cfr., tra le altre, Cass., Sez.4, Sent. n.37982 del 26 giugno 2008),quando la doglianza abbia riguardo a specifici atti processuali, la cui compiuta valutazione si assume essere stata omessa o travisata, deve applicarsi, anche in sede penale, il principio della cosiddetta "autosufficienza del ricorso", elaborato dalla giurisprudenza civile di legittimità sulla base della formulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, onde è onere del ricorrente suffragare la validità del suo assunto mediante la produzione dei medesimi in modo da rendere possibile l’apprezzamento del vizio dedotto.

Conseguentemente non è possibile dare ingresso all’esame di tale vizio in sede di legittimità allorchè il ricorrente, come nel caso in esame, si limiti ad enunciare il preteso difetto di motivazione dei sopra indicati decreti.

Infondato è altresì il secondo motivo di ricorso,avendo la Corte territoriale, con congrua motivazione, spiegato le ragioni per cui erano stati ammessi di ufficio i testimoni già indicati dal pubblico ministero, con richiesta dichiarata precedentemente inammissibile.

Spiegavano infatti i giudici della Corte territoriale che il Collegio all’epoca era già in possesso di significativo materiale istruttorie, specificamente indicato in sentenza, che aveva fatto ritenere la necessità di escutere gli ufficiali di polizia giudiziaria che quelle attività investigative avevano compiuto, trattandosi di legittimo esercizio dei poteri ufficiosi del giudice (sul punto veniva citata pertinente sentenza delle sezioni unite di questa Corte). Passando all’esame del terzo e del quarto motivo di ricorso si osserva quanto segue: la Corte territoriale ha ritenuto responsabile il ricorrente in relazione ai reati di cui ai capi d) ed e), ritenendo che sussistevano due episodi criminosi e non già un unico e singolo episodio criminoso, come sostenuto dalla difesa di M.V., che ha ritenuto che la condotta descritta al capo d) dell’imputazione sarebbe prodromica rispetto a quella di cui al capo e), trattandosi di un’offerta in vendita di un campione rispetto ad un quantitativo maggiore.

Sul punto si osserva che i giudici di appello hanno congruamente motivato in merito alla valutazione degli elementi probatori da cui hanno desunto la responsabilità del M. in ordine a quanto contestato nei capi di imputazione contrassegnati con le lettere d) ed e). Peraltro gli stessi giudici della Corte territoriale, parlando a proposito della cessione di cocaina indicata sub d (cfr pag. 10 della sentenza impugnata), hanno affermato testualmente che la cocaina in questione è "costituente parte del maggior quantitativo oggetto dell’affare come descritto sub "e", con ciò sembrando ritenere che le condotte descritte sub d) e sub e) costituivano un unico episodio criminoso, in contrasto con quanto poi effettivamente deciso. Fondato è infine il quinto motivo di ricorso. La Corte di appello ha infatti ritenuto sussistente nei confronti del ricorrente M.V. l’aggravante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 6 in ordine ai sopra indicati capi di imputazione sub d e sub e. Sul punto peraltro la condivisibile giurisprudenza di questa Corte (cfr, Cass., sez.4, sent. del 4.10.2006, Rv.235375 e Cass., sez.6, sent. N.20798 del 10.02.2010, Rv.247325)ha ritenuto che in tema di reati in materia di sostanze stupefacenti, perchè possa sussistere l’aggravante del concorso di tre o più persone, occorre che ciascuno dei soggetti coinvolti agisca nell’ambito di una delle condotte previste per l’integrazione del reato (offerta, eventuale intermediazione, acquisto, detenzione, o altre), non potendosi fare richiamo alla pluralità di esse, attribuendone indistintamente la riferibilità a ciascun soggetto, a prescindere dal suo specifico ruolo.

Nella fattispecie che ci occupa invece i soggetti concorrenti, come si può desumere dai capi di imputazione e dalla lettura della sentenza impugnata, ponevano in essere condotte diverse.

La sentenza impugnata deve essere pertanto annullata con rinvio nei confronti di M.V. e per l’effetto estensivo anche nei confronti di G.R.J.A., limitatamente ai punti concernenti il riconoscimento della continuazione tra i reati contestati ai capi d ed e della rubrica e dell’aggravante prevista dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 6.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata nei confronti di M.V. – e, per l’effetto estensivo, anche nei confronti di G.R. J.A. – limitatamente ai punti concernenti il riconoscimento della continuazione tra i reati contestati ai capi D ed E della rubrica e dell’aggravante prevista dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 6 e rinvia su tali punti alla Corte di appello di Perugia per nuovo esame;

Rigetta nel resto i ricorsi degli imputati.

In accoglimento del ricorso del Procuratore Generale annulla la sentenza impugnata limitatamente al punto concernente l’aggravante di cui alla L. n. 146 del 2006, art. 4 e rinvia su tale punto alla medesima Corte.

Così deciso in Roma, il 15 ottobre 2013.

Depositato in Cancelleria il 22 novembre 2013

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