Cass. civ. Sez. VI – 1, Sent., 11-09-2012, n. 15204

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Svolgimento del processo

B.M. e C.A. con ricorso del 10 ottobre 2010, hanno impugnato per cassazione deducendo tre motivi di censura -, nei confronti del Ministro dell’economia e delle finanze, il decreto della Corte d’Appello di Milano depositato in data 14 luglio 2009, con il quale la Corte d’appello, pronunciando sul ricorso dei predetti ricorrenti – volto ad ottenere l’equa riparazione dei danni non patrimoniali ai sensi della L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2, comma 1, in contraddittorio con il Ministro dell’economia e delle finanze – il quale, costituitosi nel giudizio, ha concluso per l’inammissibilità o l’infondatezza del ricorso -, ha rigettato il ricorso. Il Ministro dell’economia e delle finanze non svolge attività difensiva.

La domanda di equa riparazione del danno non patrimoniale era fondata sui seguenti fatti: a) i ricorrenti avevano proposto – con ricorso del 12 febbraio 1997 – domanda dinanzi al Tribunale amministrativo regionale per il Piemonte volta a contestare un provvedimento di recupero di somme da essi percepite; b) il Tribunale adito, con provvedimento del 15 aprile 2010, aveva dichiarato la perenzione del ricorso. La Corte d’Appello di Milano, dopo aver affermato che il disinteresse manifestato dai ricorrenti "costituisce indice in equivoco dell’assenza di ansia ed insofferenza data dall’incertezza in ordine alle posizioni coinvolte nel processo" – ha escluso la sussistenza del danno non patrimoniale, in considerazione del fatto che i ricorrenti non avevano posto in essere alcun atto idoneo ad impedire la perenzione.

Motivi della decisione

Viene denunciata dai ricorrenti come illegittima, anche sotto il profilo dei vizi di motivazione, sia l’affermata non indennizzabilità della irragionevole durata del processo in ragione, soltanto, della dichiarata perenzione del processo presupposto, sia l’affermata totale indifferenza, in relazione alla posta in gioco, rispetto alla pretesa fatta valere dinanzi al Giudice amministrativo, nonchè l’apoditticità della motivazione.

Il ricorso merita accoglimento.

Questa Corte ha già più volte affermato i principi secondo cui, in tema di equa riparazione ai sensi della L. 24 marzo 2001, n. 89, la lesione del diritto alla definizione del processo in un termine ragionevole, di cui all’art 6, par. 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, va riscontrata, anche per le cause davanti al giudice amministrativo, con riferimento al periodo intercorso dall’instaurazione del relativo procedimento, senza che una tale decorrenza del termine ragionevole di durata della causa possa subire ostacoli o slittamenti in relazione alla mancanza dell’istanza di prelievo od alla ritardata presentazione di essa, secondo cui l’innovazione, introdotta dal D.L. 25 giugno 2008, n. 112, art. 54, comma 2, convertito in Legge con modificazioni dalla L. 6 agosto 2008, n. 133, art. 1, comma 1 (per il quale la domanda non è proponibile se nel giudizio davanti al giudice amministrativo, in cui si assume essersi verificata la violazione, non sia stata presentata l’istanza di prelievo ai sensi del R.D. 17 agosto 1907, n. 642, art. 51), non può incidere sugli atti anteriormente compiuti, i cui effetti, in mancanza di una disciplina transitoria o di esplicite previsioni contrarie, restano regolati, secondo il fondamentale principio tempus regit actum, dalla norma sotto il cui imperio siano stati posti in essere, e secondo cui – tuttavia – la mancata o ritardata presentazione dell’istanza di prelievo può incidere, entro i limiti dell’equità, sulla determinazione dell’entità dell’indennizzo, con riferimento all’art. 2056 cod. civ., richiamato dalla L. n. 89 del 2001, art. 2 (cfr., ex plurimis, le sentenze nn. 28507 del 2005, pronunciata a sezioni unite, 24901 e 28428 del del 2008, 14753 del 2010, nonchè l’ordinanza n. 5317 del 2011). In conformità con tale orientamento, è stato ulteriormente precisato che l’innovazione introdotta dal citato D.L. n. 112 del 2008, art. 54, comma 2, è inapplicabile – in difetto di una disciplina transitoria o di esplicite previsioni contrarie ed in ossequio al principio tempus regit actum – a quei procedimenti di equa riparazione aventi ad oggetto un giudizio amministrativo introdotto prima dell’entrata in vigore della predetta normativa (cfr., ex plurimis, l’ordinanza n. 115 del 2011). Tale orientamento giurisprudenziale ha ottenuto sostanziale avallo dalla Corte EDU (decisione 2 giugno 2009, Daddi contro Italia, specificamente sull’interpretazione del D.L. n. 112 del 2008, art. 54, comma 2, in senso conforme alla CEDU), la quale inoltre, con due recenti decisioni (del 16 marzo 2010, Volta et autres contro Italia, e del 6 aprile 2010, Falco et autres contro Italia), ha ritenuto che potessero essere liquidate, a titolo di indennizzo per il danno non patrimoniale da eccessiva durata del processo, in relazione ai singoli casi ed alle loro peculiarità, somme complessive d’importo notevolmente inferiore a quella di mille/00 Euro annue normalmente liquidate, con valutazione di detto danno che consente al giudice italiano di procedere, in relazione alle particolarità della fattispecie, a liquidazioni dell’indennizzo più riduttive rispetto a quelle precedentemente ritenute congrue (cfr., ex plurimis, le sentenze nn. 14753 del 2010 cit. e 1359 del 2011).

