Cass. civ. Sez. I, Sent., 11-09-2012, n. 15163

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Svolgimento del processo
che P.G. e L.P.D., con citazione del 1 aprile 2009, chiesero alla Corte d’Appello di Milano, ai sensi della L. 31 maggio 1995, n. 218, art. 67, di dichiarare efficace nella Repubblica Italiana la sentenza del Tribunale Superiore di xxx(Massachusetts-U.S.A.), pronunciata in data 27 luglio 2005 su ricorso degli attori nei confronti di C.A., della s.p.a. xxx e della Società xxx xxx.;
che gli attori, in particolare, esposero che: a) nel 1992, avevano costituito negli Stati Uniti una società – xxx – avente ad oggetto l’importazione e la distribuzione (negli U.S.A. e nel Canada) di contenitori per piante; b) nel 1994, il L. P., per conto della xxx, aveva concluso un accordo di distribuzione con la s.p.a. xxx, operante nel medesimo settore, ottenendo il diritto di importare e di distribuire negli U.S.A. in esclusiva i vasi da fiori prodotti dalla s.p.a. xxx; c) a seguito di accordi con il C. stipulati nel 1996, il capitale della già costituita (dagli attori) Società xxx xxx., avente ad oggetto la produzione e la distribuzione dei prodotti xxx già distribuiti dalla xxx, era stato suddiviso tra la P. (49,5%) e la s.p.a. xxx (50,5%), con un consiglio di amministrazione composto dal C. e da entrambi gli attori, ai quali era stata affidata l’amministrazione ed il controllo gestionale della Società; d) il L.P. aveva assunto l’incarico di presidente e di generai manager della Società xxx xxx., sottoscrivendo con questa un apposito contratto; e) tra la xxx e la Società xxx xxx. era stato sottoscritto un accordo di esclusiva territoriale al fine di regolare i reciproci diritti di vendita dei prodotti eventualmente in concorrenza; f) nel 1997, la P. e la s.p.a. xxx avevano stipulato patti parasociali di distribuzione degli utili della Società xxx xxx., in forza dei quali gli azionisti di quest’ultima, salvo dissenso unanime, si sarebbero dovuti distribuire annualmente almeno il cinquanta per cento dei profitti netti e dei dividendi; g) a seguito di contrasti insorti tra gli attori ed il Casale, quest’ultimo, nel 2001, aveva nominato unilateralmente altri due consiglieri di amministrazione ed istituito un comitato esecutivo, assumendone la presidenza; h) tra il 2001 ed il 2003, la Società xxx xxx. aveva risolto l’incarico affidato al L. P., senza corrispondergli alcunchè in violazione dell’accordo (cfr., supra, lett. e), si era rifiutata ripetutamente di fornire tutti i dati concernenti la Società alla P., cui non era stato peraltro corrisposto alcun compenso per la carica rivestita; h) in violazione dei patti parasociali sottoscritti (cfr., supra, lettera f), non era stato distribuito alcun dividendo della xxx xxx. per l’anno 2002; i) a seguito di tutto ciò, essi avevano adito il Tribunale di xxx(Massachusetts-U.S.A.), chiedendo: – il risarcimento dei danni causati dall’azionista di maggioranza s.p.a. xxx e dal C. in violazione del dovere di fedeltà nei confronti dell’azionista di minoranza P.; – l’accertamento della violazione, da parte della s.p.a. xxx e del C., del dovere di fedeltà verso gli attori, nascente dagli accordi del 1996 (cfr., supra, lettera e); – il risarcimento dei danni causati dalla violazione, da parte della s.p.a. xxx e del C., degli obblighi di buona fede e correttezza; – il risarcimento dei danni subiti dal L.P. per la violazione, da parte della xxx xxx., del contratto stipulato con la stessa; – il risarcimento dei danni subiti dalla xxx per l’inadempimento della xxx xxx. agli accordi stipulati dalle due Società; – il risarcimento dei danni subiti dal L.P. per i comportamenti scorretti e decettivi della xxx xxx.; 1) in contraddittorio con tutti i convenuti, il Tribunale statunitense adito, con la su ricordata delibanda sentenza, aveva condannato la xxx xxx. al pagamento, in favore della P., della somma di 266.947,20, a titolo di risarcimento dei danni causati dall’azionista di maggioranza s.p.a. xxx e dal C. in violazione del dovere di fedeltà nei confronti dell’azionista di minoranza P., condannandola altresì al pagamento, in favore del L.P., della somma di 26.264,02, ed aveva condannato la s.p.a. xxx al pagamento, in favore degli attori, della somma di 2.436.041,47; m) tale sentenza era stata integralmente confermata dalla Corte d’Appello del Massachussets, divenendo definitiva a seguito della dichiarazione di inammissibilità del ricorso proposto alla Corte suprema del Massachussets; n) la stessa sentenza non era stata eseguita dai convenuti;
