Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 15-10-2013) 28-02-2014, n. 9887

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/




Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. Con la sentenza suindicata la Corte di Appello di Bari ha confermato la decisione resa all’esito di giudizio abbreviato dal G.U.P. del Tribunale di Trani, con la quale C.D. e L.A. sono stati riconosciuti colpevoli del reato di falsa testimonianza per le deposizioni da entrambi rese nella causa civile risarcitoria promossa nei confronti del Comune di Trani dal coniuge e tutore di B.E., interdetta e invalida civile totale, per essere la stessa caduta a causa dell’improvviso "sprofondamento" delle mattonelle del marciapiede sottostante la sua abitazione, riportando le lesioni rilevate presso l’ospedale cittadino (frattura del collo femorale in cardiopatica cronica).

Testimonianze mendaci, per le quali ai due imputati è stata inflitta la pena (con le attenuanti generiche) di un anno di reclusione ciascuno, integrate: dall’assunto del L. di aver soccorso la dolorante B. dopo la caduta in strada, accompagnandola a casa e ivi aspettando l’ambulanza che la portava in ospedale; dall’assunto del C., genero della B., di aver visto cadere la suocera mentre l’attendeva in macchina sotto casa, di averla aiutata insieme ad uno sconosciuto (il L.), riportandola a casa e poi andando via con l’ignoto soccorritore, convinto che non si trattasse di nulla di grave (solo in seguito apprendendo che la donna era stata trasferita in ospedale).

Richiamandosi alle condivise valutazioni delle emergenze processuali espresse dalla sentenza del g.u.p., la Corte territoriale ha puntualizzato le seguenti evenienze:

a) non può dubitarsi della veridicità del referto del pronto soccorso e della cartella clinica dell’ospedale, in cui si precisa che la stessa B. (o chi l’ha seguita in ospedale, stante il suo stato di scarsa lucidità) ha riferito di una sua caduta accidentale in casa;

b) è affatto improbabile che la donna, per le sue condizioni di invalidità sia uscita da casa senza l’ausilio di altra persona, camminando da sola sul marciapiede;

c) è inspiegabile che l’anziana, che per la tipologia della dolorosa frattura subita non avrebbe potuto muoversi, non sia stata condotta subito in ospedale, pur essendovi l’immediata disponibilità dell’auto del genero, ma sia stata riaccompagnata a casa dallo stesso genero C. e dal soccorritore L.;

d) ancor meno plausibile è la circostanza che il C. si sia allontanato dalla dimora della donna, dove sarebbe rimasto ad attendere l’ambulanza il L., pur estraneo alla famiglia (in pratica uno sconosciuto).

Considerate la sicura pertinenza delle mendaci dichiarazioni dei due imputati all’oggetto della causa civile promossa dal tutore della B. e la loro rilevanza ai fini della decisione (il giudice civile, ritenute inattendibili le testimonianze degli imputati, ha rigettato la domanda risarcitoria), la Corte di Appello ha ribadito la conclusione del g.u.p., secondo cui le non veridiche dichiarazioni del C. e del L. sono state sorrette da univoca volontà colpevole (dolo) in quanto dettate dal "proposito di consentire alla B. un risarcimento del danno che non le spettava".

2. Con unico atto d’impugnazione del comune difensore i due imputati hanno proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza di appello, deducendo le violazioni di legge appresso sintetizzate.

2.1. Violazione dell’art. 191 c.p.p. e art. 195 c.p.p., comma 7 in relazione alla ritenuta utilizzabilità probatoria di circostanze derivanti da fonte anonima.

Ignorando i rilievi esposti con l’appello, La Corte territoriale ha impropriamente valorizzato a fini accusatori (al pari del primo giudice) il dato anamnestico riportato dal certificato del pronto soccorso della signora B.. Al riguardo, a fronte della limitata idoneità intellettiva dell’anziana (interdetta e invalida), i giudici del gravame si sono limitati a formulare una semplice illazione, secondo cui a riferire le circostanze della caduta della donna (in casa per motivi accidentali) potrebbe essere stato anche un familiare della signora o altra persona. Non essendo stato identificato il familiare o tale altra persona, il contenuto del referto sanitario deve ritenersi provenire da fonte anonima e, come tale, non ha valenze probatorie (art. 195 c.p.p., comma 7).

2.2. Erronea applicazione dei canoni di valutazione della prova (art. 192 c.p.p.) e manifesta illogicità della motivazione.