Questa Corte ha inoltre affermato il principio per il quale, in tema di equa riparazione per irragionevole durata del processo amministrativo, l’istituto della perenzione decennale dei ricorsi, introdotto dalla L. 21 luglio 2000, n. 205, art. 9 – nel testo, applicabile ratione temporis, anteriore alle modifiche di cui al D.L. n. 112 del 2008, art. 54, convertito in legge dalla L. n. 133 del 2008, art. 1, comma 1 – non si traduce in una presunzione di disinteresse per la decisione di merito al decorrere di un tempo definito dopo che la domanda sia stata proposta, ma comporta soltanto la necessità che le parti siano messe in condizione, tramite apposito avviso, di soffermarsi sull’attualità dell’interesse alla decisione e di manifestarlo, con la conseguenza che la mancata presentazione dell’istanza di fissazione, rendendo esplicito l’attuale disinteresse per la decisione di merito, giustifica l’esclusione della sussistenza del danno per la protrazione ultradecennale del giudizio, ma non impedisce una valorizzazione dell’atteggiamento tenuto dalle parti nel periodo precedente, quale sintomo di un interesse per la decisione mano a mano decrescente, e quindi come base per una decrescente valutazione del danno e del relativo risarcimento (cfr., ex plurimis, le sentenze nn. 6619 del 2010 e 3271 del 2011).

E’ stato precisato che in tema di equa riparazione per irragionevole durata del processo amministrativo, la proponibilità della relativa domanda avanti alla corte d’appello esige che nel giudizio presupposto, in cui si assume essersi verificata la violazione della L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 1, sia stata presentata l’istanza di prelievo, ai sensi del citato D.L. n. 112 del 2008, art. 54, comma 2 e secondo le modalità del R.D. 17 agosto 1907, n. 642, art. 51, comma 2, ancorchè tale atto e l’eventuale istanza di fissazione d’udienza ai sensi della L. n. 205 del 2000, art. 9, comma 2, siano privi della sottoscrizione personale della parte, mancando una specifica deroga al principio generale, per il quale gli atti processuali di parte sono posti in essere direttamente dal difensore costituito con rituale procura, e nonostante la norma da ultimo citata preveda che la predetta istanza debba essere sottoscritta dalla parte personalmente, pena l’improcedibilità di quel giudizio, in quanto la violazione della norma in parola non può determinare anche effetti procedurali negativi sul diverso giudizio di equa riparazione promosso dalla parte avanti alla corte d’appello, cui non spetta stabilire se il giudizio presupposto dovesse essere dichiarato improcedibile (cfr. l’ordinanza n. 25832 del 2010).

