Cassazione II civile del 10 marzo – 27 maggio 2009, n. 12354 Avvocati, responsabilità, mancata comunicazione, sentenza, giudicato (2009-06-09)

(Presidente Vella – Relatore Migliucci)

Ricorrente S. e altro

Svolgimento del processo

G. S. e C. R. convenivano in giudizio, dinanzi al Tribunale di R., l’avv. E. F. per sentirlo condannare al risarcimento dei danni derivanti da responsabilità professionale.

Deducevano l’inadempimento del legale, che li aveva assistiti in un procedimento da loro instaurato nei confronti di C. C., denunciando fra l’altro che il legale non aveva comunicato tempestivamente agli attori la sentenza che li aveva visti soccombenti, sicché non era stato possibile proporre la relativa impugnazione.

In contumacia del convenuto, con sentenza depositata il 2 giugno 1997, il Tribunale rigettava la domanda.

Con sentenza dep. il 22 aprile 2004 la Corte di appello di R. rigettava l’impugnazione proposta dagli attori. Nel confermare la decisione di primo grado, i giudici di appello ritenevano che, pur essendo l’inadempimento del difensore in astratto idoneo a produrre danno, gli appellanti non avevano ottemperato all’onere della prova incombente al cliente di dimostrare il danno in concreto causato dall’inadeguata o insufficiente attività professionale, dimostrando che – ove fosse stato proposto l’appello – gli effetti sarebbero stati migliori e diversi: in particolare, gli appellanti, che avevano dedotto la perdita di chance, non avevano dimostrato l’erroneità di quella decisione fornendo la ragionevole certezza o un grado elevato di probabilità che il gravame, se proposto, sarebbe stato accolto.

In realtà, gli appellanti, che avevano lamentato che il Tribunale non avesse soffermato l’attenzione sul nesso di causalità fra l’eventuale proposizione dell’appello e il suo accoglimento, si erano limitati a richiamare gli elementi, già emersi nel procedimento in cui erano stati difesi dall’avv. F. e che erano stato tenuti presenti dalla sentenza, che aveva pronunciato la risoluzione del contratto intercorso con il C., per colpa degli attori, con esauriente motivazione che non era stata oggetto di specifica censura neppure nel presente grado di giudizio.

Avverso tale decisione propongono ricorso per cassazione G. S. e C. R. sulla base di un motivo illustrato da memoria.

Non ha svolto attività difensiva l’intimato.

Motivi della decisione

Con l’unico motivo i ricorrenti, lamentando violazione e falsa applicatone degli artt. 1176, 1218, 1223, 1226 cod. civ. e 112 cod. proc. civ. nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia (art. 360 n. 5 cod. proc. civ.), censurano la decisione gravata che, nell’effettuare il collegamento fra l’inadempimento e le ripercussioni patrimoniali e non patrimoniali negative, non aveva considerato che, ai sensi dell’art. 1223 cod. civ. citato, deve tenersi conto soltanto delle conseguenze pregiudizievoli dirette ed immediate dell’inadempimento attraverso un giudizio ipotetico fra la situazione esistente dopo l’inadempimento e quella che avrebbe potuto essere in presenza di un’esatta e diligente prestazione contrattuale: nella specie, ciò che assumeva rilevanza era la circostanza che, per effetto dell’inadempimento del legale all’obbligo di informare i clienti del deposito della sentenza, i ricorrenti avevano subito la perdita del potere di impugnare la decisione, perdita di per sé risarcibile indipendentemente dalla fondatezza o meno dell’eventuale impugnazione, quale conseguenza diretta ed immediata dell’inadempimento del professionista, tenuto conto degli effetti che comunque sarebbero derivati dalla mera proposizione della sospensione dell’esecuzione della sentenza impugnata, della possibilità di addivenire a un accordo transattivo, evidentemente ormai precluso dal passaggio in decisione o ancora di ottenere una riduzione della penale: la Corte aveva omesso di procedere a una liquidazione equitativa del danno e comunque non aveva motivato in ordine al danno consistito nell’aggravio di spese ed interessi verificatosi a cagione dell’impossibilità di procedere a un pagamento spontaneo.

Il motivo va disatteso.

Occorre premettere che la sentenza impugnata ha precisato che con i motivi di appello era stata censurata la decisione di primo grado laddove era stata respinta la domanda risarcitoria invocata, con riferimento all’inadempimento da parte dell’avv. F., consistito nell’inosservanza dell’obbligo di comunicare tempestivamente agli appellati la sentenza che li aveva visti soccombenti: pertanto, deve ritenersi che, in considerazione del principio devolutivo dell’appello, oggetto del giudizio di gravame, era esclusivamente tale inadempimento e non pure il mancato adempimento degli altri obblighi che, secondo quanto prospettato dal ricorrente in sede di discussione dinanzi al Collegio, erano pure stati posti a sostegno della originaria domanda: peraltro con il ricorso per cassazione non è stata formulata alcuna doglianza in ordine ad altri profili di inadempimento dedotti in giudizio e al loro mancato esame da parte del giudice di merito.

Orbene, correttamente i giudici hanno applicato il principio consolidato seguito dalla giurisprudenza di legittimità, che il Collegio condivide, secondo cui, in materia di responsabilità del professionista, il cliente è tenuto a provare non solo di aver sofferto un danno, ma anche che questo è stato causato dalla insufficiente o inadeguata attività del professionista e cioè dalla difettosa prestazione professionale. In particolare, trattandosi dell’attività del difensore, l’afférmazione della sua responsabilità implica l’indagine – positivamente svolta – sul sicuro e chiaro fondamento dell’azione, che avrebbe dovuto essere proposta e diligentemente coltivata, e, quindi, la certezza morale che gli effetti di una diversa attività del professionista medesimo sarebbero stati più vantaggiosi per il cliente, rimanendo, in ogni caso, a carico del professionista l’onere di dimostrare l’impossibilità, a lui non imputabile, della perfetta esecuzione della prestazione (Cass. 4044/1994; 5264/1996; 16846/2005). Ed invero la perdita dei diritto di impugnare la sentenza, non può configurarsi di per sé come una conseguenza patrimoniale pregiudizievole, tenuto conto che, ai sensi dell’art. 1223 cod. civ., il riconoscimento del risarcimento del danno postula che il creditore dimostri l’esistenza di un concreto danno consistito in una effettiva diminuzione patrimoniale derivata, quale conseguenza immediata e diretta, dall’inadempimento del debitore.

D’altra parte, la perdite di “chance” si configura come concreta ed effettiva occasione favorevole di conseguire un determinato bene, atteso che non costituisce una mera aspettativa di fatto ma un’entità patrimoniale a sé stante, giuridicamente ed economicamente suscettibile di autonoma valutazione e anche, in tal caso, il creditore ha l’onere di provare, pur se solo in modo presuntivo o secondo un calcolo di probabilità, la realizzazione in concreto di alcuni dei presupposti per il raggiungimento del risultato sperato ed impedito dalla condotta illecita della quale il danno risarcibile deve essere conseguenza immediate e diretta.

Orbene, correttamente la sentenza impugnata, nell’escludere la prova di un danno subito dai ricorrenti, per effetto dell’inadempimento del legale all’obbligo di comunicare il deposito della sentenza, che li aveva visti soccombenti, ha ritenuto che la perdita del potere di impugnare la sentenza non poteva rappresentare di per sé una conseguenza patrimoniale negativa, dal momento che i ricorrenti avrebbero dovuto dimostrare in concreto i riflessi pregiudizievoli offrendo la prova dell’erroneità della decisione e della concreta possibilità di essere riformata in appello. Ed in proposito i giudici hanno accertato che gli appellanti non avevano offerto alcun elemento che potesse indurre a ritenere, con ragionevole probabilità, che il gravame, se esperito, sarebbe stato accolto, ovvero potesse costituire una base sufficiente ad indurre controparte, totalmente vittoriosa, ad addivenire ad una transazione, avendo evidenziato che, neppure nel presente giudizio, gli appellanti erano stati in grado di offrire elementi di prova ulteriori rispetto a quelli che aveva esaminato il giudice del procedimento in cui era stata pronunciata la risoluzione del contratto stipulato con C. C. per colpa degli attuali ricorrenti.

Per quanto concerne la doglianza di omesso esame e di omessa motivazione, in ordine all’aggravio di spese ed interessi conseguenti, che un pagamento spontaneo avrebbe evitato, la questione – non essendo trattata dalla sentenza impugnata – è nuova e, involgendo accertamenti di fatto, deve ritenersi come tale inammissibile in sede di legittimità: i ricorrenti avrebbero dovuto dedurre e dimostrare, in virtù del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, di avere ritualmente e tempestivamente proposto la questione nel giudizio di merito, indicando l’atto o il verbale in cui la stessa era stata formulata,

Pertanto, avendo escluso l’esistenza stessa del danno lamentato, correttamente la sentenza ha negato il ricorso alla liquidazione equitativa che presuppone dimostrata la lesione patrimoniale di cui sia impossibile od estremamente difficoltosa la quantificazione.

Il ricorso va rigettato.

Non va adottata alcuna statuizione in ordine alla regolamentazione delle spese, relative alla presente fase, non avendo l’intimato svolto attività difensiva.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso.

Cassazione III civile del 28.05.2009, n. 12547 Cinture, circolazione stradale, sinistro, danni, risarcimento, ridotto, assicurativo, civile, aborto (2009-06-09)

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

TERZA SEZIONE CIVILE

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1.1 Con citazione del novembre 1994 (…) e (…) convenivano in giudizio innanzi al Tribunale di (…)e la s p a (…) (successivamente fusa per incorporazione nella (…) per sentirli condannare al risarcimento de danni materiali e fisici, rispettivamente subiti nell’incidente stradale verificatosi in Arzano (Na) il giorno 24-1-1994, allorché la Fiat Uno, di proprietà (…) e condotta dal (…)su cui era trasportata la (…) era stata tamponata dalla Fiat 126 della (…).

Precisavano che, per effetto dell’urto, la Fiat Uno era rimasta fortemente danneggiata, mentre la (…) aveva subito lesioni personali gravi, tali da dovere ricorrere a prestazioni di pronto soccorso presso l’ospedale di Frattamaggiore e, quindi, presso l’ospedale Cardarelli.

Resisteva la compagnia di assicurazioni, che contestava il quanturn delle pretese risarcitorie e, in un secondo momento, anche l’an debeatur.

