Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 15-10-2013) 15-11-2013, n. 45971

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Svolgimento del processo
1. Con sentenza in data 13/11/2012, la Corte di appello di Lecce, in riforma della sentenza del Tribunale di Lecce del 19/11/2009, impugnata dal P.M., dichiarava C.R. responsabile dei reati di cui ai capi A) art. 416 c.p., B) artt. 81 e 110 c.p., art. 112 c.p., n. 1, art. 648 bis c.p., L. n. 203 del 1991, art. 7 e C) artt. 81 e 110 c.p., art. 112 c.p., n. 1, art. 644 c.p., L. n. 203 del 1991, art. 7, dell’imputazione, per quest’ultimo esclusi gli episodi in danno di S.A. e M.P., in relazione ai quali pronunciava sentenza di assoluzione, perchè il fatto non sussiste per il reato in danno di M.P. e per non aver commesso il fatto per il reato in danno di S. A., e, unificati i reati sotto il vincolo della continuazione, concesse le attenuanti generiche, lo condannava alla pena di anni cinque e mesi sei di reclusione ed Euro 4.500,00 di multa, ordinando, altresì, la confisca dei beni mobili ed immobili, titoli e quote sociali già sequestrati al C.R. con ordinanza del Tribunale di Lecce in data 13/12/2005; dichiarava, infine, non doversi procedere nei confronti di C.R. in ordine al reato allo stesso ascritto al capo D), perchè estinto per prescrizione.
1.1. La Corte territoriale accoglieva, nei termini sopra indicati, l’appello proposto dal P.M. avverso la sentenza di primo grado nella parte in cui aveva mandato assolto C.R. dai reati allo stesso ascritti.
2. Avverso tale sentenza propone ricorso l’imputato, per mezzo del suo difensore di fiducia, sollevando i seguenti motivi di gravame:
2.1. mancanza, contraddittorietà, manifesta illogicità della motivazione, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), nonchè violazione dell’art. 192 c.p.p.. Si duole al riguardo che la Corte territoriale non ha preso in considerazione tutte le prove indicate dalla difesa ed acquisite nel giudizio di primo grado con particolare riferimento agli elaborati ed alle dichiarazioni dei consulenti tecnici di parte, i quali hanno svolto un’approfondita analisi all’esito della quale sarebbero state tutte chiarite le perplessità che erano state evidenziate dai militari della Guardia di Finanza e dai consulenti del P.M.; essi avrebbero chiarito le ragioni dell’ammontare complessivo dei movimenti riguardanti gli assegni transitati sui conti correnti della società ed individuato le causali di quelle singole operazioni che erano state ritenute sospette. Si evidenzia l’assoluto difetto di motivazione della sentenza, nella parte in cui, per giungere a considerare i movimenti del conto cassa e la costituzione del conto creditorio " M. R." artifici contabili volti a mascherare l’afflusso o il deflusso di titoli provenienti da operazioni di riciclaggio ed usura, non tiene conto di una parte delle prove emerse nel corso del giudizio, sia quelle prese in considerazione dal Tribunale nel pronunciare la sentenza di assoluzione, sia quelle di cui non ha tenuto conto il giudice di prime cure.
Con riferimento poi alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, quanto a quelle di Ce.Fi., la Corte territoriale omette di compararle con i dati valorizzati dal Tribunale in base ai quali le stesse non erano state ritenute intrinsecamente attendibili oltre che in contrasto con dati certi acquisiti al processo: in tal senso si rappresenta come la riferita consegna di cambiali provento di rapina, per procedere al riciclaggio delle stesse, non si concilia con il dato acquisito al processo, in base al quale allorquando si sarebbe verificato il fatto, il C. non svolgeva ancora l’attività di rivendita di tabacchi e valori bollati. Si evidenzia come i giudici di appello non si pongono il problema relativo alla provenienza de relato, tramite C.V., della chiamata in correità effettuata dal suddetto Ce. nei confronti dell’attuale ricorrente. Passando alle dichiarazioni rese da T.D., nella sentenza impugnata non vengono valorizzati quei passaggi, riportati nella decisione di primo grado, in ordine al ruolo ricoperto dal ricorrente.
Con riferimento alle dichiarazioni di V.F. la Corte territoriale non tiene conto delle affermazioni del Tribunale in ordine al ruolo attribuito al ricorrente che, secondo i primi giudici, si confondeva con la sua normale attività di amministratore unico della Co.Fin. S.r.l. nonchè della pure rilevata tendenza dello stesso all’enfasi che ha indotto ai giudici particolare prudenza nella valutazione dell’attendibilità soggettiva e della credibilità oggettiva, vista anche l’assenza di riscontri oggettivi.