Infine, secondo il consolidato orientamento di questa Corte, in caso di violazione del termine di durata ragionevole del processo, il diritto all’equa riparazione di cui alla L. n. 89 del 2001, art. 2, spetta a tutte le parti del processo, indipendentemente dal fatto che esse siano risultate vittoriose o soccombenti, costituendo l’ansia e la sofferenza per l’eccessiva durata del processo i riflessi psicologici del perdurare dell’incertezza in ordine alle posizioni in esso coinvolte, ciò ad eccezione dei casi in cui il soccombente abbia promosso una lite temeraria, o abbia artatamente resistito in giudizio al solo fine di perseguire proprio il perfezionamento della fattispecie di cui al richiamato art. 2, e dunque in difetto di una condizione soggettiva di incertezza, nei quali casi l’esistenza di queste situazioni, costituenti abuso del processo, deve esser provata puntualmente dall’Amministrazione, non essendo sufficiente, a tal fine, la deduzione che la domanda della parte – come nella specie – sia stata dichiarata manifestamente infondata (cfr., ex plurimis e tra le ultime, le sentenze nn. 9938 del 2010, 25595 del 2008, 21088 del 2005; cfr., altresì, le sentenze nn. 18780 del 2010 e 10500 del 2011). Nella specie, i Giudici a quibus hanno sostanzialmente – ed erroneamente – fondato la ratio decidendi, in violazione di tutti i su richiamati principi ed adottando una motivazione chiaramente insufficiente, soltanto sulla dichiarata perenzione del giudizio presupposto, senza accertare, innanzitutto, se ed a chi sia stato nella specie notificato l’avviso di cui alla L. n. 205 del 2000, art. 9, comma 2, e, soprattutto, negando l’indennizzo sulla base della sola dichiarazione di perenzione dello stesso processo presupposto, intervenuta comunque a distanza di circa quattordici anni dall’inizio di tale processo, senza peraltro verificare la sussistenza dei presupposti della fattispecie di abuso del processo sulla base delle prove eventualmente dedotte dal Ministro resistente.

Pertanto, il decreto impugnato deve essere annullato in relazione alle censure accolte (cfr., in termini, Cass., 10 maggio 2012, n. 7186). Non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito, ai sensi dell’art. 384 cod. proc. civ., comma 2. Rilevato che il processo presupposto de quo ha avuto una durata complessiva di tredici anni e due mesi circa (dal 12 febbraio 1997, data del ricorso introduttivo del processo presupposto, al 15 aprile 2010, sussistendo il diritto all’equa riparazione per il danno non patrimoniale di cui alla L. n. 89 del 2001, art. 2, considera equo, in linea di massima, l’indennizzo di Euro 500,00 per ciascuno degli anni di durata complessiva del processo: esso va quindi determinato in Euro 6.580,00 in favore di ciascuno dei ricorrenti, oltre gli interessi a decorrere dalla proposizione della domanda di equa riparazione e fino al saldo.

P.Q.M.

Accoglie il ricorso nei limiti di cui in motivazione; cassa il decreto impugnato e, decidendo la causa nel merito, condanna il Ministro dell’economia e delle finanze al pagamento, in favore di ciascun ricorrente, della somma di Euro 6.580,00, oltre gli interessi dalla domanda, condannandolo altresì al rimborso, in favore delle parti ricorrenti, delle spese del giudizio, in complessivi Euro 1.140,00, di cui Euro 50,00 per esborsi, Euro 600,00 per diritti ed Euro 490,00 per onorari, oltre alle spese generali ed agli accessori come per legge, e, per il giudizio di legittimità, in complessivi Euro 965,00, di cui Euro 100,00 per esborsi, oltre alle spese generali ed agli accessori come per legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sesta Sezione Civile, il 6 giugno 2012.

Depositato in Cancelleria il 11 settembre 2012

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