Cass. pen. Sez. IV, Sent., (ud. 15-10-2013) 04-11-2013, n. 44493

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/




Svolgimento del processo

La Corte di Appello di Napoli, con ordinanza resa all’udienza camerale del giorno 26.10.2010 rigettava l’istanza di riparazione presentata da P.G. per ingiusta detenzione in regime di custodia in carcere dal 13/03/06 al 17/03/06 perchè indagato dei reati di cui agli artt. 416, 110 e 81 cpv. c.p., art. 640 c.p., commi 1 e 2 e art. 110 e 81 cpv. c.p., art. 61 c.p., n. 2, art. 480 c.p..

Al P. era stato contestato di avere, quale medico convenzionato della Asl Bn (OMISSIS), con la formazione di ricette false, indotto in errore la Asl di appartenenza, ricavandone un profitto.

Il procedimento in questione si era poi concluso con decreto di archiviazione in data 18.07.2008. P.G., a mezzo del suo difensore, proponeva quindi ricorso per cassazione avverso l’ordinanza della Corte di appello di Napoli, presentava altresì memoria ex art. 611 c.p.p. e concludeva chiedendone l’annullamento.

Il ricorrente censurava l’ordinanza impugnata per violazione ed erronea applicazione degli artt. 314 e 315 c.p.p. e per manifesta illogicità della motivazione ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), in particolare nella parte in cui la Corte di appello rimproverava in termini di colpa condotte insuscettibili di essere riguardate alla stregua di macroscopica negligenza e trascuratezza.

Pertanto, ad avviso del ricorrente, non sussisterebbe la colpa grave, impeditiva del riconoscimento del diritto all’equa riparazione.

Il Ministero dell’Economia e delle Finanze a mezzo dell’Avvocatura Generale dello Stato presentava tempestiva memoria e concludeva chiedendo di voler dichiarare inammissibile il proposto ricorso ovvero di rigettarlo.

Motivi della decisione

Il ricorso è infondato.

Osserva la Corte che il diritto a equa riparazione per l’ingiusta detenzione, regolato dagli artt. 314 c.p.p. e segg., trova fondamento nella condizione soggettiva della persona sottoposta a detenzione immeritata e in tal senso ingiusta. Il quadro sistematico di riferimento è un quadro di diritto civile ma non è quello dell’art. 2043 c.c., che appresta sanzioni contro chi produce per dolo o colpa un danno ingiusto ad altri. Il principio regolatore è piuttosto quello della riparazione legata ad eventi che producono il sorgere, quali conseguenze di principi di solidarietà e di giustizia distributiva, di responsabilità da atto lecito (la distinzione tra responsabilità per danno ingiusto ex art. 2043 c.c. e responsabilità per atto lecito è ben chiarita da Cass. SS.UU. civ. 11/6/2003 n. 9341). E’ ben fermo, in materia, l’assetto delle regole generalissime che disciplinano l’onere della prova civile ex art. 2697 c.c., posto che il procedimento relativo alla riparazione per l’ingiusta detenzione, quantunque si riferisca ad un rapporto obbligatorio di diritto pubblico e comporti perciò il rafforzamento dei poteri officiosi del giudice, è tuttavia ispirato ai principi del processo civile, con la conseguenza che l’istante ha l’onere di provare i fatti costitutivi della domanda, la custodia cautelare subita e la successiva assoluzione (Corte Cass. Sez. 4^ sent. n. 23630 02/04/2004 – 20/05/2004).

Peraltro il sorgere del diritto è condizionato alla esistenza di una condotta del richiedente che al tempo del processo in nulla abbia dato causa o concorso a dare causa a quella ingiusta detenzione.

L’operazione intesa a cogliere tali condizioni deve scandagliare solo l’eventuale efficienza causale delle condotte dell’imputato che possano aver indotto, anche nel concorso dell’altrui errore, secondo una valutazione ragionevole e non congetturale il giudice a stabilire la misura della detenzione (Cass. SSUU 13/12/95 n. 43, Sez IV 10/3/2000 n. 1705).