La causa, istruita con una c.t.u. medico-legale, prova orale e documentale era decisa con sentenza in data 5-9/10-11- 2000, con cui il G.O.A. dichiarava l’esclusiva responsabilitàdella (…) nell’incidente e la condannava, in solido con la s p a , al pagamento della somma di £800,000 oltre interessi e rivalutazione in favore di (…) , nonché della somma omnicomprensiva di £ 316. 800. 000 in favore di (…) oltre al pagamento delle spese del giudizio, liquidate in £ 20.000.000 oltre IVA e CPA e spese generali, in favore dell’avv. (…) distrattario.

1.2. La sentenza era gravata da appello dalla (…) la quale lamentava che il G O A avesse ritenuto sussistente il nesso causale tra l’incidente e l’aborto gemellare, subito dalla (…) a distanza di quarantacinque giorni da detto incidente e avesse, invece, negato il concorso di colpa della trasportata; l’appellante contestava, altresì, la determinazione quantitativa del danno morale e psico-fisico della donna, nonché la liquidazione delle spese.

Si costituivano in giudizio (…) e (…) e, per quanto riguardava le spese di lite, anche il difensore avv. (…). In via di appello incidentale i coniugi chiedevano liquidarsi alla a titolo di danno morale, la somma di £ 1.500,000,000.

La Corte di appello di Napoli previa sospensione dell’esecutorietà della sentenza per le somme eccedenti l’importo di £ 25.000.000 con sentenza in data 2-11/2-12- 2003, accoglieva l’appello principale e dichiarava non dimostrato il nesso di causalità tra il sinistro de quo e l’interruzione della gravidanza subita da (…) dichiarava, altresì, il concorso di colpa della nella misura del 25% nella causazione delle lesioni sicuramente riconducibili al sinistro e, per l’effetto, condannava la (…) in solido con , s.p.a. al pagamento in favore della (…) e (…) :della somma complessiva di € 8.559,75 (in esso incluso il danno, morale di cui al motivo di appello incidentale), oltre interessi come in motivazione; rideterminava in € 1.962,53 gli onorari e in € 800,00 i diritti relativi alle spese del giudizio di primo grado; condannava gli appellati alla restituzione delle somme eventualmente percepite in eccedenza; condannava gli appellati alla rifusione delle spese del grado.

1.3. Avverso detta sentenza hanno proposto ricorso per cassazione (…) (…) e (…) svolgendo tre motivi, illustrati anche da memoria. Ha resistito la (…) depositando controricorso con ricorso incidentale condizionato nonché memoria.Nessuna attività difensiva è stata svolta dall’altra parte intimata.

MOTIVI DELLA DECiSIONE

1. Ex art. 335 c.p.c. occorre provvedere alla riunione del ricorso principale e di quello incidentale condizionato.

1.1. La Corte di appello – andando di contrario avviso rispetto al G.O.A. – ha condiviso le conclusioni del c.t.u., secondo cui il nesso causale tra il sinistro del 24-1-1994 e l’aborto gemellare subito dalla in data 10-3-1994 si presentava ammissibile solo in via di mera possibilità e a titolo di fattore concausale, ma non poteva essere affermato con certezza: ciò in quanto – come evidenziato dal consulente – il criterio di continuità fenomenologica non risultava adeguatamente verificato in rapporto all’esperienza e, comunque, non era sostenuto da documentazione coeva all’avvenimento, peraltro il criterio fenomenologico – specie perché non sostenuto da chiara e continuativa sindrome a monte – risultava insoddisfacente per eccesso di intervallo temporale tra l’epoca del sinistro e la manifestazione dell’aborto, nonché in considerazione della condizione della gravidanza (gemellare e con polidramios) che poteva costituire di per sé causa o concausa dell’interruzione della gravidanza.

La Corte territoriale ha, in particolare, osservato che contrariamente a quanto riferito dalla teste R. addotta dagli originati attori – l’urto non fu violento, attesa la lieve entità dei danni subiti dalla Fiat Uno e ha, altresi, evidenziato che nei referti del 9.3. dei due ospedali, visitati nell’immediatezza dell’incidente dalla (…) , non vi era traccia della sintomatologia riferita dalla testimone (vomito e tracce ematiche); ha, quindi, ritenuto singolare che, in presenza di sintomi di tal fatta, non fosse stato disposto o richiesto il ricovero ospedaliero e che, anzi, la donna avesse atteso diversi giorni, prima di sottoporsi a visita ginecologica in data 31-1-1994, tanto più che delle perdite ematiche non vi era traccia neppure nei certificati del ginecologo curante, (che le aveva menzionate solo nella dichiarazione rilasciata il 13-1-1997, mentre in una precedente dichiarazione, rilasciata sempre a distanza di anni dall’incidente, in data 9-9-1996, si era limitato a riferire del contatto telefonico avuto con la (…) il giorno dopo il sinistro e a dare atto anche della visita avvenuta il 31-1-1994, in cui verificava «collo raccorciato, svasato e borsa integra», a fronte di controlli precedenti che evidenziavano una gravidanza gemellare in regolare evoluzione).

Sulla base delle considerazioni che precedono la Corte territoriale è pervenuta al convincimento che le dichiarazioni della P. e quelle del medico curante non fornissero elementi probatori tranquillizzanti sui quali affermare la sicura riconducibilità al sinistro dell’aborto, avuto riguardo al lasso di tempo trascorso tra il fatto e l’evento 45 gg), alla delicatezza della gravidanza di natura gemellare e con polidramios, nonché al fatto che i feti furono estratti con il cordone ombelicale stretto intorno al collo, non essendo neppure corretto ipotizzare la violenza dell’urto.

1.2 Quanto al concorso di colpa della (…) la Corte di appello lo ha motivato con la considerazione che la trasportata non indossava la cintura di sicurezza, pur non essendo in possesso della certificazione del ginecologo, comprovante condizioni di rischio particolari conseguenti all’uso delle cinture; ha, quindi, confermato anche sotto questo aspetto, la correttezza delle conclusioni del c.t.u., che aveva sottolineato l’influenza del mancato uso della cintura nella produzione delle lesioni sicuramente accertate.

2. 1. Con il primo motivo parte ricorrente impugna la decisione in parte qua, denunciando errore, insufficiente o contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia ai sensi dell’art. 360 n.5 c.p.c. .

In particolare deduce l’esistenza di un errore in cui sarebbe incorsa la Corte nell’escludere la gravità delle conseguenze subite dalla trasportata sulla base delle lievità dei danni materiali subiti dall’autovettura, osservando che non è ipotizzabile un rapporto di proporzionalità tra i danni alla vettura e quelli patiti dalla trasportata e rilevando una contraddizione nel fatto che sia stata contemporaneamente accertato, in relazione alle altre lesioni, un danno biologico nella percentuale del 5%; contesta, inoltre, la sussistenza di un contrasto tra la documentazione ospedaliera e la deposizione testimoniale, osservando che le perdite ematiche erano state rilevate dalla testimone successivamente al trasporto nei due PS ospedalieri; lamenta, quindi, l’insufficienza della motivazione in ordine alla valutazione negativa espressa dai giudici di appello con riguardo alla certificazione rilasciata dal medico curante nonché l’omessa considerazione dell’incidenza del trauma cranico subito dalla gestante sul decorso della gravidanza; infine assume che, in base a statistiche mediche, la rilevanza attribuita alla gravidanza gemellare con polidramios come causa di aborto è assolutamente modesta, incidendo sul fenomeno nella misura del 6%.

2.2. Con il secondo motivo parte ricorrente denuncia violazione di legge, nonché errore e insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia; in particolare deduce, che – non essendosi proceduto ad una nuova ct.u. ovvero ad un supplemento di indagine – la Corte di appello avrebbe dovuto fare ricorso al criterio di causalità di cui agli artt. 40 e 41 c.p. e a quello presuntivo ex art.2727 c.c., pervenendo all’accertamento del nesso causale, sulla base del parere espresso dal consulente in termini di «possibilità – probabilità»; censura, infine, la carenza di motivazione sul punto del ritenuto concorso di colpa, per non avere la Corte di appello spiegato quali sarebbero gli eventi traumatici prodotti dalla (…) in conseguenza del mancato uso delle cinture, né chiarito in qual modo il loro uso avrebbe ridotto o addirittura eliso il danno.

2. 3 I suesposti motivi, che si esaminano congiuntamente perché tra loro interconnessi, non meritano accoglimento. Infatti la decisione si sottrae al sindacato di legittimità in quanto si fonda su una motivazione congrua (avendo esplicitamente od implicitamente valutato tutte le risultanze rilevanti), logica, non contraddittoria e rispettosa della normativa rilevante in materia. E’ orientamento pacifico che l’accertamento del nesso di causalità tra l’illecito e l’evento dannoso si sostanzia in una valutazione di merito che, in quanto congruamente motivata, non è censurabile in sede di legittimità (ex plurisuis Cass. n. 10741 del 2002) . D’altra parte quando le nozioni medico-legali non forniscono come nel caso all’esame, una risposta in termini di certezza assoluta – la prova del nesso causale può essere ravvisata solo in presenza di un serio e ragionevole criterio di probabilità (cfr. in materia di responsabilità professionale Cass. n. 632 del 2000) e, cioè, di un elevato grado di probabilità dovendosi escludere la rilevanza della mera possibilità della riconducibilità dell’evento traumatico al fatto illecito altrui. A tali criteri si è correttamente adeguata la Corte di appello, allorché ha evidenziato come il c.t.u. avesse espresso una valutazione in termini di mera possibilità e a titolo di fattore concausale ed ha, quindi, escluso che fosse stata acquisita la prova del nesso eziologico tra l’incidentedi cui trattasi e l’aborto subito dalla (…) avuto riguardo sia all’apprezzabile distanza temporale tra lo stesso incidente e l’evento di cui trattasi, sia all’assenza di una documentazione sanitaria, coeva ai fatti che attestasse una tale evoluzione (essendo inattendibile la «ricostruzione» della vicenda effettuata a distanza di anni e, in termini nient’affatto lineari, dal medico curante), sia ancora alla presenza di altri fattori di rischio preesistenti all’incidente e ritenuti determinanti (gravidanza gemellare con polidramios).