Quanto alle dichiarazioni di Ce.Si., i giudici di appello non tengono conto dei dubbi che erano stati rilevati dal Tribunale in ordine a quanto riferito dal collaboratore, che, a giudizio del Tribunale, non era mai stato preciso nei suoi racconti.
Anche con riferimento alle dichiarazioni di S.A., la Corte territoriale si limita a considerare riduttiva la lettura delle prove dichiarative acquisite in primo grado che si porrebbe in contrasto con la valenza dimostrativa delle plurime chiamate in correità dei collaboratori.
Si evidenzia ancora che nella sentenza impugnata vengono ripresi solo alcuni brani delle intercettazioni che vengono letti, a differenza di quanto avvenuto in primo grado, in maniera avulsa dagli altri elementi di prova; segnatamente secondo il ricorrente da quelle intercettazioni poteva ricavarsi soltanto che presso le stazioni di servizio gestite dalle società facenti capo a C.R. venivano cambiati degli assegni; e la Corte territoriale non ha tenuto conto di tutte quelle dichiarazioni, citate nella sentenza di primo grado, di persone che avevano affermato di avere cambiato, per comodità, assegni propri o ricevuti da terzi presso le stazioni di servizio suddette nonchè del fatto che detta prassi emergeva anche dalle intercettazioni.
Si deduce al riguardo l’assoluta carenza di motivazione della sentenza impugnata, in quanto il giudizio espresso è inficiato dall’omesso esame dei suddetti elementi di prova acquisiti al processo e richiamati nella sentenza di primo grado.
Si rappresenta poi che la Corte territoriale si è limitata a ricavare la responsabilità dell’imputato sulla base dei dati assolutamente generici rappresentati dal col. D. e dai consulenti del P.M. in ordine al volume degli assegni ed alla percentuale del loro valore rispetto al totale degli importi versati nei conti correnti della società ogni anno. A fronte di ciò il Tribunale, all’esito di un’analisi molto più approfondita, aveva evidenziato che il numero degli assegni oggetto di riciclaggio era veramente modesto rispetto alla quantità di titoli negoziati sui conti correnti della Co.Fin. s.r.l., come anche il valore complessivo dei suddetti titoli risultava ugualmente modesto rispetto ai flussi di titoli accreditati sui suddetti conti correnti; inoltre i giudici di prime cure giudicavano inesistente la prova del versamento del denaro in misura maggiore rispetto a quello derivante dagli incassi della società, quale frutto dell’attività commerciale svolta, mancando, quindi, qualsiasi prova di un eventuale riciclaggio di denaro di provenienza illecita.
Con riferimento poi al delitto di associazione a delinquere, evidenzia che la Corte territoriale è pervenuta all’affermazione della penale responsabilità dell’imputato solo sulla base del ritenuto suo coinvolgimento nei delitti di riciclaggio ed usura.
2.2. inosservanza od erronea applicazione della legge penale nonchè mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), in relazione agli D.Lgs. n. 385 del 1993, artt. 132 e 106.
Si duole, al riguardo, della dichiarazione di estinzione per intervenuta prescrizione del reato di cui al D.Lgs. n. 385 del 1993, art. 132, per non avere l’imputato svolto nessuna delle attività consentite solo agli intermediari finanziari iscritti nell’apposito elenco tenuto presso l’Ufficio italiano cambi.
2.3. inosservanza od erronea applicazione della legge penale nonchè mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), in relazione alla L. n. 356 del 1992, art. 12 sexies, per essere la sentenza impugnata totalmente immotivata in relazione alla disposta confisca. Evidenzia, al riguardo, che nell’istruttoria dibattimentale non è stato acquisito alcun elemento di prova in relazione all’entità del patrimonio del ricorrente e non è emerso nessun dato attraverso il quale possa valutarsi l’eventuale sproporzione dell’accumulo patrimoniale rispetto al reddito dichiarato ed ai proventi dell’attività economica dello stesso. Viceversa attraverso l’esame dei consulenti tecnici di parte era emerso l’assoluto equilibrio dei valori relativi ai proventi dell’imputato derivanti dal reddito dichiarato e dalle molteplici attività economiche gestite dallo stesso e tali dati non erano stati contestati dal consulente del P.M..
Motivi della decisione
3. Il ricorso risulta fondato e merita accoglimento in relazione alle censure mosse nell’ambito del primo motivo proposto e specificamente con riguardo alle valutazione effettuata da parte della Corte territoriale delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, risultando assorbite tutte le altre doglianze proposte.
3.1. Deve, in via preliminare, osservarsi che il processo penale vigente in Italia, quale delineato dal legislatore del 1989, prevede un giudizio di primo grado a struttura tipicamente accusatoria, nell’ambito del quale, quanto meno in linea generale, la prova viene acquisita, nel contraddittorio delle parti dinanzi al giudice imparziale e terzo; ed al principio del contraddittorio, consacrato a livello costituzionale nell’art. 111 Cost., si affiancano a livello di legge ordinaria, come cardini del nuovo processo penale, i principi dell’oralità e dell’immediatezza.