che, costituitasi, la s.p.a. xxx chiese il rigetto della domanda, eccependo una serie di profili di asserita contrarietà della sentenza statunitense all’ordine pubblico;
che la Corte d’Appello di Milano, con la sentenza n. 714/11 del 10 marzo 2011, ha dichiarato efficace nella Repubblica Italiana la sentenza del Tribunale Superiore di xxx(Massachusetts-U.S.A.), pronunciata in data 27 luglio 2005 dal Giudice xxx nel contraddittorio tra gli attori e la s.p.a. xxx, come successivamente aggiornata dal medesimo Tribunale con il provvedimento denominato xxxt after Rescript del 12 gennaio 2009;
che avverso tale sentenza la s.p.a. xxx ha proposto ricorso per cassazione, deducendo quattro motivi di censura in via principale ed un unico motivo di censura in via subordinata;
che resistono, con controricorso, P.G. e L.P. D.;
che il Procuratore generale ha concluso per il rigetto del ricorso.
Motivi della decisione
che la sentenza impugnata – quanto al motivo di opposizione al riconoscimento della sentenza statunitense, concernente la sua contrarietà all’ordine pubblico, per violazione dell’art. 24 Cost., nella parte in cui è stata accertata l’esistenza di patti parasociali sulla base delle sole dichiarazioni della P. e del L.P. – ha affermato che: a) con la nuova disciplina di cui alla L. n. 218 del 1995, la corte di appello, adita per la delibazione, deve limitarsi ad accertare l’esistenza dei requisiti del riconoscimento, indicati nella citata L. n. 218 del 1995, art. 64, non potendosi procedere nè ad una nuova statuizione sul rapporto sostanziale dedotto in giudizio dinanzi al giudice straniero, nè ad accertamenti o statuizioni su questioni estranee al mero accertamento dei requisiti del riconoscimento; b) la mera difformità rispetto all’ordinamento interno delle norme che nel sistema straniero disciplinano l’onere della prova ed il libero convincimento del giudice non comporta alcuna violazione dell’ordine pubblico processuale italiano, che si riferisce ai principi inviolabili posti nell’ordinamento a garanzia del diritto di difesa; c) nella specie, il libero convincimento del Giudice statunitense si è formato anche – "ma non solo" – sulle dichiarazioni delle parti; d) anche l’ordinamento processuale italiano consacra, nell’art. 116, secondo comma, il principio del libero convincimento del giudice, "Nè si vede come l’esercizio di tale potere – che implica la valutazione, in funzione probatoria, delle dichiarazioni e del contegno di entrambe le parti processuali e, quindi, su un piano di parità sostanziale delle stesse – possa, di per sè, tradursi i una violazione del diritto di difesa";
che, con il primo motivo (con cui deduce: "Nullità della sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, per violazione e falsa applicazione della L. n. 218 del 1995, art. 64, lett. g, e degli artt. 24 e 111 Cost., nella parte in cui, in contrasto con l’ordine pubblico processuale, è stata data per accertata l’esistenza di un patto parasociale sulla base della sola dichiarazione di controparte"), la ricorrente – sulla premessa che, "Come confermato dai giudici della Corte di Appello di Milano, l’unico elemento su cui si basano i giudici statunitensi per asserire l’esistenza del suddetto patto è costituito dalle dichiarazioni dei sigg.ri L.P. e P." – critica tale parte della sentenza impugnata, sostenendo che nel giudizio statunitense "non è stata raccolta alcuna prova (testimoniale, documentale, o di altro tipo) se non le mere dichiarazioni di alcune delle parti interessate", che la contrarietà all’ordine pubblico processuale italiano è costituita non dalla facoltà delle parti di deporre in giudizio, ma dalla circostanza che il contenuto delle deposizioni delle stesse "possa costituire l’unica prova della dimostrazione di fatti favorevoli a chi le pone e sfavorevoli all’altra", e che non è evocabile, a sostegno della sentenza impugnata, l’istituto dell’interrogatorio libero delle parti previsto sia nel rito ordinario sia nel rito del lavoro, che non è mezzo di prova tipico ma strumento processuale in funzione non probatoria;