Merita puntualizzare che – come emerge dalla sintesi sopra riportata – la Corte territoriale ha proceduto a un’accurata disamina critica di tutto l’insieme probatorio acquisito alla causa, rivisto alla luce di motivi di impugnazione, senza incorrere in errori di logica o di diritto e quindi con un ragionamento incensurabile in questa sede, al quale parte ricorrente, sotto l’apparenza di denunciare vizi di motivazione o violazione di legge, contrappone in sostanza una propria valutazione delle prove e il proprio diverso convincimento, introducendo nel giudizio di legittimità una inammissibile istanza di riesame del merito.In particolare, quanto agli assenti vizi logici, sembra utile rammentare che il vizio di omessa o insufficiente motivazione, deducibile in sede di legittimità ex art. 360 cp.c., n 5, sussiste solo se nel ragionamento del giudice di merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile il mancato o deficiente esame di punti decisivi della controversia, e non può invece consistere in un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello preteso dalla parte, perché la citata norma non conferisce alla Corte di cassazione il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice del merito al quale soltanto spetta individuare le fonti del proprio convincimento, e, all’uopo, valutarne le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione (Cass. S. U. 11/06/1998 a. 5802).

Nel caso all’esame il tessuto motivazionale della sentenza impugnata non presenta aporie di ragionamento che, sole, possono indurre a ritenere sussistente il vizio di assenza, contraddittorietà o illogicità di motivazione; mentre gli argomenti di segno contrario, svolti da parte ricorrente costituiscono, con tutta evidenza, reiterazione di difese di merito, già esposte nella ct. di parte e adeguatamente disattese dai giudici di appello ovvero censure in fatto della sentenza impugnata, inerendo esclusivamente alla valutazione degli elementi di prova ed alla scelta delle ragioni ritenute idonee a giustificare la decisione.

In particolare questo Collegio non ravvisa alcuna contraddizione, tra il punto della decisione in cui viene esclusa la violenza del tamponamento e quello in cui viene affermata la riconducibilità al sinistro delle lesioni accertate (trauma cranico commotivo e trauma distorsivo cervicale), quantificate in termini di danno biologico permanente nella misura di cinque punti percentuali; e ciò vuoi perché si tratta di una micropermanente, compatibile con la tesi dei giudici a quibus circa la modestia del tamponamento, vuoi, anche, perché – come chiarito dagli stessi giudici, in sintonia con le valutazioni espresse dal c.t.u. – nella produzione di tale danno ha concorso il comportamento colpevole della odierna ricorrente, per non avere indossato la cintura di sicurezza, pur non essendo in possesso della certificazione del ginecologo che, ai sensi dell’art.172 C.d.S., ne consentisse l’esenzione. Trattasi di valutazioni di stretto merito, immuni da censure rilevabili in questa sede, atteso che -. anche sul punto del ritenuto concorso di colpa – parte ricorrente tende in modo evidente ad una ricostruzione delle risultanze processuali diversa da quella operata dai giudici di appello, con motivazione adeguata e qui non sindacabile.

3. L’ultimo motivo di ricorso riguarda la liquidazione delle spese processuali. Invero i giudici di appello hanno provveduto a ridurre le spese liquidate in primo grado e hanno, quindi, posto a carico degli appellati (…) e (…) le spese del grado di appello.

3.1. Parte ricorrente denuncia erronea, insufficiente e contraddittoria motivazione circa la riduzione delle spese diritti e onorari liquidati in primo grado dal Tribunale e alla condanna delle spese del secondo grado. Lamenta in particolare che la Corte territoriale, in applicazione del principio di soccombenza abbia operato una drastica riduzione degli onorari e abbia poi proceduto ad unacondanna sproporzionata delle spese del grado di appello anche nei confronti del (…) a questi ultimi effetti i giudici di appello sarebbero incorsi in un errore di diritto, dal momento che la posizione del (…) non era oggetto nè dell’impugnazione principale della compagnia di assicurazione, nè dell’appello incidentale

3.2. Anche il suddetto motivo è infondato.

Va innanzitutto chiarito che la riduzione delle spese del primo grado non è conseguente all’applicazione del principio di soccombenza, come sembra supporre parte ricorrente.

La Corte di appello ha, infatti, adeguatamente chiarito, con motivazione che risulta immune da censura, che la (ri)liquidazione veniva effettuata, in considerazione dello specifico motivo di censura dell’appellante compagnia di assicurazione, «tenuto conto della somma in definitiva riconosciuta, dell’attività difensiva espletata, nonché delle tariffe vigenti», reputando in tal modo eccessivi i criteri di liquidazione seguiti in primo grado e provvedendo alla diversa quantificazione; solo genericamente contestata in questa sede.

Va poi osservato che non vi è violazione del principio di soccombenza nei riguardi del (…) vuoi perché il motivo di appello che denunciava l’ eccessività della liquidazione delle spese del primo grado riguardava anche la posizione di detto ricorrente (trattandosi di una liquidazione unitaria, in favore di entrambi gli appellati, ancorché con distrazione in favore del legale, dichiaratosi antistatario), vuoi perché come emerge dal testo della decisione impugnata – i coniugi (…) e (…) assunsero una comune posizione difensiva anche in appello.

In definitiva il ricorso principale va rigettato, risultando assorbito quello incidentale condizionato.Tenuto conto della natura delle questioni trattate, oggetto di diverse valutazioni nei due gradi del giudizio, le spese di questo grado vanno interamente compensate.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi; rigetta quello principale, assorbito quello incidentale condizionato compensa interamente tra le parti le spese del giudizio di cassazione.

Depositata in Cancelleriail 28.05.2009

Cassazione SS UU Civile n. 3677/2009 Lavoro, danno non patrimoniale, civile, danno esistenziale (2009-06-10)

Svolgimento del processo

Il Comune di Limbiate impugnava davanti alla Corte d’appello di Milano la statuizione emessa dal locale Tribunale, con cui erano state accolte la maggior parte delle domande proposte da D. D. e F. P., rispettivamente dirigente amministrativo e dirigente dei servizi alla persona presso il predetto Comune, i quali avevano lamentato la illegittimità del provvedimento di sospensione cautelare e poi di revoca dell’incarico dirigenziale, adottato dal Sindaco, nonché la illegittimità della delibera della Giunta comunale, prima di dichiarazione di eccedenza e poi di collocamento in disponibilità dall’agosto 2002.

I dirigenti avevano eccepito la mancata individuazione dei motivi della revoca dell’incarico ed il mancato rispetto della relativa procedura; avevano lamentato altresì: a) la sospensione dell’incarico protrattasi per oltre due mesi; b) la dequalificazione a seguito dell’incarico dirigenziale a staff, non avendo mai svolto alcuna attività; c) la nullità della procedura di modifica della dotazione organica dei dirigenti e della connessa procedura di mobilità, cui erano stati sottoposti, per la mancata osservanza dell’iter previsto sia dalla legge, sia dalla contrattazione collettiva, sia dall’accordo integrativo decentrato del Comune di Limbiate, anche perché la nuova dotazione organica aveva previsto la creazione di due posizioni di staff poi eliminate a distanza di soli due mesi; d) che detti atti amministrativi di organizzazione essendo illegittimi, avrebbero potuto essere disapplicati dall’AGO, con conseguente venir meno degli atti di esecuzione e cioè della dichiarazione di eccedenza e della successiva collocazione in disponibilità; e) la illegittimità della procedura di disponibilità di cui all’art. 33 del TU 165/2001; f) il carattere comunque discriminatorio dei provvedimenti presi nei loro confronti, dovuti alla loro diversa collocazione politica rispetto alla nuova giunta; chiedevano quindi dichiararsi la illegittimità dei suddetti atti di gestione del rapporto, previa disapplicazione degli atti amministrativi presupposti; la reintegra nel posto di lavoro ed il risarcimento dei danni patrimoniali, e alla lesione della loro professionalità, dei danni esistenziali, dei danni all’immagine e del danno morale.

La Corte d’appello, con la sentenza in epigrafe indicata, confermava la illegittimità della revoca degli incarichi dirigenziali, nonché la illegittimità del collocamento in disponibilità, confermava la misura del danno patrimoniale e del danno all’immagine come liquidato dal primo Giudice, riduceva il danno alla professionalità al 50% di quanto determinato dal Tribunale per il D. ed all’80% per il F., rigettava la domanda di risarcimento dei danni morali, mentre, disattendendo l’appello incidentale dei dirigenti, rigettava la domanda di reintegrazione o riammissione in servizio nelle precedenti mansioni dirigenziali.

La Corte territoriale respingeva preliminarmente l’eccezione di difetto di giurisdizione sollevata dal Comune, sul rilievo che la revoca dell’incarico dirigenziale rientra nella giurisdizione dell’AGO ai sensi della previsione espressa dell’art. 63 del d.lgs 165/2001, mentre, quanto agli atti amministrativi presupposti, cd. di macro organizzazione, come quelli relativi alla approvazione della nuova dotazione organica dell’ufficio, i dirigenti ne avevano chiesto solo la disapplicazione ai fini della declaratoria di illegittimità del provvedimento in disponibilità.

Quanto alla legittimità della sospensione prima e della revoca poi dell’incarico dirigenziale, la Corte adita negava la esistenza degli addebiti posti a fondamento del provvedimento, e ne affermava il carattere discriminatorio per motivi politici e sindacali. Rilevato poi che non era stata impugnata la sentenza di primo grado sulla esistenza del demansionamento seguito ai provvedimenti di sospensione e revoca dell’incarico dirigenziale e di successiva collocazione a staff, la Corte territoriale passava all’esame dei provvedimenti di messa in disponibilità, di cui il Comune sosteneva la legittimità. La Corte – esaminati gli atti che avevano dato luogo alla messa in disponibilità, e precisamente le delibere n. 91 e n. 119 del 2002 di modificazione della dotazione organica, con i quali era stata decisa la eliminazione della posizione di staff in cui il D. ed il F. erano stati collocati da ultimo, e quindi la riduzione delle posizioni dirigenziali ad una sola, e cioè a quella preposta al settore tecnico – ne affermava la illegittimità per vari profili: sia perché posta in essere in violazione dell’art. 6 comma 14 legge 127/97, che impone la rilevazione dei carichi di lavoro come presupposto indispensabile per la rideterminazione delle dotazioni organiche (disposizione non abrogata dall’art. 274 del TU), sia perché detta variazione non era stata disposta in coerenza con la programmazione triennale del fabbisogno di personale, come prescritto dall’art. 39 della legge 449/97, sia perché non vi era stata una specifica concertazione con i rappresentanti sindacali della dirigenza pubblica ai sensi dell’art. 4 del CCDI, mentre non era sufficiente la prova, fornita dal Comune, di avere effettuato una comunicazione alle OO.SS. territoriali confederali e di avere sottoscritto con le RSU e le OO.SS., in data 20 maggio 2002, un verbale sindacale in cui si dava atto di una concertazione positiva sul nuovo regolamento comunale. La illegittimità degli atti presupposti si riverberava sui conseguenti provvedimenti di eliminazione delle posizioni dirigenziali a staff, in cui il D. ed il F. erano stati collocati e della successiva collocazione in disponibilità. Questi atti riguardanti i due dirigenti erano quindi illegittimi, ma non nulli, non essendo stati posti in essere per motivi discriminatori, avendo l’operazione di riorganizzazione interessato una serie di posizioni ed essendo riservata alla discrezionalità amministrativa, il che impediva l’accoglimento della domanda di riammissione nelle precedenti mansioni, non tanto perché vige un generale divieto di applicazione dell’art. 2103 cod. civ., ma perché il periodo di messa in disponibilità era ormai praticamente concluso alla data della decisione di primo grado, scadendo il termine di 24 mesi il 10 agosto 2004, con la conseguenza che l’inadempimento contrattuale era ormai suscettibile solo di tutela risarcitoria. Tuttavia all’epoca di presentazione del ricorso il rapporto di lavoro non era ancora cessato, essendo la cessazione avvenuta per il F. solo alla scadenza dei 24 mesi di collocazione in disponibilità, per cui solo da tale data avrebbe potuto sorgere l’interesse dei due dirigenti ad impugnare il recesso ed a chiedere la condanna ripristinatoria.