Nell’ambito di questo sistema processuale è stato, tuttavia, mantenuto, a differenza di quanto avviene nei cosiddetti sistemi accusatori puri, attraverso il giudizio di appello, il doppio grado di giurisdizione che consiste nella possibilità di ottenere sulla medesima imputazione una seconda pronuncia destinata a prevalere sulla prima: nei rispetto dei limiti delle impugnazioni proposte dalle parti è prevista con il secondo grado di giudizio la possibilità di rivedere in peius o in melius la prima decisione. A ciò si può pervenire, in linea generale, attraverso l’esame del medesimo materiale probatorio formatosi in primo grado, essendo la possibilità di escutere testimoni o assumere nuove prove, attraverso la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, un’eccezione subordinata alla presenza di rigorosi presupposti. Nell’ambito di questo sistema delineato dal legislatore merita particolare attenzione, alla luce dei successivi interventi del legislatore, della Corte Costituzionale ed in particolare, per quel che nel seguito si dirà, della Corte Europea dei diritti dell’Uomo, l’ipotesi, che è quella di cui si discute nell’ambito del presente ricorso, della sentenza di assoluzione in primo grado riformata, in seguito all’impugnazione da parte del P.M., in una sentenza di condanna. Trattasi, difatti, di una situazione del tutto atipica sia rispetto al sistema accusatorio puro che con riguardo al principio del doppio grado di giurisdizione; difatti, da un lato, l’affermazione della penale responsabilità dell’imputato viene dichiarata sulla base di un esame cartaceo degli atti assunti in primo grado con conseguente compromissione della dialtettica processuale delle parti nel momento di assunzione della prova; e, da un altro lato, l’imputato si ritrova privato del doppio grado di giurisdizione, potendo, contro la sentenza in grado di appello proporre soltanto ricorso in Cassazione per motivi di legittimità, essendo di fatto preclusa una rivisitazione nel merito della decisione che lo ha riconosciuto colpevole.
L’intervento del legislatore sul sistema, attuato con la L. n. 46 del 2006 che ha riscritto l’art. 593 c.p.p., non ha potuto sortire gli effetti auspicati da autorevole dottrina che aveva evidenziato le sopra esposte criticità soprattutto dopo l’entrata in vigore della nuova formulazione dell’art. 111 Cost.; difatti la Corte Costituzionale con la sentenza n. 27 del 2007, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della suddetta norma nella parte in cui aveva escluso che il pubblico ministero potesse appellare contro le sentenze di proscioglimento.
Ciononostante la giurisprudenza di questa Corte di legittimità si era da tempo dimostrata sensibile alle problematiche di sistema fin qui evidenziate, enucleando, ancor prima degli interventi della giustizia sovranazionale, dei limiti precisi entro i quali poteva addivenirsi, in seguito all’impugnazione della parte pubblica, alla riforma in peius della sentenza di assoluzione in primo grado.
In tale direzione si è affermato che, in tema di motivazione della sentenza, il giudice di appello che riformi totalmente la decisione di primo grado ha l’obbligo di delineare le linee portanti del proprio, alternativo, ragionamento probatorio e di confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza, tali da giustificare la riforma del provvedimento impugnato (sez. U. n. 33748 del 12/07/2005, Rv.
231679). Si è parlato al riguardo di motivazione "rafforzata" per evidenziare come essa debba essere particolamente pregnate ed approfondita; segnatamente si è, acutamente, precisato che la sentenza di appello di riforma totale del giudizio assolutorio di primo grado deve confutare specificamente, pena altrimenti il vizio di motivazione, le ragioni poste dal primo giudice a sostegno della decisione assolutoria, dimostrando puntualmente l’insostenibilità sul piano logico e giuridico degli argomenti più rilevanti della sentenza di primo grado, anche avuto riguardo ai contributi eventualmente offerti dalla difesa nel giudizio di appello, e deve quindi corredarsi di una motivazione che, sovrapponendosi pienamente a quella della decisione riformata, dia ragione delle scelte operate e della maggiore considerazione accordata ad elementi di prova diversi o diversamente valutati (sez. 6^ n. 6221 del 20/4/2005, Rv.
233083).
Nel contempo, però, si era costantemente riconosciuto l’effetto devolutivo dell’appello proposto dalla parte pubblica avverso la sentenza di assoluzione, precisandosi anche quali erano i diritti che l’imputato, assolto in primo grado, poteva fare vale nel giudizio di appello instaurato solo su iniziativa del P.M.; in tal senso questa Corte ha avuto modo di affermare: "L’appello del P.M. contro la sentenza di assoluzione emessa all’esito del dibattimento, salva l’esigenza di contenere la pronuncia nei limiti della originaria contestazione, ha effetto pienamente devolutivo, attribuendo al giudice "ad quem" gli ampi poteri decisori previsti dall’art. 597 c.p.p., comma 2, lett. b).
