Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 15-10-2013) 18-11-2013, n. 46200

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/




Svolgimento del processo
1. E’ impugnata la sentenza del 24 maggio 2012 con la quale la Corte d’appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, in parziale riforma della decisione di primo grado, ha ritenuto S. F. responsabile del delitto di resistenza a pubblico ufficiale (art. 337 c.p.).
Secondo la ricostruzione dei fatti prospettata dal giudice d’appello, la S., nel novembre del (OMISSIS), aveva risposto in tono insultante alle contestazioni di due agenti di polizia municipale per una violazione concernente la sosta del proprio veicolo, ed era poi salita sul mezzo in questione, avviandolo e manovrando per immettersi nel flusso del traffico. Una delle agenti della polizia municipale, che si trovava davanti all’automobile, era stata urtata ed aveva riportato lesioni ad una gamba. A quel punto, per mezzo della radio, era stato richiesto ai componenti di un’altra pattuglia, presente lungo l’itinerario dell’imputata, di fermare il veicolo in fuga.
Il mezzo, per altro, aveva proseguito la sua corsa nonostante l’intimazione operata dagli ulteriori agenti di polizia. Seguono, nella decisione impugnata, riferimenti e considerazioni circa l’identificazione nell’odierna ricorrente della persona responsabile dei fatti.
S.F. era stata tratta a giudizio per un delitto continuato di resistenza a pubblico ufficiale, lesioni aggravate e ingiurie. Il Tribunale di Taranto, con sentenza del 6 luglio 2009, derubricato il contestato reato di lesioni da doloso a colposo, aveva condannato la stessa S., per un reato continuato comprendente anche il delitto di resistenza in danno della prima e della seconda coppia di agenti, alla pena di otto mesi di reclusione.
Nel corso del successivo giudizio di appello è stata prodotta, nell’interesse dell’imputata, copia di un decreto penale di condanna riferito ai fatti perseguiti anche nel presente procedimento.
Tuttavia, secondo la sentenza impugnata, non vi sarebbe piena coincidenza delle contestazioni, non essendo compreso, nella condanna per decreto, il delitto di resistenza in danno della seconda coppia di agenti, autonomamente contestato, per la prima volta, solo nell’odierno giudizio. In base a tale presupposto la Corte di appello ha dichiarato l’improcedibilità dell’azione per tutti i fatti ascritti alla S., escluso il secondo episodio di resistenza a pubblico ufficiale, per il quale ha rideterminato la pena in sei mesi di reclusione.
2. Con il primo motivo di ricorso, l’imputata denuncia l’inosservanza o l’erronea applicazione della legge penale (art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), ribadendo che la Corte territoriale avrebbe dovuto ritenere il bis in idem per tutti i fatti contestati nell’odierno giudizio.
Non sarebbe possibile escludere che la condotta di inosservanza all’ordine di fermarsi della seconda coppia di agenti fosse stata già considerata nel procedimento per decreto.
D’altra parte, lo stesso giudice di prime cure, nell’odierno giudizio, avrebbe palesato una concezione unitaria del delitto di resistenza, considerando la parte terminale della fuga come modalità concorrente di realizzazione di un medesimo ed unico fatto delittuoso. In ogni caso, con riguardo all’episodio finale della fuga, sarebbe stata fatta erronea applicazione dell’art. 337 c.p., non risultando che l’imputata avesse in un qualunque modo esercitato violenza o minaccia nei confronti della seconda coppia di agenti, o avesse impedito loro di inseguirla.
3. Con il secondo motivo di ricorso, la difesa denuncia un vizio di motivazione carente ed erronea, a norma dell’art. 606 c.p.p., lett. e), in termini di travisamento della prova.
Il ricorrente ricorda che, secondo la sentenza impugnata, l’agente che aveva intimato l’alt alla S. aveva dovuto spostarsi per non essere investito. Sarebbe completamente trascurata, tuttavia, una ulteriore e decisiva prospettazione dello stesso agente (resa nell’ambito della sua deposizione nel dibattimento di primo grado), secondo cui l’interessato aveva potuto "agevolmente bussare al parabrezza della macchina dell’imputata con la mano", astenendosi poi da un inseguimento per le condizioni del traffico.