Quanto al risarcimento dei danni, confermato il diritto alle differenze retributive tra quanto spettante nella precedente posizione dirigenziale e quanto percepito, sia per il periodo di collocazione a staff dal primo aprile al 31 luglio 2002, sia per tutto il periodo di 24 mesi di messa in disponibilità, la Corte, in parziale accoglimento dell’appello del Comune, rigettava le domande di risarcimento del danno morale e, ritenuta eccessiva la determinazione del danno alla professionalità, la riduceva al 50% delle retribuzioni di fatto per il D. e all’80% per il F., sul rilievo che il primo, nel 2004, aveva trovato altra collocazione dirigenziale e che aveva svolto un’altra collaborazione per l’intero anno 2003, mentre il secondo aveva svolto per minor tempo un’attività lavorativa limitata.

Avverso detta sentenza il Comune di Limbiate propone ricorso con tre motivi nei confronti del D. che a sua volta ha proposto ricorso incidentale con cinque motivi illustrati da memoria, cui il Comune ha risposto con controricorso.

Il F. ha proposto ricorso avverso la medesima sentenza con otto motivi, ed il Comune di Limbiate ha resistito con controricorso e ricorso incidentale con cinque motivi illustrati da memoria, cui il F. ha risposto con controricorso. Il Comune ha presentato anche memoria.

Motivi della decisione

Va preliminarmente disposta la riunione dei quattro ricorsi ex art. 335 cod. proc. civ..

Con il primo motivo del ricorso principale proposto dal Comune di Limbiate nei confronti del D. si denunzia la carenza di giurisdizione dell’AGO in relazione agli atti amministrativi di adozione di una nuova dotazione organica e di approvazione del nuovo regolamento comunale degli uffici di cui alle delibere 91 e 119 del 2002, nell’esercizio del potere conferito dall’art. 2 del TU 165/2001, in applicazione dell’art. 63 primo comma dello stesso testo normativo.

Sostiene il Comune ricorrente che, essendo stato impugnato l’atto di determinazione del nuovo organico del personale, in applicazione della normativa sopra indicata, dovrebbe essere dichiarata la giurisdizione del giudice amministrativo anche in relazione agli effetti riflessi ed indiretti del medesimo atto (la eliminazione della dirigenza a staff e della messa in disponibilità).

Il motivo attinente alla giurisdizione non è fondato.

1. L’art. 63 del TU 30 marzo 2001 n. 165 devolve al giudice ordinario in funzione del giudice del lavoro “tutte le controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze della P.A. … ancorché vengano in questione atti amministrativi presupposti. Quando questi ultimi siano rilevanti ai fini della decisione, il giudice li disapplica se illegittimi”.

Ne consegue, com’è stato già affermato (tra le tante Cass. 13169 del 5 giugno 2006) proprio in tema di variazione della pianta organica di un ente pubblico, che, in materia di lavoro pubblico privatizzato, dal sistema di riparto di giurisdizione delineato dall’art. 63, comma primo, d.lgs. n. 165 del 2001, risulta che non è consentito al titolare del diritto soggettivo, che risente degli effetti di un atto amministrativo, di scegliere, per la tutela del diritto, di rivolgersi al giudice amministrativo per l’annullamento dell’atto, oppure al giudice ordinario per la tutela del rapporto di lavoro previa disapplicazione dell’atto presupposto, atteso che, in tutti i casi nei quali vengano in considerazione atti amministrativi presupposti, ove si agisca a tutela delle posizioni di diritto soggettivo in materia di lavoro pubblico, è consentita esclusivamente l’instaurazione del giudizio davanti al giudice ordinario, nel quale la tutela è pienamente assicurata dalla disapplicazione dell’atto e dagli ampi poteri riconosciuti a quest’ultimo dal secondo comma del menzionato art. 63.

Non si dubita che in forza del rapporto di lavoro “privatizzato” intercorso con il Comune la posizione fatta valere dal D. e dal F. abbia la consistenza del diritto soggettivo e che tutte le controversie relative agli atti di gestione del rapporto rientrino nella giurisdizione dell’AGO. Nella specie i due dirigenti si dolgono direttamente degli atti di gestione del rapporto – e cioè della revoca degli incarichi dirigenziali e poi, a seguito della soppressione, di tutte le posizioni dirigenziali, della dichiarazione di eccedenza e della successiva messa in mobilità – rispetto ai quali il provvedimento di variazione della pianta organica del Comune era evidentemente l’atto presupposto degli atti di gestione medesimi. I dirigenti chiedono quindi, non già l’annullamento, ma la disapplicazione, sostenendone la illegittimità, di questo atto presupposto, al limitato fine di sottrarre fondamento ai successivi atti di gestione del rapporto di lavoro.

1.2. Il Comune invoca invero alcune pronunzie di questa Corte con cui, in relazione alle variazioni della pianta organica dell’ente pubblico, o comunque in relazione ad atti organizzativi di carattere generale, è stata affermata la giurisdizione del giudice amministrativo. In quei casi, però, contrariamente a quanto si verifica nella specie, gli atti organizzativi non incidevano direttamente su atti di gestione del rapporto di lavoro, perché, pur pregiudicando in qualche modo la posizione dei lavoratori, avevano sui singoli rapporti solo efficacia riflessa.

Ed infatti con l’ordinanza n. 21592 dell’8 novembre 2005 si è affermata la giurisdizione del giudice amministrativo in relazione ad un ricorso proposto dalle associazioni sindacali che avevano impugnato un regolamento della Regione Lazio, in materia di inquadramento del personale, il quale aveva consentito il conferimento della qualifica dirigenziale a numerosi dipendenti. È evidente che in tal caso, in primo luogo, la posizione delle OO.SS. non era di diritto soggettivo, ed inoltre il regolamento non aveva direttamente inciso sui singoli rapporti di lavoro, ma spiegava su di essi solo una incidenza riflessa, di talché nei confronti del medesimo regolamento erano configurabili solo situazioni di interesse legittimo.

Nello stesso senso, con l’ordinanza n. 15904 del 13 luglio 2006, è stata affermata la giurisdizione amministrativa in un caso in cui alcuni dipendenti del Ministero dell’Istruzione, inquadrati nei profili professionali di assistente amministrativo, avevano impugnato l’organico provinciale dell’ATA per l’anno scolastico 2003-2004, e ne avevano chiesto l’annullamento, asserendo che gli stessi erano inficiati nella parte in cui avevano disposto una riduzione di fatto degli organici, in misura rilevante e non prevedibile, così ledendo le loro legittime aspettative alla chiesta mobilità presso altri Istituti scolastici della Provincia. Anche in questo caso, dunque, il provvedimento organizzativo di carattere generale non incideva direttamente sui rapporti di lavoro, essendo dedotta solo una lesione di “aspettative”.

Ed ancora, nel caso di cui all’ordinanza n. 8363/2007, è stata dichiarata la giurisdizione del giudice amministrativo in una fattispecie in cui veniva contestato un atto organizzatorio consistente nella delibera della Giunta comunale di modifica del regolamento del personale, con la previsione della possibilità di procedere alla copertura di un posto vacante di dirigente mediante stipula di un contratto di lavoro a tempo determinato.

In tutti questi casi dunque il provvedimento amministrativo non veniva in considerazione quale atto presupposto della gestione del rapporto di lavoro, perché il nuovo modulo organizzativo così introdotto non incideva direttamente sulla posizione del singolo dipendente, ma su queste aveva solo una efficacia indiretta e, d’altra parte, il pregiudizio di cui astrattamente avrebbero potuto risentire poteva essere eliminato, nelle fattispecie sopra ricordate, non già dalla disapplicazione, ma dall’annullamento vero e proprio del provvedimento amministrativo.

In osservanza alla nuova formulazione dell’art. 384 cod. proc. civ. va dunque affermato il principio di diritto per cui “Le controversie concernenti gli atti di organizzazione dell’amministrazione rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario, e sono passibili di disapplicazione, in tutti i casi in cui costituiscano provvedimenti presupposti di atti di gestione del rapporto di lavoro del pubblico dipendente”.

2. Con il secondo motivo si denunzia la violazione degli artt. 4 CCDI settore dirigenti e dell’art. 25, commi 3, 4, e 5, dell’art. 26 comma 3, 7 e 11 del CCNL comparto regioni enti locali settore dirigenti. Si sostiene che l’art. 4 del CCDI prevede come oggetto di concertazione le variazioni della dotazione organica della dirigenza, nel caso di cui agli artt. 25, commi 3, 4, e 5 e 26, in particolare del comma 3 del CCNL. Tuttavia, né l’art. 25, né l’art. 26 riguarderebbero il caso di specie; inoltre l’art. 26 prende in considerazione la dotazione organica e la riorganizzazione per l’accrescimento dei livelli qualitativi e quantitativi dei servizi esistenti con ampliamento delle competenze, mentre, nella specie, la nuova dotazione organica aveva condotto ad un decremento del numero dei dirigenti, di talché non verrebbero in applicazione le ipotesi in cui è prevista la concertazione, ma quelle in cui è prescritta solo la preventiva informazione, che era stata data il giorno 27 marzo 2003. Inoltre, le rappresentanze sindacali erano state convocate per la concertazione che si era tenuta all’esito del rinvio del precedente incontro del 20 maggio 2002; ed ancora, per le eccedenze di personale inferiori alle 10 unità non sarebbe necessaria la concertazione, ma solo la informativa (art. 33 comma I d.lgs 165/2001 e art. 7 CCNL dirigenti).