Ne consegue che, da un lato, l’imputato è rimesso nella fase iniziale del giudizio e può riproporre, anche se respinte, tutte le istanze che attengono alla ricostruzione probatoria del fatto ed alla sua consistenza giuridica; dall’altro, il giudice dell’appello è legittimato a verificare tutte le risultanze processuali e a riconsiderare anche i punti della sentenza di primo grado che non abbiano formato oggetto di specifica critica, non essendo vincolato alle alternative decisorie prospettate nei motivi di appello e non potendo comunque sottrarsi all’onere di esprimere le proprie determinazioni in ordine ai rilievi dell’imputato" (sez. U n. 33748 del 12/7/2005, Rv. 231675).
Ed anche più recentemente ed in particolare dopo l’intervento della Corte Costituzionale (sentenza n. 23 del 2007), questa Corte ha avuto modo di affermare, anche in ragione del principio del ragionevole dubbio, che era stato introdotto dal legislatore con la già citata L. n. 46 del 2006, che nel giudizio di appello, per la riforma di una sentenza assolutoria non basta, in mancanza di elementi sopravvenuti, una mera e diversa valutazione del materiale probatorio già acquisito in primo grado ed ivi ritenuto inidoneo a giustificare una pronuncia di colpevolezza, che sia caratterizzata da pari o addirittura minore plausibilità rispetto a quella operata dal primo giudice, occorrendo, invece, una forza persuasiva superiore, tale da far venir meno ogni ragionevole dubbio (sez. 6^ n. 46847 del 10/7/2012, Rv. 253718; nello stesso senso sez. 6^ n. 1266 del 10/10/2012, Rv. 254024).
Nella ora descritta elaborazione si è inserita la decisione della Corte EDU (Corte EDU, 5/7/2011, xxxcontro xxx) che ha ravvisato la violazione dell’art. 6 par. 1 della Convenzione per violazione dei principi del giusto processo, nell’ipotesi in cui il processo di appello, che aveva portato ad un ribaltamento della decisione assolutoria di primo grado, si era svolto in assenza di qualsiasi attività istruttoria e sulla base del solo esame testuale delle prove assunte nel giudizio di primo grado. Segnatamente i giudici di Strasburgo, pur riconoscendo la piena compatibilità con i principi affermati dalla Convenzione della possibilità della condanna pronunciata dal giudice di appello in riforma di una pronuncia assolutoria in primo grado, hanno affermato che, laddove il diverso epilogo decisorio scaturisca da una diversa valutazione di attendibilità di prove orali considerate decisive, l’art. 6 della Convenzione impone l’assunzione diretta da parte dei giudici di appello delle suddette prove orali, in ordine alle quali si ritiene di dovere modificare il giudizio di attendibilità espresso dai primi giudici.
Ciò oggi rappresenta un principio che, in forza dell’art. 117 Cost., nell’interpretazione datane dalla Corte Costituzionale (sentenza n. 113 del 2001), deve trovare diretta applicazione nel nostro diritto interno; in tal senso si è, appunto, affermato che le norme della CEDU, nel significato loro attribuito dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, integrano, quali norme interposte, il parametro costituzionale espresso dall’art. 117 Cost., comma 1, nella parte in cui impone la conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali.
Deve ancora evidenziarsi che alla suddetta decisione della Corte EDU altre ne sono seguite che hanno ulteriormente ampliato e chiarito, sempre nella direzione sopra indicata, il principio del diritto ad un equo processo fissato dall’art. 6 della Convenzione.
Così in particolare si è espressamente precisato che, in base al suddetto principio, l’accusato ha il diritto di confrontarsi con i testimoni alla presenza del giudice chiamato a decidere, con pieni poteri sulla valutazione del fatto e del diritto, sulla sua colpevolezza ed innocenza (Corte EDU 5/3/2013, Manolachi contro Romania). In sostanza, precisano ancora i giudici di Strasburgo, il diritto all’equo processo è il diritto ad un’affidabile valutazione dell’attendibilità della prova orale, che può essere garantita solo dall’assunzione diretta della stessa da parte del giudice chiamato a decidere sulla responsabilità dell’imputato (Corte EDU 9/4/2013, Fluera contro Romania). Ed ancora si è ribadito che è incompatibile con le garanzie convenzionali il ribaltamento della sentenza di assoluzione fondato su una mera rivalutazione della testimonianza assunta in primo grado, laddove non si sia proceduto alla nuova audizione dei testimoni, con l’ulteriore precisazione che a tale incombente il giudice di appello deve procedere anche d’ufficio in assenza di un’esplicita richiesta di parte (Corte EDU 4/6/2013, Hani contro Romania).