che tale motivo è inammissibile;
che le sezioni unite di questa Corte, con la sentenza n. 22663 del 2006, hanno enunciato il principio di diritto secondo cui, nel giudizio di riconoscimento di sentenze straniere in Italia ai sensi della L. 31 maggio 1995, n. 218, art. 67, la corte d’appello, attesa la natura ed i limiti di tale giudizio, deve limitarsi ad accertare, al fine di pronunciare il riconoscimento, la sussistenza dei soli requisiti per il riconoscimento automatico di cui all’art. 64 della legge citata, rimanendo estranea allo stesso giudizio, anche quale oggetto di accertamento solo incidentale, ogni altra questione di merito (in particolare, hanno affermato: "3.1. In siffatto procedimento, il controllo giudiziario viene ad assumere, con l’attuale normativa (contrariamente a quanto avveniva precedentemente, art. 796 c.p.c., e segg., abrogati) una natura del tutto differente rispetto al passato e cioè puramente dichiarativa (Cass. 25/06/2002, n. 9247), risolvendosi nel mero accertamento della sussistenza dei requisiti prescritti perchè l’atto straniero possa esplicare i propri effetti, a decorrere dal passaggio in giudicato (se sentenza) o dalla pubblicazione. Ne consegue che a maggior ragione con la nuova disciplina (come peraltro già avveniva con la precedente; Cass. 16.2.1999, n. 1301) la corte di appello, adita per la delibazione, deve limitarsi ad accertare l’esistenza dei requisiti del riconoscimento, indicati nella L. n. 218 del 1995, art. 64, non potendosi procedere nè ad una nuova statuizione sul rapporto sostanziale dedotto in giudizio dinanzi al giudice straniero, nè ad accertamenti o statuizioni su questioni estranee al mero accertamento dei requisiti del riconoscimento");
che il motivo in esame è inammissibile, sia perchè la premessa da cui muove la ricorrente e su cui fonda la censura – essere, cioè, la sentenza della Corte dello Stato del Massachusetts basata esclusivamente sulle dichiarazioni degli odierni controrìcorrenti – non corrisponde a quanto affermato dalla Corte milanese che, invece, ha specificato che il convincimento del Giudice statunitense si è formato anche – "ma non solo" – su dette dichiarazioni delle parti, sia perchè il ricorso, sul punto, è privo di autosufficienza, nella misura in cui non vi si specificano nè i passaggi istruttori effettivamente seguiti da detto Giudice, secondo il rito dello Stato del Massachusetts, nè gli argomenti dallo stesso utilizzati per giungere alla delibanda decisione; tutto ciò, in ogni caso, a prescindere dalla considerazione dell’erronea evocazione, ai fini della denunciata violazione dell’ordine pubblico processuale italiano, degli artt. 24 e 111 Cost., in quanto nella specie rileva (non già l’esercizio dei diritti di difesa o i principi del giusto processo, bensì) il diverso principio, d’ordine pubblico processuale, del libero convincimento del giudice sancito dall’art. 116 cod. proc. civ., il cui secondo comma consente di ribadire, secondo la condivisa interpretazione datane da questa Corte, che le dichiarazioni rese dalle parti in sede di interrogatorio non formale, pur se prive di alcun valore confessorio, in quanto detto mezzo è diretto semplicemente a chiarire i termini della controversia, nondimeno ben possono costituire il fondamento del convincimento del giudice (cfr., ex plurimis, la sentenza n. 6510 del 2004);