Neppure questo motivo merita accoglimento dal momento che la contrarietà alla legge della delibera di variazione della dotazione organica dei dirigenti adottata dal Comune era stata ravvisata, dalla sentenza impugnata, in forza di una pluralità di argomentazioni, e quindi sulla base di molteplici rationes decidendi, su alcune delle quali non sono state svolte censure. Ed infatti non è stata censurata la contrarietà della delibera né all’art. 6 comma 14 della legge 127/97 (che prescrive, per i comuni con più di quindicimila abitanti, la rilevazione dei carichi di lavoro quale presupposto indispensabile per la rideterminazione delle dotazioni organiche), né la contrarietà all’art. 39 comma I della legge 449/97 (che obbliga gli organi di vertice delle amministrazioni alla programmazione triennale del fabbisogno di personale).

Ne consegue che la statuizione sulla illegittimità del provvedimento trova conferma sulla base dei punti non impugnati.

Dal rigetto di tale secondo motivo discende quindi la irrevocabilità della dichiarazione di contrarietà alla legge delle delibere di variazione dell’organico dei dirigenti nn. 91 e 119 del 2002.

3. Con il terzo mezzo si censura la sentenza per violazione dell’art. 2697 e 1223 cod. civ., per mancata prova sulla esistenza del danno esistenziale e quindi la erroneità della statuizione sul riconoscimento del danno all’immagine ravvisato dalla Corte di Milano, in quanto derivante in re ipsa dalla dequalificazione, senza allegazione, né prove della sua esistenza da parte del richiedente che ne sarebbe onerato.

Neppure questo motivo è fondato.

Va premesso che, riguardo alla posizione del D., il Comune ricorrente non ha censurato la sentenza nella parte in cui ha affermato la illegittimità dei provvedimenti di sospensione prima e di revoca poi dell’incarico dirigenziale: rimane quindi irretrattabile la statuizione che ha negato l’inadempimento del dirigente e quindi la invalidità della collocazione a staffe dei successivi atti di dichiarazione di eccedenza e di messa in disponibilità.

In questo contesto la Corte territoriale ha riconosciuto un solo risarcimento del danno non patrimoniale, ossia il danno all’immagine, fondando la statuizione su dati certi, costituiti dalla vicenda di cui il D. era stato oggetto: prima la sospensione cautelare per due mesi dall’incarico dirigenziale e successivamente la revoca, con collocazione a staff (dove nessuna funzione gli era stata affidata, circostanza non contestata dal Comune) e quindi la dichiarazione di eccedenza e la collocazione in disponibilità. Non si tratta quindi di pregiudizio di carattere soggettivo, che, come dagli ultimi arresti giurisprudenziali, ha necessariamente bisogno di allegazione e prova, ma di pregiudizio discendente oggettivamente dalla vicenda giudiziaria posta all’esame della Corte territoriale.

Il ricorso principale proposto dal Comune nei confronti del D. va quindi integralmente respinto.

4. Va esaminato a questo punto il ricorso incidentale proposto dal Comune nei confronti del F., essendo preliminare sotto il profilo logico.

Con il primo motivo il Comune eccepisce la carenza di giurisdizione dell’AGO, motivo che va respinto per le considerazioni già svolte al punto 1.

Parimenti va rigettato il secondo motivo (violazione dell’art. 4 CCDI dirigenti e dell’art. 25 commi 3, 4 e 5, dell’art. 26 comma 3, dell’art. 7 e 11 del CCNL comparto regioni enti locali e difetto di motivazione) in quanto analogo a quello già dedotto con il ricorso principale nei confronti del D..

Con il terzo mezzo si lamenta difetto di motivazione, per avere la Corte territoriale ritenuto acclarata la discriminazione a danno del F., perché le prove testimoniali dimostrerebbero che costui non aveva partecipato ad alcune riunioni e che il direttore generale aveva avuto contatti diretti con il personale, mentre, sostiene il Comune, la mancata precisazione dei tempi starebbe a dimostrare che ciò si era verificato nel periodo di sospensione e in quello immediatamente successivo di revoca dell’incarico dirigenziale.

Neppure questo motivo merita accoglimento, in quanto tendente non già ad evidenziare incoerenze e mancata considerazione di circostanze decisive da parte della sentenza impugnata, ma a sollecitare un diversa riconsiderazione dei fatti, dal momento che la dedotta mancanza di motivazione sulle date, non vale a smentire le circostanze poste a base della statuizione: sospensione per due mesi dall’incarico dirigenziale, successiva revoca e collocazione a staff senza assegnazione di alcuna funzione, abolizione delle posizioni di staff, dichiarazione di eccedenza e di collocazione in disponibilità, tutto ciò in mancanza di prova, che il Comune avrebbe dovuto fornire, di inadempimenti, da parte del dirigente, tali da giustificare dette iniziative non essendo invece stata proposta censura avverso le affermazioni della sentenza impugnata sulla insussistenza degli addebiti mossi.

Il quarto motivo, relativo al riconoscimento del risarcimento del danno all’immagine, va parimenti rigettato, per le ragioni già esposte in relazione al terzo motivo del ricorso principale proposto dal Comune nei confronti del D..

Con il quinto mezzo si denunzia difetto di motivazione, perché, da un lato, la Corte territoriale avrebbe ritenuto legittimo il provvedimento di messa in disponibilità, e poi, contraddittoriamente lo avrebbe ritenuto risarcibile.

Il motivo è infondato, giacché la Corte territoriale non ha affermato la legittimità della collocazione in disponibilità, avendo testualmente rilevato che la illegittimità dell’atto presupposto, ossia il provvedimento di definizione della nuova pianta organica, si riverberava sugli atti esecutivi posti in essere, e cioè sulla revoca degli incarichi dirigenziali di staff e sulla successiva procedura di messa in disponibilità di cui all’art. 33 del d.lgs. n. 165 del 2001. La Corte di Milano, pur escludendo la nullità della stessa delibera di determinazione della pianta organica, avendo negato che fosse stata posta in essere per motivi discriminatori, e cioè al solo fine di liberarsi dei dirigenti, ne ha però sancito la illegittimità (derivata) e tanto è sufficiente a sorreggere la statuizione risarcitoria.

Conclusivamente il ricorso incidentale proposto dal Comune nei confronti del F. va integralmente rigettato.

5. Con il primo motivo del ricorso principale il F. lamenta la violazione degli artt. 1418, 1419, 1453 e 2058 cod. civ. in ordine alla mancata reintegrazione nelle funzioni di dirigente del settore, perché la Corte territoriale, pur avendo affermato la natura discriminatoria della revoca dell’incarico dirigenziale, non lo aveva reintegrato nelle funzioni, mentre sarebbe irrilevante la circostanza ravvisata dalla sentenza impugnata per cui il periodo di disponibilità era spirato alla data di presentazione del ricorso, attenendo detta circostanza, tutt’al più, alla fase dell’esecuzione. Con il secondo motivo del ricorso principale del F., che corrisponde al primo motivo del ricorso incidentale del D., si denunzia difetto di motivazione, per non avere la Corte di Milano riconosciuto che la delibera di attuazione del regolamento – nella parte in cui definiva la nuova dotazione organica con la soppressione delle posizioni dirigenziali prima esistenti, nonché i successivi atti di revoca dell’incarico di staff, la dichiarazione di eccedenza e la messa in mobilità – fosse nulla o inefficace perché adottata per motivi discriminatori. Si assume che la Corte non avrebbe valutato le circostanze precedenti alla modifica della dotazione organica, della cui necessità il Comune non aveva mai neppure allegato prova.

Il F., con il terzo mezzo, che corrisponde al secondo motivo del D., si duole della parte della sentenza già oggetto della censura precedente, per violazione dell’art. 416 cod. proc. civ. e dell’art. 2697 cod. civ., perché il Comune non avrebbe mai chiesto di provare l’esistenza di motivi organizzativi ed economici sottesi al provvedimento adottato sulla nuova dotazione organica.

Il F., con il quarto motivo, che corrisponde al terzo del D., censura ancora la parte della sentenza impugnata di cui ai precedenti motivi secondo e terzo, per violazione degli artt. 115 e 116 cpc e 2727 e 2729 cod. civ., prospettando l’esistenza di un motivo illecito che avrebbe ispirato il provvedimento di modifica della dotazione organica, come dimostrato dalle prove testimoniali attestanti il carattere discriminatorio della revoca degli incarichi, il quale costituirebbe presunzione del carattere parimenti discriminatorio della soppressione dei posti dirigenziali, considerato anche che, in meno di sei mesi, la struttura organizzativa del Comune era stata stravolta per ben tre volte: prima ampliando le posizioni dirigenziali da tre a quattro, poi istituendo altre due posizioni dirigenziali di staff, per poi diminuirle ad una sola unità. Pertanto la natura discriminatoria dei provvedimenti impugnati comporterebbe il ripristino della situazione contrattuale originaria precedente, e quindi la prosecuzione de iure del rapporto dirigenziale, con diritto alla corresponsione delle retribuzioni maturate fino alla effettiva riammissione in servizio.

Con il quinto motivo si censura la sentenza per violazione degli artt. 1453 e 2058 cod. civ. e dei principi costituzionali che tutelano l’autonomia e l’indipendenza del dirigente pubblico, garantendogli un regime di stabilità del rapporto, nonché dei principi dell’ordinamento che privilegiano la tutela satisfattoria dell’interesse leso.

Si reiterano le considerazioni già svolte nel primo motivo sul diritto alla reintegrazione nel posto dirigenziale già occupato in forza del regime di stabilità che caratterizzerebbe il pubblico dirigente.

6. Va preliminarmente rigettata la eccezione, sollevata dal Comune, di inammissibilità del controricorso e del ricorso incidentale del D. per avere costui depositato un fascicolo “ricostituito” contenente documenti non prodotti nei gradi di merito, giacché ciò comporta la inammissibilità del deposito di nuovi documenti senza però inficiare la validità né del controricorso né del ricorso incidentale.

7. I suddetti primi cinque motivi del ricorso principale F. e i primi tre motivi del ricorso incidentale D., che per la loro connessione vanno trattati congiuntamente, sono fondati.

Va rilevato in primo luogo che gli effetti economici pregiudizievoli della illegittima revoca dell’incarico dirigenziale hanno trovato riparazione nella condanna inflitta al Comune al pagamento delle differenze retributive tra quanto spettante con il mantenimento dell’incarico medesimo e la minor somma di fatto percepita.