La giurisprudenza di questa Corte, chiamata a confrontarsi con i richiamati principi, si è trovata a doverne circoscrivere in modo netto e preciso gli ambiti di applicazione, evidenziando le fattispecie concrete alle quali si era riferita la Corte EDU e nell’ambito delle quali, soltanto, si era ritenuto indispensabile, in caso di ribaltamento della decisione assolutoria di primo grado, risentire i testimoni già escussi in quel grado di giudizio.
In sostanza si è precisato che, con riferimento al giudizio di appello, la violazione del principio stabilito dall’art. 6, par. 1 CEDU è ancorata al duplice requisito della decisività della prova testimoniale per pervenire, ribaltando l’esito assolutorio del primo grado di giudizio, ad un giudizio di penale responsabilità, e della necessità, ai medesimi fini, di operare una rivalutazione, in termini di attendibilità, della medesima prova testimoniale; il tutto sulla base della semplice lettura delle dichiarazioni rese dai testi in questione nel giudizio di primo grado, senza procedere ad un nuovo esame degli stessi (sez. 5^ n. 38085 del 5/7/2012, Rv. 253541;
sez. 2^ n. 46065 del 8/11/2012, Rv. 254726; sez. 5 n. 10965 del 11/1/2013, Rv. 255223; sez. 6^ n. 16566 del 26/2/2013, Rv. 254623).
Sulla base dei principi ora affermati, ritiene il Collegio, con particolare riferimento al caso di specie ed alle doglianze sollevate in termini di difetto della motivazione ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), di dovere affermare in chiave positiva il principio finora enucleabile solo implicitamente delle sopra citate decisioni: nel caso di riforma in peius, da parte del giudice di appello, della sentenza di assoluzione in primo grado, laddove l’affermazione di penale responsabilità scaturisca da un diverso apprezzamento dell’attendibilità di prove orali considerate decisive, sussiste l’obbligo, in forza dell’art. 6 par. 1 CEDI), così come interpretato dalla Corte EDU, di procedere alla rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale sentendo nuovamente, nel contraddittorio delle parti, i suddetti testimoni.
3.2. Passando a calare i principi sopra enunciati nel caso di specie, osserva il Collegio che: all’esito dell’istruttoria dibattimentale il giudice di primo grado riteneva accertato che nell’area di servizio sulla via per (OMISSIS) e nel distributore di carburante di (OMISSIS) di (OMISSIS) venivano accettati assegni per il pagamento del prezzo del carburante e di altre merci vendute, venivano cambiati assegni con denaro liquido e parte degli assegni erano postdatati e senza data; detta prassi era autorizzata verbalmente da C.R., il quale girava tutti gli assegni per l’incasso in qualità di amministratore unico della CO.FIN. Il giudice di prime cure si era diffuso nel valutare, alla luce delle risultanze dell’istruttoria dibattimentale ed in particolare delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, la fondatezza dell’ipotesi accusatoria di cui al capo b) dell’imputazione, cioè l’avere fatto confluire denaro ed assegni di provenienza delittuosa nelle casse dei distributori di carburante dallo stesso gestito con la finalità di confonderli con il patrimonio societario di origine lecita. E così, con specifico riferimento alle dichiarazioni di Ce.Fi., viene dato atto che i fatti di riciclaggio di fogli firmati in bianco per cambiali e di altri valori bollati erano estranei al capo b) dell’imputazione, che riguarda esclusivamente il riciclaggio di denaro ed altri titoli di credito; veniva, poi, evidenziata l’assenza di riscontri autonomi e precisi in ordine a quanto riferito dal suddetto Ce. e l’inattendibilità di quanto dallo stesso dichiarato in ordine al riciclaggio dei valori bollati oggetto di rapina, in quanto la CO.FIN. aveva iniziato solo nel 1995 a vendere valori bollati nell’area di servizio sita sulla via per (OMISSIS) e solo nel 1997 aveva iniziato a gestire il distributore di carburanti con annessa tabaccheria.
Quanto all’immissione nelle aziende facenti capo al ricorrente di denaro liquido di provenienza illecita, aveva evidenziato il giudice di prime cure che nessun contributo era emerso dalle dichiarazioni di Ce.Fi., T.D., D.S.P., essendo, invece, risultato un apporto in tale direzione dalle dichiarazioni di Ce.Si., V.F. ed S.A..