4. Con il terzo motivo di ricorso, si assume una violazione della legge penale (art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), in rapporto alla quantificazione della pena concernente il secondo reato di resistenza a pubblico ufficiale.
Secondo il ricorrente, con il decreto penale di condanna già citato era stata inflitta una pena pecuniaria corrispondente alla reclusione per due mesi e quindici giorni. Nell’ambito del presente procedimento, il giudice di prime cure aveva inflitto alla S. la pena di otto mesi di reclusione per un unico reato continuato.
A parere della difesa, in applicazione dell’art. 671 c.p.p., comma 2, la pena inflitta nel giudizio di appello, per effetto della riconosciuta continuazione tra i reati complessivamente ascritti all’imputata, non avrebbe potuto essere superiore agli otto mesi di reclusione. Ed invece, cumulando la reclusione per sei mesi alla pena già definitivamente irrogata con il decreto di condanna, si sarebbe determinata una eccedenza di quindici giorni rispetto al limite indicato.
5. Con il quarto motivo di ricorso – ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), – si denuncia carenza assoluta di motivazione in ordine ai criteri di commisurazione della pena quanto al reato di resistenza per il quale la Corte territoriale ha ritenuto ulteriormente procedibile l’azione penale.
Motivi della decisione
1. Il primo dei motivi di ricorso proposti nell’interesse dell’imputata è infondato. Va escluso, infatti, che l’intervenuta condanna per un delitto di resistenza commesso nei confronti dei pubblici ufficiali C. e T. abbia determinato una violazione del divieto di bis in idem sancito dall’art. 649 c.p.p..
L’imputazione a suo tempo definita con il decreto penale di condanna aveva riguardato unicamente una diversa condotta, riferibile alla prima coppia di agenti, Co. e Ce., ed attuata con violenza consistita nell’avviare il veicolo e nell’avere urtato la menzionata agente Co., per poi allontanarsi dal luogo del parcheggio irregolare.
Nell’odierno giudizio la contestazione – pur comprendendoli tutti – distingue nettamente tra i fatti appena richiamati e la minaccia portata, in una distinta situazione di tempo e di luogo, a due diversi agenti, appostati lungo la via di fuga, uno dei quali si era posto innanzi al veicolo condotto dalla S. ed aveva intimato l’alt, scansandosi poi per non essere investito dall’auto in movimento.
Secondo la ricorrente, non sarebbe "agevole" comprendere se l’imputazione più risalente avesse compreso anche l’ultima fase della fuga dell’interessata. E’ sufficiente la comparazione tra le contestazioni, però, per verificare la diversa ampiezza del relativo oggetto, che certo non viene meno in forza della sintesi con la quale, nell’odierno procedimento, il giudice di primo grado ha valutato la rilevanza dei comportamenti ascritti alla S..
L’imputazione già definita si riferisce alla sola fase iniziale della fuga, e menziona solo le agenti Co. e Ce..
L’imputazione odierna comprende quel fatto ed aggiunge la descrizione della fase successiva, distinguendola ed introducendo una specifica ed autonoma menzione dei brigadieri C. e T. quali soggetti passivi della condotta di resistenza.
Si consideri che la giurisprudenza di questa Corte identifica una pluralità di reati (e dunque una concorrenza di fatti diversi) perfino per fatti di resistenza commessi in unico contesto, quando i fatti stessi coinvolgano più d’un pubblico ufficiale operante (da ultimo, Sez. 6^, n. 26173 del 17/05/2012, xxx, Rv. 253111).
Non residua alcun dubbio, quindi, circa l’estraneità al primo giudizio della condotta per la quale la S. è stata condannata con la sentenza impugnata nel presente procedimento.
2. Nel contesto di un motivo "unitario", la ricorrente assume che la residua condotta in contestazione non varrebbe, comunque, ad integrare il reato di cui all’art. 337 c.p.. Viene richiamata giurisprudenza relativa all’irrilevanza del comportamento di chi, per sottrarsi a controlli di polizia, non risponda all’intimazione di fermarsi e si dia alla fuga, senza usare violenza o minaccia nei confronti degli agenti operanti, ed in particolare senza ostacolare attivamente l’inseguimento avviato dai pubblici ufficiali (sono citate Sez. 6^, n. 16174 del 19/03/2008, xxx, non mass.; Sez. 2^, n. 46618 del 20/11/2009, xxx, rv. 245420; Sez. 6^, n. 28477 del 17/04/2012, P.D., non mass.).