Resta, ed è questa la questione fatta valere con i motivi suddetti, il tema del diritto dei dirigenti al ripristino delle funzioni dirigenziali.

La Corte di Milano ha affermato che la delibera di soppressione delle posizioni dirigenziali era stata effettuata con violazione di legge (statuizione che resta ormai ferma a seguito del rigetto dei ricorsi del Comune) e che la illegittimità di questo atto presupposto si riverberava in primo luogo sulla revoca degli incarichi dirigenziali originariamente ricoperti (dirigente del settore amministrazione generale e di dirigente del settore servizi alla persona) e quindi sulla revoca del collocamento in posizione di staff e successivamente ancora sulla messa in disponibilità. Tuttavia ha rilevato nel prosieguo che la collocazione in disponibilità, pur essendo illegittima, non era però nulla per motivi discriminatori, e ciò non consentiva la reintegra nell’incarico dirigenziale.

La Corte territoriale, ritenendo che solo l’esistenza del motivo discriminatorio consentirebbe di pervenire alla richiesta riammissione nell’incarico dirigenziale, ha erroneamente omesso di considerare le conseguenze derivanti dalla pur dichiarata disapplicazione dell’atto presupposto, e quindi tutti gli effetti che questo provocava sull’atto di gestione del rapporto costituito dalla revoca ante tempus dell’incarico medesimo.

8. Tuttavia, il ravvisato difetto di motivazione può condurre all’accoglimento delle censure in esame, e quindi all’annullamento della sentenza, solo risolvendo in senso positivo la questione relativa al diritto del dirigente alla riassegnazione dell’incarico, revocato prima della scadenza prefissata, in conseguenza della illegittimità del provvedimento presupposto, essendo evidente che, in caso negativo, il dispositivo sarebbe conforme a diritto e si tratterebbe solo di correggere la motivazione ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 384 cod. proc. civ.

È noto che il legislatore della “privatizzazione” del rapporto di pubblico impiego non ha introdotto la giurisdizione esclusiva in capo al giudice ordinario, alla stregua di quanto previsto in capo al giudice amministrativo nella precedente disciplina. Dallo “sdoppiamento” di attribuzione tra giudice del provvedimento e giudice dell’atto di gestione, emergono profili problematici quanto all’ambito di protezione riservato al dirigente (ma anche a qualsiasi dipendente pubblico), stante la portata lesiva che nei suoi confronti può assumere un atto generale di organizzazione, sia ex se, sia in quanto presupposto illegittimo per l’assunzione di un atto paritetico. E detta efficacia lesiva risulta ancor più accentuata da quella giurisprudenza (la già citata Cass. n. 13169/2006) che, proprio in tema di variazione della pianta organica di un ente pubblico, ritiene che non è consentito al titolare del diritto soggettivo, che risente degli effetti di un atto amministrativo, di scegliere, per la tutela del diritto, di rivolgersi al giudice amministrativo per l’annullamento dell’atto, oppure al giudice ordinario per la tutela del rapporto di lavoro previa disapplicazione dell’atto presupposto.

Invero, una volta ricondotte le espressioni della potestà amministrativa nei ristretti limiti segnati dall’art. 2 primo comma d.lgs. 165/2001, non sono molti i casi in cui un atto amministrativo di autorganizzazione può essere astrattamente considerato come immediatamente e direttamente lesivo degli interessi dell’impiegato pubblico; è vero invece che, come nella specie, sono molto frequenti i casi in cui l’atto di gestione del rapporto non è altro che la mera applicazione dell’atto di autorganizzazione.

Nel caso in esame il provvedimento organizzatorio di eliminazione di tutte le posizioni dirigenziali (ad esclusione di quella tecnica) ha avuto come immediata conseguenza la revoca degli incarichi prima della scadenza prefissata, la dichiarazione di eccedenza dei due dirigenti e la loro messa in disponibilità. In altri casi l’effetto lesivo per i pubblici dipendenti può derivare da una ristrutturazione della pianta organica con soppressione di alcuni uffici, che determina la collocazione in disponibilità del personale che vi era addetto.

Tuttavia lo stretto nesso tra il provvedimento amministrativo di autorganizzazione e l’atto paritetico di gestione del rapporto di lavoro, non può condurre a negare che, anche in questi casi, il giudice ordinario possa conoscere della situazione giuridica soggettiva dedotta dal lavoratore. Infatti ciò che il giudice del lavoro deve accertare è la legittimità degli atti di gestione del rapporto, nella specie dell’atto di revoca degli incarichi dirigenziali, e degli atti conseguenti.

8.1. Poiché l’art. 63 del d.lgs. n. 165 del 2001 conferisce a giudice del rapporto la possibilità di verificare la legittimità del provvedimento amministrativo presupposto di autorganizzazione (giacché il datore di lavoro pubblico è astretto in ciò ad una precisa disciplina, a differenza del datore di lavoro privato) e di disapplicarlo ove ne ravvisi la contrarietà alle regole, la disapplicazione conduce necessariamente a negare ogni effetto, tra le parti, all’atto generale di organizzazione, privando così di fondamento l’atto di gestione consequenziale.

Osserva tuttavia parte della dottrina che il giudice, nel ripristinare la posizione sostanziale lesa del dipendente, non può però ignorare che l’atto organizzativo generale, non solo esiste, ma sarebbe anche definitivamente stabile, non essendo stato eliminato dal giudice amministrativo, a cui nessuno ha fatto ricorso, e non potendo essere annullato dal giudice ordinario, di talché il giudice del lavoro potrebbe fornire solo quei rimedi che siano compatibili con il provvedimento generale presupposto. Nella specie, non essendovi più le posizioni dirigenziali rivestite dai ricorrenti, non sarebbe possibile disporre la riassegnazione agli interessati delle precedenti mansioni dirigenziali, e non resterebbe che la tutela risarcitoria.

8.2. Vi è tuttavia da considerare che la legge non ha escluso l’operatività del meccanismo della disapplicazione dell’atto organizzativo illegittimo nei casi in cui, come nella specie, l’atto di gestione del rapporto di lavoro sia meramente applicativo di esso; risulta quindi “insito nel sistema” che il provvedimento di macro organizzazione (non sottoposto ad annullamento) da un lato rimanga operativo in via generale, e, dall’altro, essendo privato di effetti nei confronti del dipendente interessato, non valga a sorreggere l’atto di gestione consequenziale, comportando il pieno ripristino della situazione precedente, non potendosi ipotizzare una disapplicazione “dimidiata”, ristretta al solo aspetto risarcitorio.

Nel caso in esame, l’attribuzione del solo risarcimento non costituirebbe effettiva “disapplicazione” dell’illegittimo provvedimento presupposto, perché questo continuerebbe a giustificare la revoca dell’incarico dirigenziale e i conseguenti provvedimenti che sono culminati, per quanto riguarda il F., con il licenziamento a seguito del decorso dei ventiquattro mesi di collocazione in disponibilità.

Invero, in tal caso, la situazione che si viene a creare non sembra dissimile rispetto a quanto avviene nel lavoro privato, in relazione alle pronunzie di reintegra nel posto di lavoro conseguenti a sentenze che ravvisino la illegittimità del licenziamento e che intervengano a distanza di tempo: anche in questi casi la posizione lavorativa, il reparto, le funzioni precedentemente svolte possono non esistere più, eppure non per questo si è mai ritenuto di negare la pronunzia di reintegra nel posto di lavoro, giacché una cosa è il tipo di provvedimento che il giudice può emettere, altra cosa è la sua idoneità ad essere eseguito in forma specifica. Si tratta invero dei consueti limiti che incontra la tutela del lavoratore e che attengono non già al giudizio di cognizione ma alla fase esecutiva, in cui peraltro non può escludersi l’adempimento spontaneo da parte del datore. D’altra parte, ai sensi del secondo comma dell’art. 63 d.lgs. 165/2001 il giudice adotta, nei confronti delle PA, tutti i provvedimenti di accertamento, costitutivi e di condanna ritenuti necessari e, precisa la disposizione, che siano richiesti dalla natura dei “diritti” tutelati, e non vi è dubbio che il dipendente vanti un diritto soggettivo, di talché è consentito condannare la PA ad un facere a seguito della disapplicazione. Precisandosi che, in ogni caso, la riassegnazione è limitata alla durata residua di cui all’atto di attribuzione originario, dedotto il periodo di illegittima sottrazione.

8.3 Quanto poi alle conseguenze che si determinano sul piano del rapporto di lavoro, il conferimento dell’incarico dirigenziale determina (accanto al rapporto fondamentale a tempo indeterminato, secondo il cd. sistema “binario”) l’instaurazione di contratto a tempo determinato, il quale, ai sensi dell’art. 2119 cod. civ., è passibile di recesso prima della scadenza solo per giusta causa, che nella specie fu indicata dal Comune come dovuta al provvedimento di soppressione delle posizioni dirigenziali, il quale però, essendo contra legem, non può valere come giustificazione. La norma codicistica citata non precisa le conseguenze che si determinano sul rapporto di lavoro a tempo determinato in caso in cui il recesso ante tempus non sia assistito dalla giusta causa, tuttavia, a fronte dell’inadempimento datoriale, i dirigenti ben potevano chiedere, in forza dell’art. 1453 cod. civ., la condanna dell’Amministrazione all’adempimento, per cui, una volta ritenuta illegittima la revoca, riacquista efficacia l’originario provvedimento di conferimento dell’incarico dirigenziale. Infatti, a seguito di questo, la posizione del dirigente aveva ormai acquisito lo spessore del diritto soggettivo allo svolgimento, non più di un qualsiasi incarico dirigenziale, ma proprio di quello specifico che era stato attribuito.

Va ancora negato, sotto questo aspetto, il parallelismo tra dirigenti pubblici e dirigenti privati, giacché se è vero che a questi ultimi è negata la tutela ripristinatoria, è vero anche che per essi il rapporto è a tempo indeterminato, mentre l’incarico conferito al dirigente pubblico è esclusivamente temporaneo, di talché la pronunzia di ripristino ha in ogni caso effetti limitati, inevitabilmente circoscritti alla scadenza prefissata.

8.5 Si trae conferma della possibilità di riassegnazione dell’incarico dirigenziale illecitamente revocato dai principi enunciati in molteplici pronunzie della Corte Costituzionale in materia del cd. spoil system (Corte Cost. n. 233/2006, n. 104 del 2007, n. 103/2007) e quindi in casi che, benché innegabilmente diversi da quello in esame, fanno tuttavia comprendere i parametri entro i quali va collocata la tutela riservata al dirigente pubblico, in termini di effettività.