Anche tralasciando l’inutilizzabile dato anamnestico enunciato dai documenti sanitari, la Corte di Appello ha fondato la penale responsabilità dei due imputati sulla contraddittorietà delle loro testimonianze. Ma tale supposta contraddittorietà non può divenire, in mancanza di elementi di riscontro, un dato sintomatico della falsità di tutte e due le dichiarazioni testimoniali. Falsità che, se mai, sarebbe riferibile ad uno soltanto dei prevenuti, soltanto quando si accerti quale deposizione sia vera e quale sia mendace.

Accertamento che i giudici di merito non hanno compiuto.

3. Entrambi gli illustrati motivi di impugnazione sono manifestamente infondati e i ricorsi di C.D. e L.A. vanno dichiarati inammissibili.

3.1. Erroneamente i ricorrenti (primo motivo di ricorso) assimilano i due atti medici vagliati dai giudici di merito, il referto del pronto soccorso e la cartella clinica relativa al ricovero della infortunata Ba., ad una semplice testimonianza asseritamente apprezzabile ai sensi dell’art. 195 c.p.p. e, in particolare, del comma 7 della norma in punto di mancata individuazione della fonte de relato della testimonianza. Premesso che si è proceduto al giudizio con le forme del rito abbreviato e che la Corte di Appello (come in precedenza il giudice di primo grado) non ha focalizzato la prova del mendacio dei due imputati sui soli atti medici in questione, valorizzando una serie di altri elementi storici e logici asseveranti la totale inattendibilità degli assunti dichiarativi dei due imputati, gli atti sanitari in questione costituiscono atti pubblici, siccome provenienti da struttura sanitaria pubblica o comunque redatti da persone esercenti un servizio di pubblica necessità (la cartella clinica è munita anche di fede privilegiata) con valenze dimostrative (cioè di attestazione) dei contenuti in essi rappresentati. Con l’ovvio effetto che gli stessi integrano documenti suscettibili di essere validamente apprezzati sul piano probatorio ai sensi dell’art. 234 c.p.p. in relazione al principio del libero convincimento del giudice (cfr.: Sez. 3, 29.1.2008 n. 11100, rv.

239080; Sez. 5,16.4.2013 n. 31858, rv. 244907; Sez. 5, 22.6.2013 n. 35104, rv. 257124).

Non sottacendosi che – come constatano le due conformi decisioni di merito – sia il referto che la cartella clinica attribuiscono direttamente alla Ba. (più che ad un suo eventuale familiare o accompagnatore) la descrizione delle modalità dell’infortunio (avvenuto in casa) e che la consulenza medica ordinata dal giudice civile ha rilevato la compatibilità delle lesioni patite dalla donna con una caduta in casa, la Corte di Appello ha in ogni caso fondato il giudizio di falsità delle due testimonianze degli imputati anche (come riconoscono gli stessi ricorrenti) sui connotati di implausibilità dianzi riassunti e dotati, per quel che rileva in questa sede, di univoco peso probatorio a dimostrazione delle mistificate modalità descrittive della dinamica dell’infortunio patito dalla donna, sì che lo stesso non può ritenersi (come sostenuto da entrambi gli imputati) avvenuto in strada a causa delle disconnesse mattonelle del marciapiede su cui la donna transitava.

3.2. I rilievi concernenti la pretesa vaghezza della contraddittorietà delle due testimonianze degli imputati posta in luce dalla sentenza impugnata (secondo motivo di ricorso), oltre che generici, sono privi di serio pregio. La Corte di Appello, infatti, non ha evidenziato le sole discrasie reciproche delle due dichiarazioni testimoniali su evenienze tra loro non conciliabili (secondo i rispettivi racconti), ma ha sottolineato gli autonomi elementi, fattuali e logici, che accreditano l’immanente intrinseca distonia narrativa di ciascuna delle due incriminate testimonianze, isolatamente considerate.

All’inammissibilità dei ricorsi segue ope legis la condanna dei due ricorrenti alla rifusione delle spese processuali del grado di giudizio e di ciascuno di essi al versamento di una somma in favore della cassa delle ammende, che si reputa equo stabile in Euro 1.000 (mille) pro capite.

P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro mille ciascuno in favore della cassa delle ammende.

Così deciso in Roma, il 15 ottobre 2013.

Depositato in Cancelleria il 28 febbraio 2014

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