I richiami in questione sono privi di pertinenza. La contestazione mossa alla S. non si fonda su pretese manovre di ostacolo all’inseguimento della seconda coppia di agenti, ma sulla sua scelta di non arrestare il veicolo che guidava sebbene un pubblico ufficiale le intimasse di fermarsi e sebbene l’interessato si trovasse sulla traiettoria del mezzo, così che sarebbe stato travolto qualora non si fosse spostato.
Questo si legge nel capo di imputazione, e questo si legge nella sentenza impugnata, ai punti d) ed e) del 7 e soprattutto al 14, ove la sussistenza del delitto è affermata in quanto "il C. fu costretto a rinunciare al fermo, per il concreto pericolo di essere investito".
Nessun apprezzamento, dunque, riguardo all’inseguimento successivo, in effetti fallito, a quanto pare, solo in forza delle condizioni del traffico.
E’ chiaro, per altro verso, che la conduzione di un veicolo in guisa da distogliere il pubblico ufficiale dal compito che gli compete, per evitare il rischio di subire un danno alla persona, costituisce un comportamento minaccioso, come tale idoneo ad integrare il delitto in contestazione. La giurisprudenza al riguardo è risalente, e concerne fattispecie in tutto simili a quella in considerazione (tra le molte, Sez. 1^, n. 336 del 12/11/1981, xxx, rv. 151585; Sez. 6^, n. 10071 del 15/05/1984, xxx, rv. 166696; Sez. 6^, n. 12554 del 30/10/1985, xxx, rv. 171468; Sez. 4^, n. 1788 del 12/01/1990, xxx, rv. 183262; Sez. 6^, n. 7061 del 25/05/1996, xxx, rv.
206021). Il fatto poi che non emerga una situazione di drammatico rischio per l’operante, e che vi siano segnali di una velocità non particolarmente elevata del mezzo condotto dalla S. (infra), vale certamente a giustificare l’assenza di ulteriori contestazioni (tentativo di lesioni o di omicidio), ma non incide, appunto, sulla valenza minacciosa della condotta.
3. Anche il motivo di impugnazione che prospetta un travisamento della prova con riguardo alla testimonianza dibattimentale del brigadiere C. risulta infondato.
Secondo la ricorrente, i giudici di merito avrebbero valutato la dichiarazione del teste – secondo cui l’interessato aveva dovuto scansarsi dopo avere intimato l’alt alla S. perchè si era posto sulla traiettoria del veicolo, e il conducente non aveva dato mostra di voler rallentare o fermarsi – senza tener conto di altri passaggi della deposizione, asseritamente decisivi. In tali passaggi, come risulta dall’atto puntualmente richiamato nel ricorso, il brigadiere C. aveva riferito che, una volta scansatosi, aveva "praticamente bussato sul parabrezza" dell’auto in transito, per indurre la conducente a fermarsi. Inoltre, sempre secondo la narrazione del teste, il veicolo non era stato inseguito e bloccato per le sfavorevoli condizioni del traffico.
Il presunto travisamento non sussiste, dato il difetto di pertinenza all’accusa delle dichiarazioni non direttamente apprezzate dal giudice di merito. Come si è visto, la dichiarazione di responsabilità si fonda sulla minaccia recata mediante la corsa dell’auto verso il punto in cui si trovava l’operante. Nessun rilievo, dunque, delle ragioni per le quali il veicolo condotto dalla S., in seguito, non è stato inseguito fino ad essere fermato. E neppure rileva il fatto che il brigadiere C. aveva potuto "praticamente" bussare sul parabrezza del veicolo, mentre gli transitava a lato: dovrebbe dedursene, presumibilmente, che il mezzo non procedeva a forte velocità; ma si è già visto, nel paragrafo che precede, che la circostanza non incide sulla valenza minacciosa della condotta.