Nell’ultima pronunzia citata il Giudice delle leggi ha affermato che la prevista contrattualizzazione della dirigenza non implica che la pubblica amministrazione abbia la possibilità di recedere liberamente dal rapporto di ufficio e che quest’ultimo, sul quale si innesta il rapporto di servizio sottostante, pur se caratterizzato dalla temporaneità dell’incarico, deve essere connotato da specifiche garanzie, in modo tale da assicurare la tendenziale continuità dell’azione amministrativa e una chiara distinzione funzionale tra i compiti di indirizzo politico-amministrativo e quelli di gestione, affinché il dirigente possa esplicare la propria attività in conformità ai principi di imparzialità e di buon andamento dell’azione amministrativa ex art. 97 Costituzione. Ha aggiunto la Corte che, a regime, la revoca delle funzioni legittimamente conferite ai dirigenti può essere conseguenza solo di una accertata responsabilità dirigenziale, in presenza di determinati presupposti ed all’esito di un procedimento di garanzia puntualmente disciplinato.

Inoltre, con la sentenza n. 381 del 2008, la medesima Corte ha dichiarato la illegittimità costituzionale della legge delle Regione Lazio n. 8 del 2007, con la quale, in caso di decadenza dalla carica conseguente a pronunzie della Corte Costituzionale, si dava alla Giunta regionale la facoltà alternativa o di procedere al reintegro nelle cariche, con ripristino dei relativi rapporti di lavoro, oppure di procedere ad un’offerta di equo indennizzo. In detta pronunzia la Corte ha affermato che in questi casi “forme di riparazione economica, quali, ad esempio, il risarcimento del danno o le indennità riconosciute dalla disciplina privatistica in favore del lavoratore ingiustificatamente licenziato, non possono rappresentare, nel settore pubblico, strumenti efficaci di tutela lesi da atti illegittimi di rimozione di dirigenti amministrativi…”.

Inoltre, con la sentenza n. 3929 del 20 febbraio 2007 questa Corte ha affermato che “dichiarato nullo e inefficace il licenziamento di un dirigente comunale per motivi disciplinari inerenti alla responsabilità dirigenziale, il dirigente stesso ha diritto alla reintegrazione nel rapporto di impiego e nel rapporto di incarico, oltre che alle retribuzioni sino all’effettiva reintegrazione.”.

9. Resta da affermare che anche il D., pur avendo reperito, durante il periodo di collocazione in disponibilità un altro incarico dirigenziale, ha ugualmente interesse alla pronunzia, al pari di quanto avviene per il dipendente privato illecitamente licenziato che chieda la tutela giudiziale, pur avendo reperito nelle more un’altra occupazione.

10. La sentenza impugnata in questi punti della controversia va quindi cassata, affermandosi il seguente principio di diritto: “in caso di illegittimità, per contrarietà alla legge, del provvedimento di riforma della pianta organica di un comune, con soppressione delle posizioni dirigenziali, questo deve essere disapplicato dal giudice ordinario, con conseguente perdita di effetti dei successivi atti di gestione del rapporto di lavoro, costituiti dalla revoca dell’incarico dirigenziale, non sussistendo la giusta causa per il recesso ante tempus dal contratto a tempo determinato che sorge a seguito del relativo conferimento, con diritto del dirigente alla riassegnazione di tale incarico precedentemente revocato, per il tempo residuo di durata, detratto il periodo di illegittima revoca.”.

11. Il F. con il sesto mezzo, che corrisponde al quarto mezzo del D., denunzia violazione dell’art. 2059 cod. civ. e degli articoli 1, 2, 3, 4, 35, 97 e 98 Costituzione, nonché degli artt. 115 e 116 cpc e 185 cp per avere, il giudice dell’appello, rigettato la domanda di condanna al risarcimento dei danni morali per mancanza di reato, trattandosi di diritti inviolabili della persona.

Con il settimo mezzo il F. e con il quinto il D. denunziano ancora violazione dell’art. 2059 cod. civ. in relazione all’art. 323 c.p. nonché degli artt. 1374 e 1375 cod. civ. per avere escluso la sentenza impugnata l’ipotesi di reato di abuso d’ufficio a danno di essi ricorrenti e difetto di motivazione.

Con l’ottavo motivo il F. denunzia difetto di motivazione in relazione al mancato accoglimento del risarcimento del danno esistenziale.

Questi ultimi motivi, che per la loro connessione vanno trattati congiuntamente, non sono fondati.

Le Sezioni unite di questa Corte, con la sentenza n. 26972 dell’11 novembre 2008 si sono espresse sulla risarcibilità del danno morale ex art. 2059 cod. civ. La pronunzia ha ribadito che il danno non patrimoniale è risarcibile nei soli casi previsti dalla legge, i quali si dividono in due gruppi: le ipotesi in cui la risarcibilità è prevista in modo espresso (fatto illecito integrante reato) e quello in cui la risarcibilità, pur non essendo prevista da norma di legge ad hoc, deve ammettersi sulla base di una interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 cod. civ., per avere il fatto illecito vulnerato in modo grave un diritto della persona direttamente tutelato dalla legge. Nella medesima sentenza è stato aggiunto che il danno non patrimoniale costituisce una categoria ampia ed onnicomprensiva, all’interno della quale non è possibile ritagliare ulteriori sotto categorie. Pertanto il c.d. danno esistenziale, inteso quale “il pregiudizio alle attività non remunerative della persona” causato dal fatto illecito lesivo di un diritto costituzionalmente garantito, costituisce solo un ordinario danno non patrimoniale, che non può essere liquidato separatamente sol perché diversamente denominato.

Ciò vale a rigettare l’ultimo motivo di ricorso del F., non avendo il danno esistenziale richiesto una valenza autonoma e quindi non essendo cumulabile in relazione al danno morale.

Infine per quanto attiene alla prova del danno, le SS.UU. hanno ammesso che essa possa fornirsi anche per presunzioni semplici, fermo restando però l’onere del danneggiato di allegare gli elementi di fatto da cui desumere l’esistenza e l’entità del pregiudizio.

Applicando detti principi nella fattispecie in esame, si deve concludere che, anche volendo riconoscere il diritto al risarcimento dei danni morali, i motivi vanno rigettati per l’assorbente ragione che, essendosi le censure concentrate esclusivamente sulla questione della risarcibilità, nessuna allegazione in fatto è stata effettuata sulla esistenza del pregiudizio, né si è lamentato la mancata valutazione, da parte della Corte territoriale, di elementi in fatto dedotti nei gradi di merito e non valutati. Il danno, infatti, non è “in re ipsa” (nello stesso senso Cass. SU n. 6572 del 24 marzo 2006), ma va dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento, assumendo peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni, per cui dalla complessiva valutazione di precisi elementi, che solo dall’interessato possono essere dedotti, si possa, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all’esistenza del danno, facendo ricorso, ai sensi dell’art. 115 cod. proc. civ., a quelle nozioni generali derivanti dall’esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella valutazione delle prove.

Vanno quindi affermati i seguenti principi di diritto: “Il danno c.d. esistenziale, non costituendo una categoria autonoma di pregiudizio, ma rientrando nel danno morale, non può essere liquidato separatamente solo perché diversamente denominato. Il diritto al risarcimento del danno morale, in tutti i casi in cui è ritenuto risarcibile, non può prescindere dalla allegazione da parte del richiedente, degli elementi di fatto dai quali desumere l’esistenza e l’entità del pregiudizio.”.

Conclusivamente, va affermata la giurisdizione del giudice ordinario, vanno integralmente rigettati entrambi i ricorsi proposti dal Comune di Limbiate (quello principale nei confronti del D. e quello incidentale nei confronti del F.). Vanno accolti i primi cinque motivi del ricorso principale del F. e i primi tre motivi del ricorso incidentale del D., mentre vanno rigettati tutti gli altri motivi proposti da entrambe le parti private.

La sentenza impugnata va cassata in relazione ai motivi accolti, con rinvio ad altro Giudice, che si designa nella Corte d’appello di Milano, in diversa composizione, la quale deciderà la causa attenendosi ai principi sopra illustrati, provvedendo anche alla decisione sulle ulteriori pretese economiche del F. di cui al quarto motivo, in relazione al diritto alle retribuzioni fino alla effettiva riammissione in servizio. Il Giudice del rinvio provvederà anche per le spese del presente giudizio.

P.Q.M.

La Corte riunisce i quattro ricorsi. Dichiara la giurisdizione dell’AGO e rigetta integralmente il ricorso principale proposto dal Comune nei confronti del D. e quello incidentale proposto nei confronti del F.. Accoglie i primi tre motivi del ricorso incidentale del D. ed i primi cinque motivi del ricorso principale del F., rigetta tutti gli altri; cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia, anche per le spese, alla Corte d’appello di Milano in diversa composizione.

Cassazione civile, sez. I, sentenza 28.05.2009 n. 12670 Cognome, filiazione, diritto al nome (2009-06-11)

La Sezione I

Svolgimento del processo

Con decreto del 23.05.2006, il Tribunale per i minorenni di Firenze disponeva, ai sensi dell’art. 262, comma secondo, c.c., che la minore G., nata il omissis, figlia di A. A. e di A. P., i quali l’avevano riconosciuta in tempi diversi, ossia la madre il omissis ed il padre il omissis, assumesse il cognome paterno, sostituendolo a quello materno.