che, inoltre, la sentenza impugnata – quanto al motivo di opposizione al riconoscimento della sentenza statunitense, per avere disposto il pagamento di somme a titolo di "danni punitivi" – ha affermato che, se è vero che, in linea di principio, l’idea della punizione e della sanzione è estranea al risarcimento del danno da responsabilità civile, quale disciplinata dall’ordinamento italiano, è altrettanto vero che, nella specie, il Giudice statunitense, con la statuizione di condanna,non ha affatto applicato l’istituto dei punitive damages, avendo invece inteso reintegrare completamente il danneggiato in relazione all’effettivo pregiudizio subito, "finalità perseguita dal giudice procedendo alla liquidazione dei danni con l’utilizzo, in parte, di criteri oggettivi, rappresentati dall’ammontare dei compensi e dei dividendi non versati, e, in parte, ricorrendo a criteri equitativi";
che, con il secondo motivo (con cui deduce: "Nullità della sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, per violazione e falsa applicazione della L. n. 218 del 1995, art. 64, lett. g, con riferimento all’art. 2043 c.c., nella parte in cui si dispone il risarcimento di danni qualificabili come danni punitivi"), il ricorrente critica tale parte della sentenza impugnata, sostenendo che, contrariamente a quanto affermato dai Giudici a quibus, il tenore e il contenuto della condanna del Giudice statunitense attestano l’applicazione dell’istituto dei punitive damages;
che anche tale motivo è inammissibile;
che, secondo il consolidato orientamento di questa Corte, l’istituto dei danni punitivi è incompatibile con l’ordinamento italiano, in quanto in tale ordinamento il diritto al risarcimento del danno conseguente alla lesione di un diritto soggettivo non è riconosciuto con caratteristiche e finalità punitive – restando estranea al sistema l’idea della punizione e della sanzione del responsabile civile ed indifferente la valutazione a tal fine della sua condotta – ma in relazione all’effettivo pregiudizio subito dal titolare del diritto leso, non essendo previsto l’arricchimento, se non sussista una causa giustificatrice dello spostamento patrimoniale da un soggetto all’altro (cfr. le sentenza nn. 1781 del 2012, 15814 del 2008, 1183 del 2007);
che tuttavia, nella specie, la ricorrente – a fronte della testuale, su riprodotta motivazione dei Giudici a quibus, i quali hanno escluso che il Giudice statunitense abbia inteso riconoscere agli odierni controricorrenti danni punitivi – si limita a contrapporre la propria valutazione a quella operata dalla Corte milanese con motivazione congrua e conforme a detto orientamento, finendo in tal modo con il sollecitare un inammissibile riesame del merito della decisione delibanda;
che, ancora, la sentenza impugnata – quanto al motivo di opposizione al riconoscimento della sentenza statunitense, per avere recepito un patto parasociale illegittimo, concernente la distribuzione degli utili, contrario all’ordine pubblico – ha affermato: "Vanno in punto integralmente condivise le contrarie argomentazioni svolte dagli attori, ribadendosi che il patto non ha formato oggetto della pronuncia resa dal giudice americano, accordo che è stato solo utilizzato come uno dei criteri che hanno orientato la liquidazione del danno";
che, con il terzo (con cui deduce: "Nullità della sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, per violazione e falsa applicazione della L. n. 218 del 1995, art. 64, lett. g, nella parte in cui vi è condanna del socio di maggioranza alla restituzione del prestito del 28 ottobre 1999 per complessivi 404.536,27 e alla corresponsione di utili non distribuiti alla data del 31 dicembre 2001 per complessivi 1.784.005,20, nonchè nella parte in cui, nel pronunciare condanna del socio di maggioranza alla corresponsione di utili non distribuiti alla data del 31 dicembre 2001 per complessivi 1,784.005,20, recepisce il contenuto di patti parasociali illegittimi e contrari all’ordine pubblico italiano") e con il quarto motivo (con cui deduce: "Omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio ex art. 360 c.p.c., n. 5") – i quali possono essere esaminati congiuntamente, avuto riguardo alla loro stretta connessione -, il ricorrente critica tale parte