4. Con il terzo ed il quarto motivo di impugnazione, che possono essere trattati congiuntamente, la ricorrente contesta la legittimità del provvedimento impugnato in punto di quantificazione della pena inflitta per l’unico delitto di resistenza rispetto al quale l’azione è stata ritenuta procedibile. Il giudice di merito avrebbe violato il disposto dell’art. 671 c.p.p., comma 2, ove è stabilito che il giudice dell’esecuzione, nel momento in cui identifica il vincolo della continuazione tra i fatti giudicati con più sentenze o decreti di condanna, non può determinare la pena per il reato continuato in misura superiore alla somma di quelle inflitte con i provvedimenti indicati.
Inoltre, sempre secondo il ricorrente, la sentenza impugnata andrebbe annullata per carenza assoluta di motivazione quanto ai criteri seguiti per la quantificazione della pena.
4.1. Al fine di valutare le censure della ricorrente è necessario ricostruire il quadro dei provvedimenti sanzionatori assunti riguardo ai fatti in considerazione.
Con l’ormai noto decreto penale di condanna era stata irrogata, nei confronti della S., la pena di Euro 2.850 di multa, in esito alle seguenti operazioni di computo. La pena base per il più grave fatto di resistenza a pubblico ufficiale (concernente – si ricordi – solo la condotta in danno delle agenti Co. e Ce.) era stata fissata in sei mesi di reclusione, subito diminuita fino a quattro mesi per effetto delle riconosciute attenuanti generiche, e portata a cinque mesi a titolo di aumento ex art. 81 c.p., comma 2, per il concorso in continuazione degli ulteriori reati. Tale ultima pena era stata sostituita, in applicazione della L. 24 novembre 1981, n. 689, art. 53, con la pena della multa di Euro 5.700 (il provvedimento di condanna risale al gennaio del 2009).
Infine, con la diminuzione connessa al rito (dell’art. 459 c.p.p., comma 2), la pena pecuniaria si era assestata sull’indicato valore di Euro 2.850.
Dal canto proprio il Tribunale di Taranto, valutando una fattispecie comprendente anche il secondo episodio di resistenza (oltre che i delitti di ingiuria e di lesioni personali colpose), e riconoscendo in via generale circostanze attenuanti generiche "con criterio di prevalenza", aveva identificato il reato più grave nel delitto di resistenza a pubblico ufficiale, senza ulteriori specificazioni, fissando la pena in sei mesi di reclusione ed aumentandola fino ad otto mesi per la ritenuta continuazione con le ulteriori condotte criminose.
Quanto infine alla sentenza di appello, oggetto dell’odierno ricorso, va ricordato come la stessa abbia riguardo al solo fatto di resistenza concernente la seconda coppia di agenti, essendosi per il resto dichiarato che l’azione penale non poteva proseguire in ragione di precedente giudicato sui medesimi fatti.
Nella motivazione del provvedimento non si rinviene alcun riferimento alla quantificazione della pena per il fatto residuo. Solo nel dispositivo si legge, al fianco della deliberazione di parziale conferma della sentenza di primo grado, che la Corte territoriale "ridetermina la pena a carico dell’odierna appellante in mesi sei di reclusione".
4.2. Per quanto la ricorrente, con il terzo motivo, abbia prevalentemente fondato le proprie doglianze sul disposto dell’art. 671 c.p.p., comma 2, la sentenza impugnata è censurata, in sostanza, anche per la ritenuta violazione del divieto di reformatio in peius.
Viene posto in luce, difatti, che la S. è uscita dal giudizio di appello (da lei sola promosso) con una pena complessivamente superiore a quella che le era stata inflitta con la sentenza di primo grado.
Con tale provvedimento, come si è visto, la sanzione per il reato continuato era stata quantificata in otto mesi di reclusione.
Sommando la pena recata dal decreto penale di condanna e quella irrogata con la sentenza d’appello – provvedimenti che nel loro complesso attengono agli stessi fatti – si ottiene, all’esito delle opportune conversioni, una sanzione complessiva pari alla reclusione per otto mesi e quindici giorni.