Il Tribunale ha, quindi, proceduto all’analitico esame di tali contributi dichiarativi, evidenziando in primo luogo che le dichiarazioni di Ce.Si. erano connotate da insuperabile imprecisione, per essere sui punti rilevanti attinenti alla responsabilità dell’attuale ricorrente precedute sempre dall’espressione "se non ricordo male", ed essendo risultate come tali inutilizzabili come prova e come riscontro di altre dichiarazioni. Quanto poi alle dichiarazioni rese da V. F. hanno dato atto i giudici che il ruolo attribuito a C.R. si confonde con la sua normale attività di amministratore unico della CO.FIN., avendo dovuto lo stesso, in tale sua qualità, necessariamente, sottoscrivere la girata per l’incasso di tutti gli assegni comunque ricevuti; hanno ancora esplicitato come non fosse emerso dalle suddette dichiarazioni quale relazione vi fosse fra l’attività di usura alla quale era dedito V. C. unitamente ai fratelli L. e ad altre persone ed i distributori di carburante della CO.FIN. facenti capo all’attuale ricorrente; hanno rilevato l’assenza di riscontri oggettivi alle dichiarazioni rese dal suddetto V. nella parte in cui C.R. viene collocato accanto al fratello V. nella descrizione di una serie di episodi, rappresentandosi anche i ragionevoli dubbi insorti nei giudici sull’attendibilità soggettiva del dichiarante e sulla credibilità oggettiva di quanto riferito.
Il Tribunale, quindi, aveva enunciato le ragioni in forza delle quali non aveva considerato attendibile quanto riferito da S. A. in ordine alla ricezione da parte dell’attuale imputato di somme di denaro di sicura provenienza delittuosa, evidenziandosi l’imprecisione delle suddette dichiarazioni in ordine alla destinazione che l’imputato avrebbe dato alle suddette somme; in sostanza la circostanza che C.R. fosse subalterno al fratello V. si poneva in contrasto con quanto riferito da tutti gli altri testimoni; in sintesi i giudici di prime cure avevano concluso che dall’esame di quanto riferito dal suddetto S. non era stato possibile percepire quale fosse il ruolo ricoperto dall’attuale ricorrente nelle vicende delittuose in esame, valutando le dichiarazioni dello stesso inutilizzabili come prova e come riscontro alle dichiarazioni di V., che non risultano essere state confermate su fatti concreti.
All’esito dell’esame delle dichiarazioni dei sei collaboratori di giustizia che avevano accusato C.R., il Tribunale era pervenuto alla conclusione che il fatto di cui al capo b) con riferimento all’ipotesi relativa al riciclaggio del denaro contante non risultava provato; ed al riguardo aveva fornito una propria spiegazione in ordine al contenuto delle suddette dichiarazioni, convergenti nell’indicare l’attuale ricorrente come il responsabile del riciclaggio del denaro, ma ritenute, per la ragioni sopra dette, inidonee a fungere da prova o da riscontro reciproco sui fatti contestati, evidenziando come era emerso che i suddetti collaboratori, avendo avuto rapporti con C.V. nell’ambito dell’attività di usura alla quale tutti erano dediti, avevano collegato mentalmente questa attività illecita con l’attività d’impresa del fratello, attuale ricorrente, presso la quale C.V. si faceva vedere, non potendosi escludere neppure una millanteria di quest’ultimo di un credito del fratello stesso, così potendo apparire più affidabile.
Con riferimento poi all’ipotesi relativa al riciclaggio degli assegni indicati nel capo d’imputazione, la sentenza di primo grado, ha esaminato, in relazione a tutti i titoli indicati nella contestazione, la sussistenza dell’elemento oggettivo del reato di cui all’art. 648 bis cod. pen., costituito, nel caso di specie, nell’attività di sostituzione, trasferimento di denaro proveniente dalle attività illecite gestite da vari gruppi di criminalità organizzata facenti capo a L.G., Ce.Fi., C.C. e V.F. o nel compimento di altre operazioni finalizzate ad ostacolare la suddetta provenienza delittuosa, pervenendo alla conclusione che, in relazione ai diversi titoli, non vi fosse stata da parte dell’imputato alcuna attività volta ad ostacolare la provenienza delittuosa della provvista portati dai titoli stessi. Con particolare riferimento, poi, alle dichiarazioni di Ce.Fi. e T.D. che avevano dichiarato che gli assegni venivano cambiati da C.V. senza che l’ultimo possessore avesse apposto la firma di girata, così effettivamente ostacolando l’individuazione della provenienza delittuosa degli stessi, aveva ritenuto il Tribunale che non fosse emersa la prova che l’imputato fosse effettivamente a conoscenza di tale prassi o ne avesse accettato il rischio, non emergendo in tale direzione nessun elemento dalle stesse dichiarazioni di Fi.