della sentenza impugnata, anche sotto il profilo dei vizi di motivazione, sostenendo che, contrariamente a quanto affermato dai Giudici a quibus, la condanna al risarcimento dei danni pronunciata dal Giudice statunitense per la mancata restituzione di un prestito personale effettuato dalla P. a xxx xxx. e per la mancata distribuzione di utili da parte di quest’ultima", sarebbe in contrasto con l’ordine pubblico italiano sia perchè basata su canoni di responsabilità oggettiva, sia perchè contenente la condanna al pagamento di interessi sulla somma capitale a tasso usurario, sia perchè fondata su patto parasociale di distribuzione degli utili palesemente illegittimo;
che tali motivi sono parimenti inammissibili;
che, infatti, la ricorrente non censura specificamente la su riprodotta ratio decidendi della sentenza impugnata, limitandosi a contrapporre le proprie valutazioni a quelle congruamente motivate della Corte milanese, ed inoltre introduce questioni (ad esempio, mancata restituzione del prestito, applicazione di tassi usurari) del tutto "nuove", senza peraltro specificare dove e quando tali questioni sono state poste e, soprattutto, se, dove e quando è stata dedotta la contrarietà all’ordine pubblico di eventuali patti sottostanti alle questioni medesime;
che, infine, la sentenza impugnata – quanto al motivo di opposizione al riconoscimento della sentenza statunitense, per avere disposto il pagamento di somme di danaro in assenza di causa giustificatrice – ha affermato che: a) tale motivo di opposizione è inammissibile, nella misura in cui "sembra in realtà sconfinare in ambito cognitivo – quello afferente il rapporto causale dedotto avanti il giudice statunitense – che non può formare oggetto di riesame in questa sede"; b) "In ogni caso la pretesa assenza di giustificazione causale dell’attribuzione patrimoniale … non ha alcun plausibile riscontro", perchè, come emerge chiaramente dalla sentenza del Giudice statunitense, "la precisa ratio decidendi della statuizione di condanna adottata è da individuarsi nell’accertato diritto risarcitorio degli attori per i danni subiti e derivanti dall’inadempimento contrattuale di controparte";
che, con l’unico motivo, dedotto in via subordinata (con cui deduce:
"Nullità della sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, per violazione e falsa applicazione della L. n. 218 del 1995, art. 64, lett. q, e degli artt. 24 e 111 Cost., nella parte in cui si dispone il pagamento di somme di denaro privo di giustificazione causale"), il ricorrente – sulla premessa che, "Contrariamente a quanto sostenuto in maniera apodittica ed inconferente nella sentenza straniera, tra gli odierni attori e la società xxx s.p.a. in persona del suo legale rappresentante pro tempore, non è mai stato stipulato alcun tipo di accordo o patto parasociale, dalla cui violazione far discendere gli obblighi di pagamento contenuti nella decisione statunitense" – critica anche tale parte della sentenza impugnata;
che anche tale motivo subordinato è inammissibile;
che, infatti – posto che la sentenza impugnata si fonda su una duplice ratio decidendi, "processuale" e "sostanziale" – la ricorrente si limita a censurare soltanto la ratio decidendi "sostanziale", omettendo ogni censura alla distinta ed autonoma ratio decidendi "processuale" (eccesso dai limiti del giudizio di delibazione) che, pertanto, continua a sorreggere la sentenza impugnata ciò a prescindere dall’ulteriore rilievo di inammissibilità che le censure formulate sono comunque rivolte alla decisione delibanda e non già alla sentenza impugnata;
che le spese del presente grado del giudizio seguono la soccombenza e vengono liquidate nel dispositivo.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente alle spese, che liquida in complessivi Euro 13.200,00, ivi compresi Euro 200,00 per esborsi, oltre alle spese generali ed agli accessori di legge.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 2 luglio 2012.
Depositato in Cancelleria il 11 settembre 2012

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