Non si ritiene che, così operando, il giudice dell’appello abbia violato il disposto dell’art. 671 c.p.p., comma 2. E’ certo vero che la norma, testualmente dettata con riguardo al procedimento di esecuzione, esprime un principio che la giurisprudenza ritiene applicabile anche al giudizio di cognizione (si veda, ad esempio, Sez. 1^, n. 12704 del 06/03/2008, xxx, rv. 239376). Il precetto che vieta il superamento del valore segnato dalla somma delle pene precedentemente inflitte, tuttavia, attiene unicamente ai reati per i quali già sia formato il giudicato, e non vale a fissare una soglia quanto al fatto per il quale la condanna deve ancora essere pronunciata. Non vale neppure, come pretenderebbe la ricorrente, a creare un vincolo atipico per il giudice di appello che intervenga su di un reato per il quale la pena deve cumularsi ad altre già definitivamente inflitte per fatti che confluiscono nell’unica fattispecie continuata. E’ semmai il divieto di reformatio in peius, con la regola correlata di corrispondenza tra accoglimento parziale dell’appello e diminuzione corrispondente della pena, a generare potenziali vincoli nel senso anzidetto.
Il caso di specie è affatto particolare, posto che la riforma parziale della sentenza di primo grado è stata deliberata per bis in idem e non per un proscioglimento riguardo ad una parte dei fatti considerati nella decisione di primo grado. Deve ugualmente ritenersi, per altro, che il giudice di appello, gravato dell’onere di un’autonoma determinazione della pena per il reato ulteriormente procedibile, non avrebbe potuto computare quest’ultima in guisa da determinare un’eccedenza rispetto al cumulo tra la sanzione inflitta in primo grado per lo stesso reato, e quella (potenzialmente) eseguibile riguardo ai reati già giudicati in precedenza (art. 597 c.p.p., comma 3).
Nel caso di specie, d’altra parte, la carenza motivazionale in punto di determinazione della pena inflitta è talmente grave da ostacolare la stessa individuazione dello specifico profilo di contrasto tra la decisione assunta ed il principio in questione.
Si è già visto come la Corte territoriale si sia limitata ad enunciare nel dispositivo il quantum della pena inflitta per il reato eccedente il precedente giudicato. Tale pena – senza per altro che la circostanza venga addotta a giustificazione del decisum – è formalmente corrispondente a quella irrogata dal giudice di primo grado, che però l’aveva riferita ad uno dei plurimi episodi di resistenza evidenziati nel capo di imputazione, senza specificare quale.
In ogni caso, il primo giudice aveva ritenuto la continuazione fra tutti i reati ascritti alla S., continuazione del resto riconosciuta anche in sede di condanna per decreto, riguardo al più ristretto oggetto della relativa contestazione. Nella sentenza impugnata – come la ricorrente ha eccepito sinteticamente ma esplicitamente – non v’è alcun riferimento al vincolo esistente tra i reati, che è stato sostanzialmente disconosciuto, applicando un criterio di cumulo materiale che ha condotto, come già detto, all’irrogazione di una pena complessivamente superiore a quella inflitta prima dell’impugnazione.
In aggiunta, va rilevata la mancanza anche "grafica" di motivazione riguardo ai parametri di quantificazione della pena, di cui all’art. 133 c.p., nonchè riguardo al ruolo, nel relativo computo, delle circostanze attenuanti generiche, che il primo giudice aveva riconosciuto con "criterio di prevalenza", senza per altro porle in specifica relazione con una aggravante riferibile al delitto di resistenza.
5. Per le ragioni illustrate, la sentenza impugnata deve essere annullata con rinvio, affinchè la competente Corte di appello (quella di Lecce) provveda ad un nuovo giudizio in punto di determinazione della pena per il delitto di resistenza commesso dalla S. nei confronti dei pubblici ufficiali C. e T..
Nel giudizio di rinvio la decisione sarà congruamente motivata in ordine a tutti i fattori di determinazione del trattamento sanzionatorio, come sopra richiamati, osservando il principio per il quale il giudice di appello, quando dichiara parzialmente improcedibile l’azione per bis in idem, se l’impugnazione è proposta dal solo imputato, non può determinare per il reato ulteriormente procedibile una pena che, cumulata a quella irrevocabilmente inflitta con la sentenza già passata in giudicato per gli altri reati, risulti superiore a quella irrogata dal giudice di primo grado.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata, limitatamente alla determinazione della pena, e rinvia per nuovo giudizio sul punto alla Corte d’appello di Lecce. Rigetta nel resto il ricorso.
Così deciso in Roma, il 15 ottobre 2013.
Depositato in Cancelleria il 18 novembre 2013

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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