Il giudice,pertanto, deve fondare la sua decisione su fatti concreti e precisi e non su mere supposizioni, esaminando la condotta del richiedente, sia prima e sia dopo la perdita della libertà personale, indipendentemente dall’eventuale conoscenza che quest’ultimo abbia avuto dell’attività di indagine, al fine di stabilire, con valutazione ex ante, non se tale condotta integri estremi di reato, ma solo se sia stato il presupposto che ha ingenerato, ancorchè in presenza di errore dell’autorità procedente, la falsa apparenza della sua configurazione come illecito penale, dando luogo alla detenzione con rapporto di causa ad effetto (cfr. Cass. Sezioni Unite, Sent. n. 34559/2002; Cass., Sez. 4^, Sent.

n. 17552 del 2009).

Tanto premesso si osserva che la Corte di Appello di Napoli, con motivazione adeguata, ha enucleato,con congrua verifica degli accertati elementi di riferimento, la condotta del richiedente ostativa all’accoglimento dell’istanza di equa riparazione. In primo luogo ha posto in rilievo che dagli atti del processo emergeva che l’istante, nel corso dell’interrogatorio reso al G.I.P., aveva accusato dell’accaduto il coimputato A.G., rappresentante di medicinali, sostenendo che questi gli aveva confessato di aver sottratto dal suo studio alcuni ricettari e che egli non aveva denunciato il furto per timore che l’ A. negasse quanto aveva in precedenza confessato. I giudici della Corte territoriale hanno poi rilevato che però dagli atti del processo emergeva che il P. intratteneva intensi rapporti con il coimputato, che le prescrizioni incriminate risultavano emesse a nome di pazienti del P. e questi ultimi avevano mostrato la loro sorpresa per l’accaduto. L’ordinanza impugnata aveva quindi concluso che dagli atti era emerso che il ricorrente aveva consentito che un estraneo si impossessasse agevolmente di ricettari a lui affidati e del suo timbro, che costui venisse a conoscenza dei dati personali concernenti i pazienti da lui assistiti ed aveva consentito così che il coimputato formasse le false ricette a danno della Asl competente.

Il P. poi, venuto a conoscenza dell’accaduto, non aveva denunciato il furto di ricette subito, fornendo una spiegazione che era apparsa inverosimile.

Sulla base di tali elementi la Corte territoriale aveva pertanto ritenuto che il P. aveva tenuto una condotta dolosa o gravemente colposa in quanto intratteneva intensi rapporti con il coimputato, come attestato dalle intercettazioni telefoniche, aveva colpevolmente consentito che costui si impossessasse del suo timbro, delle ricette a lui affidate e dei dati dei suoi pazienti e aveva omesso dì denunciare il furto subito quando era venuto a conoscenza dell’accaduto.

Questo essendo il quadro accusatorio, il motivo proposto dall’odierno ricorrente non può essere accolto.

Il provvedimento impugnato, che definisce il procedimento per la riparazione dell’ingiusta detenzione, supera quindi il vaglio di questa Corte che è limitato alla correttezza del procedimento logico giuridico con cui il Giudice è pervenuto ad accertare o negare i presupposti per l’ottenimento del beneficio indicato.

Resta invece nelle esclusive attribuzioni del giudice di merito, che è tenuto a motivare adeguatamente e logicamente il suo convincimento, la valutazione sull’esistenza e la gravita della colpa e sull’esistenza del dolo. Il legislatore non ha infatti riconosciuto incondizionatamente il diritto all’equa riparazione, ma l’ha esplicitamente escluso allorquando il comportamento dell’indagato, come appunto nella fattispecie de qua, abbia indotto in errore il giudice circa l’esistenza dei gravi indizi di colpevolezza a suo carico.

Il ricorso deve essere pertanto rigettato e il ricorrente deve essere condannato al pagamento delle spese processuali e alla rifusione delle spese di questo giudizio in favore del Ministero resistente che si liquidano in complessivi Euro 750,00.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali oltre alla rifusione delle spese in favore del Ministero ricorrente che liquida in Euro 750,00.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 15 ottobre 2013.

Depositato in Cancelleria il 4 novembre 2013
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