C. e T.D..
Segnatamente Ce.Fi. aveva, al riguardo, riferito che per ogni operazione vi doveva essere l’avallo di C.R. e che il fratello V. doveva ottenere l’assenso del primo anche se aveva una certa autonomia, nel senso che poteva movimentare anche somme di 50 o 100 milioni, ma per le cose più delicate andava sempre dal fratello; T.D., invece, nulla aveva riferito in ordine alla provenienza del denaro utilizzato da C.V. per il cambio degli assegni.
Quanto al delitto di usura di cui al capo c), il Tribunale, dopo avere preso in considerazione tutte le dichiarazioni rese dalle persone offese ed averle confrontate con quanto riferito dai collaboratori Ce.Fi., T.D., D.P. S., T.F. e Ce.Si., ha ricostruito la vicenda nei termini che seguono: risultava accertato un rapporto illecito di tipo societario fra C.V., i fratelli L. ed altre persone avente ad oggetto l’investimento di un considerevole capitale nell’usura; non era emersa, però, ad avviso del Tribunale, la relazione fra tale specifica attività ed i distributori di carburante della CO. FIN., al di là di singole situazioni nelle quali si era verificato che C.V. aveva cambiato con gli incassi dei distributori assegni postdatati di persone usurate, trattenendo per se, a titolo di interessi, una parte del denaro prelevato.
Segnatamente il Tribunale non riteneva accertato un ruolo dell’attuale ricorrente nella descritta attività di usura, avendo solo il V. riferito che C.R. divideva con il fratello i proventi dell’attività illecita e ciò ha giustificato l’assoluzione dello stesso dal reato ascrittogli. In tal senso il Tribunale aveva evidenziato che l’imputato poteva certo essere consapevole del margine di guadagno che il fratello ed altri suoi dipendenti potevano assicurarsi trattenendo per loro una parte del denaro prelevato dagli incassi dei distributori per il cambio degli assegni postdatati, ma ciò non era stato considerato sufficiente per affermare che lo stesso conoscesse l’entità degli importi trattenuti ed in particolare il tasso d’interesse praticato.
Passando al reato di cui al D.Lgs. n. 385 del 1993, art. 132, contestato al capo d), in relazione al quale la Corte territoriale ha dichiarato l’estinzione per prescrizione, il giudice di prime cure aveva rappresentato come sia emersa l’insussistenza del fatto, costituito dall’attività di concessione di finanziamenti da parte di chi non è iscritto nell’elenco degli intermediari finanziari, per essere stato accertato che gli assegni, anche post datati, non venivano cambiati a chiunque, ma solo a clienti assidui o a persone conosciute da C.V. o dal dipendente che li riceveva.
Con riferimento al reato associativo di cui al capo a), la conclusione di insussistenza del fatto, alla quale è pervenuto sinteticamente il Tribunale, era fondata sull’assenza di responsabilità di tutti gli imputati, con esclusione di G. D.P. e L.G., in ordine al reato di usura di cui al capo c). Non aveva rinvenuto, quindi, il giudice di prime cure elementi probatori per cogliere l’esistenza di un’associazione fondata su un contributo causale di tutti i partecipanti ai fatti di usura.
3.3. A fronte di tale motivazione, la Corte territoriale ha ritenuto che il Tribunale abbia errato nella valutazione delle prove acquisite in giudizio, male interpretando l’univoca valenza dimostrativa delle stesse, con ciò, già in via preliminare, inserendosi proprio in quel segmento nel quale ormai deve considerarsi vigente nell’ordinamento il sopra richiamato principio stabilito dalla Corte EDU. Si afferma, in primo luogo, che l’attività di ricezione dei titoli di credito presso i distributori e la successiva monetizzazione avveniva secondo precise direttive dei fratelli C. ed aveva consentito di fare affluire nelle casse dei distributori un’imponente massa di denaro di provenienza illecita. E con specifico riferimento alle dichiarazioni di Ce.Fi., la Corte territoriale è pervenuta ad una diversa valutazione dell’attendibilità di quanto dallo stesso riferito omettendo di considerare le argomentazioni utilizzate dal Tribunale per ritenere il medesimo contributo collaborativo inattendibile.
Con riferimento alle dichiarazioni di Ce.Si., la Corte d’Appello non ha condiviso il giudizio di insuperabile imprecisione espresso in primo grado ed in forza del quale le suddette dichiarazioni erano state considerate inutilizzabili come prova e come riscontro di altre dichiarazioni. Quanto alle dichiarazioni rese da V.F. nella sentenza di appello, a differenza di quanto risulta dalla decisione di primo grado, viene riconosciuto un sufficiente grado di precisione e di attendibilità al contributo dichiarativo, omettenendosi di considerare che in primo grado era stata rappresentata la difficoltà di evincere dalle dichiarazioni del medesimo collaboratore l’effettivo ruolo ricoperto da C. R., dato che lo stesso si confondeva, abitualmente, con la sua normale attività di amministratore unico della CO.FIN. e che inoltre si era ritenuto che dalle suddette dichiarazioni non fosse emerso quale relazione vi fosse fra l’attività di usura alla quale era dedito C.V., unitamente ai fratelli L. e ad altre persone, ed i distributori di carburante della CO.FIN. facenti capo all’attuale ricorrente. Ed anche con riferimento alle dichiarazioni rese da S.A., la Corte territoriale è pervenuta ad un diverso giudizio sull’attendibilità dello stesso, proprio in ordine a quanto riferito dal collaboratore in ordine alla ricezione da parte dell’attuale ricorrente di somme di sicura provenienza illecita.
Con riguardo, poi, alle dichiarazioni rese da T.D., pur apparendo la divergenza fra il giudizio di primo e quello di secondo grado attinente al contenuto ed alla rilevanza dell’apporto collaborativo di quanto riferito dal suddetto collaboratore, evidentemente detta divergenza di valutazione involge profili relativi all’attendibilità di quanto emerso, attraverso, la prova orale nell’ambito del giudizio di primo grado.
In definitiva in tutte le ipotesi ora citate, i giudici di secondo grado, pur avendo ritenuto di valutare diversamente, rispetto al giudice di prime cure, le sopra richiamate prove orali, non hanno avvertito la necessità di procedere, attraverso la riapertura dell’istruttoria dibattimentale, all’audizione dei suddetti collaboratori, onde saggiarne, in attuazione del principio di oralità ed in particolare attraverso il metodo del contraddittorio, l’attendibilità.
Ciò, per le ragioni sopra dette, si pone in violazione del principio del giusto processo stabilito dall’art. 6 par. 1 della CEDU, nell’interpretazione che alla norma convenzionale e" stata data, nelle decisioni sopra citate, dalla Corte sovranazionale, vincolanti per il giudice italiano. Difatti dall’esame della sentenza impugnata si evince chiaramente, pur in presenza di ulteriori significative emergenze istruttorie (indagini di polizia giudiziaria, assegni acquisiti, intercettazioni telefoniche, consulenze tecniche, dichiarazioni delle persone offese), la rilevanza e la decisività della valutazione di attendibilità delle dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia, in assenza delle quali non sarebbe stato possibile per la Corte territoriale pervenire ad un’affermazione di penale responsabilità dell’imputato; ciò comporta che, per potere adeguatamente dissentire dal giudizio di inattendibilità espresso in primo grado senza incorrere nel vizio di motivazione, era necessario l’esame diretto anche da parte dei giudici di appello dei dichiaranti.
E’ proprio in ordine a questo specifico punto non può che convenirsi con i giudici di Strasburgo sulla particolare delicatezza e complessità del compito affidato al giudice chiamato a valutare l’attendibilità di un testimone; a ciò consegue che, in aderenza ai principi propri del rito accusatorio, quanto meno in linea generale e con le previste eccezioni, per potere adeguatamente esprimere detto giudizio è indispensabile l’esame diretto delle fonti di prova orale da parte del giudice dello stesso chiamato a valutarne l’attendibilità, non essendo a tal fine sufficiente la mera lettura dei verbali delle dichiarazioni raccolte da altro giudice.
Da quanto finora detto emerge che ben diversa è la fattispecie in cui la divergenza di valutazione fra giudici di primo grado e giudici di appello non attenga all’attendibilità intrinseca dei dichiaranti, ma alla valutazione dei riscontri. In una tale ipotesi, che diverge sostanzialmente da quella oggetto del presente ricorso, i giudici di appello, ove intendano ribaltare la decisione di assoluzione intervenuta in primo grado, potranno procedere ad una diversa valutazione dei riscontri soggiacendo soltanto a quell’onere di motivazione rafforzato di cui, pure sopra, si è detto.
3.4. La sentenza impugnata deve essere, per le considerazioni sopra esposte, annullata con rinvio ad altra sezione della Corte d’Appello di Lecce, perchè proceda a nuovo giudizio in ordine ai reati ascritti all’imputato.
Al riguardo, in base a quanto previsto dall’art. 173 disp. att. c.p.p., comma 2, il giudice di rinvio dovrà attenersi al seguente principio di diritto: ove all’esito del giudizio di appello si intenda riformare in peius una sentenza assolutoria sulla base di una diversa valutazione dell’attendibilità di prove dichiarative assunte in primo grado che rivestano il carattere della decisività, è indispensabile, in forza dell’art. 6 CEDU così come interpretato dalla sentenza della Corte EDU nel caso xxxc/xxx, procedere alla rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale per escutere direttamente i testi dinanzi al medesimo giudice chiamato a rivalutare la prova.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte d’Appello di Lecce per nuovo giudizio.
Così deciso in Roma, il 15 ottobre 2013.
Depositato in Cancelleria il 15 novembre 2013

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