Con decreto del 28.02-13.03.2007, la Corte di appello di Firenze, sezione per i minorenni, accoglieva il reclamo dell’A. e, in riforma dell’impugnato provvedimento, disponeva l’assunzione da parte della minore anche del cognome materno da anteporre a quello paterno, così da chiamarsi G. A. P.. La Corte distrettuale osservava e riteneva, tra l’altro:

– che il Tribunale, preso anche atto delle dichiarazioni dei genitori, aveva “tenuto conto della più che tenera età della bambina nonché del rapporto della stessa con il padre”

– che la reclamante aveva chiesto che la figlia assumesse pure il suo cognome anteponendolo a quello paterno, ribadendo anche che il P. non aveva condiviso il suo fermo desiderio di portare a termine la gravidanza, era scomparso per alcuni mesi (tre o quattro) e che la bambina era sempre vissuta con lei nella casa dei nonni materni, portando il cognome A., con cui era stata identificata e conosciuta nell’ambente di vita

– che il P. aveva chiesto la conferma del provvedimento reclamato, sottolineando anche che con l’A. vi era stato un breve legame sentimentale tra l’aprile ed il maggio del omissis, interrotto dopo alcune settimane; che in effetti, dopo avere appreso della gravidanza e della decisione di portarla a termine, autonomamente assunta dalla medesima A., aveva avuto un atteggiamento di sincero sbandamento e difficoltà, superato dopo circa due mesi, quando aveva deciso di assumersi le sue responsabilità; che da allora in poi era rimasto sempre e costantemente vicino alla madre ed alla bambina, al mantenimento della quale contribuiva; che, ai fini dell’attribuzione del cognome materno, la più che tenera età della figlia rendeva non pertinenti i riferimenti all’ambiente di vita; che conduceva una vita seria e dignitosa e che era cosa consueta che i figli portassero il cognome paterno

– che in occasione del riconoscimento della figlia da parte del padre, entrambe le parti avevano espresso “di comune accordo” la preferenza per l’attribuzione alla loro figlia del cognome paterno in aggiunta a quello materno

– che dagli atti del procedimento svoltosi innanzi al Tribunale per i minorenni e dalle dichiarazioni ivi rese dalle medesime partii emergeva, oltre al fatto che l’A. ed il P. intrattenevano rapporti civili e che quest’ultimo svolgeva adeguatamente il suo ruolo di padre, che non intendevano contrarre matrimonio o, comunque, instaurare tra loro una convivenza stabile e duratura

– che, dunque, fosse allo stato perfettamente legittimo e doveroso presumere che la bambina, pur con l’insostituibile supporto affettivo del padre, determinato a non sottrarsi ai propri doveri, anche di carattere economico, avrebbe trascorso le fasi della formazione e della crescita, quanto meno con più che larga prevalenza, presso la madre e la famiglia materna

– che, quindi, fosse da ritenere con evidenza corrispondente all’interesse della minore assumere il cognome materno e, in aggiunta a questo, quello del padre, ciò consentendo in concreto di meglio stabilirne e tutelarne l’identità personale in relazione all’ambiente familiare e sociale di vita

– che, pertanto, il reclamo doveva essere accolto, sull’ulteriore rilievo che la consuetudine di privilegiare l’assunzione esclusivamente del cognome paterno doveva cedere al regolamento normativo di cui all’art. 262 c.c..

Questo decreto è stato impugnato dal P. sulla base di un unico motivo, con ricorso notificato il 28.04.2008 sia agli eredi dell’A., deceduta il omissis, e sia al curatore speciale della minore Avv.to M. G. F., che è stato nominato ad iniziativa del ricorrente e che ha resistito con controricorso notificato a mezzo posta il 30.05-3.06.2008, conclusivamente chiedendo la conservazione del doppio cognome nel senso disposto dai giudici d’appello e, comunque, prestando il proprio assenso a tale soluzione.

Motivi della decisione

Con il ricorso il P. denunzia “Violazione dell’art. 262 c.c. (in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c.) nonché omessa o insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (in relazione all’art. 360 n. 5 c.p.c.)” e conclusivamente formula il quesito di diritto ed indica fatti e ragioni delle sue doglianze, in ossequio al disposto dell’art. 366 bis c.p.c..

Il ricorrente sostiene in sintesi:

– che i giudici di merito non hanno correttamente inteso il senso precettivo della rubricata disposizione normativa ed obliterato la relativa interpretazione che evidenzia il favor per il patronimico

– che si è erroneamente valorizzato sia il fatto che in occasione del riconoscimento paterno entrambe le parti avevano espresso “di comune accordo” la preferenza per l’attribuzione del cognome del padre in aggiunta a quello materno e sia che le stesse non intendevano contrarre matrimonio o, comunque, instaurare una convivenza familiare stabile e duratura, dovendosi escludere che sia la prima che la seconda circostanza potessero assurgere ad indici rivelatori dell’interesse della minore, il quale deve costituire criterio esclusivo di giudizio

– che la decisione giudiziaria deve totalmente prescindere dalla scelta dei genitori del minore

– che occorre tendenzialmente assicurare l’equiparazione di trattamento tra figli legittimi e naturali, contemperandola con la tutela del cognome quale elemento identificativo della persona, in ossequio a regole di rilievo costituzionale

– che ai fini di un’eventuale decisione di segno contrario all’assunzione del solo cognome paterno, il giudice deve sostanzialmente riferirsi a due aspetti, ossia all’eventuale acquisizione da parte del minore di una precisa identità per il tramite del cognome materno o al pregiudizio eventualmente conseguente all’assunzione del cognome del padre, legato alla personalità di questo

– che le regole impedienti l’attribuzione del patronimico devono a maggior valore presiedere all’attribuzione del doppio cognome, che pone il figlio nei rapporti familiari e sociali in posizione differenziata e deteriore

– che sussiste un indubbio favor per l’attribuzione del cognome paterno, idonea a rendere indistinguibile la situazione del figlio naturale rispetto a quella del figlio legittimo, ragione per cui il giudice può optare per il doppio cognome solo se in concreto ciò corrisponda all’interesse del minore, avuto riguardo al diritto all’identità personale dello stesso

– che contraria ai criteri valutativi dell’interesse del minore è anche l’opinione secondo cui il cognome del figlio deve rispecchiare il prevalente suo collocamento presso l’uno o l’altro dei genitori, che poco ha a vedere con la sua identità personale e che, comunque, costituisce situazione suscettibile di modificazione.

Il ricorso non ha pregio.

I commi secondo e terzo dell’art. 262 cod. civ. prevedono che nell’ipotesi di riconoscimento paterno della filiazione successivo a quello materno, il figlio possa assumere il cognome del padre aggiungendolo o sostituendolo a quello della madre, e demanda al giudice, nel caso di minore età del figlio, la relativa decisione.

Nel caso, previsto dall’art. 262, comma terzo, cod. civ., di attribuzione giudiziale del cognome al figlio naturale riconosciuto non contestualmente dai genitori, il giudice è investito del potere-dovere di decidere su ognuna delle soluzioni in detta disposizione previste, avendo riguardo all’unico criterio di riferimento dell’interesse del minore e con esclusione di qualsiasi automaticità nell’attribuzione del cognome, pure in ordine all’assunzione del patronimico (Cass. 200802751; 200716989; 200612641).

Poiché i criteri di individuazione del cognome del minore si pongono in funzione esclusiva del suo interesse, che è essenzialmente quello di evitare un danno alla sua identità personale, intesa anche come proiezione della sua personalità sociale, e poiché l’art. 262 c.c. disciplina autonomamente e compiutamente la materia, la scelta del giudice non può essere condizionata né dal favor per il patronimico né dall’esigenza di equiparare almeno tendenzialmente il risultato a quello derivante dalle diverse regole, non richiamate dal citato articolo, che presiedono all’attribuzione del cognome al figlio legittimo o legittimato (art. 33 del D.P.R. n. 396 del 2000), delle quali, peraltro, sono stati già evidenziati profili di non aderenza al dettato costituzionale ed alle norme sovranazionali (cfr., da ultimo Corte Cost. 200600061; Cass., ord., 200823934), prima che d’inattualità rispetto al comune sentire.

L’art. 262, comma terzo, cod. civ. affida, dunque, al giudice una valutazione ampiamente discrezionale, da condurre non secondo schemi predeterminati e casistiche limitanti ma con riguardo a qualsiasi aspetto che possa influire sull’apprezzamento dell’interesse del minore, in rapporto alle due previste e diverse ipotesi dell’accertamento giudiziale e del riconoscimento della filiazione, valutazione che si sottrae al sindacato di legittimità se sorretta da congrua e logica motivazione, motivazione che nella specie è rivisitabile in questa sede, ratione temporis (art. 360, comma quarto, c.p.c., art. 27, comma 2, D.Lgs. n. 40 del 2006. Sul punto, cfr. Cass. 200715953).

Alla luce degli esposti rilievi la conclusione dei giudici di merito, secondo cui l’interesse della minore appariva garantito dall’assunzione del cognome paterno in aggiunta a quello originario materno, appare aderente al dettato normativo ed irreprensibile anche per il profilo motivazionale.

Ai fini del mantenimento del cognome materno, assunto per primo, è stato giustamente valorizzato anche il profilo esistenziale della minore e segnatamente il suo duplice contesto di vita, onde pure assicurare l’aderenza del segno di identificazione ai tratti della sua personalità sociale in formazione, e, quindi, a giusto presidio del diritto della bambina ad assumere il cognome che più plausibilmente la faccia apparire come sé medesima. Né su tale valutazione di merito può influire in questa sede la sopravvenienza costituita dalla morte di A. A., dal momento che lo stesso ricorrente conferma che sino all’attualità tale evento non ha modificato il pregresso contesto di vita della figlia.

D’altro canto, mero valore rafforzativo appare avere assunto il rilievo sia della corrispondenza della decisione con l’iniziale condiviso desiderio dei genitori e sia della mancanza d’intenti coniugali fra l’A. ed il P..

Conclusivamente a fronte del quesito di diritto formulato dal ricorrente e del seguente tenore : “Se il giudice chiamato a decidere circa l’assunzione del cognome paterno da parte del figlio naturale minore, riconosciuto dalla madre e successivamente dal padre naturale, possa disattendere l’istanza di attribuzione del cognome paterno e l’assunzione del doppio cognome, con anteposizione di quello materno rispetto a quello paterno, malgrado ciò importi un trattamento differenzialo rispetto al figlio legittimo, quand’anche non sussistano comprovati motivi che ostino all’assunzione del solo cognome paterno, quali la maturazione di una precisa ed infungibile identità individuale e sociale da parte del minore per essere cresciuto nella cerchia sociale con il cognome materno o il grave comportamento del padre, idonei ad arrecargli pregiudizio” vanno affermati i seguenti principi di diritto:

a) «Nel caso di attribuzione giudiziale del cognome al figlio naturale riconosciuto non contestualmente dai genitori, il giudice è investito dall’art. 262, comma terzo, cod. civ. del potere-dovere di prendere in esame ognuna delle soluzioni in detta disposizione previste, avendo riguardo all’unico criterio di riferimento dell’interesse del minore e con esclusione di qualsiasi automaticità nell’attribuzione del cognome, pure in ordine all’assunzione del patronimico.»

b) «L’art. 262, comma terzo, cod. civ. affida al giudice una valutazione ampiamente discrezionale, da condurre non secondo schemi predeterminati e casistiche limitanti, ma con riguardo a qualsiasi aspetto che possa influire sull’apprezzamento dell’interesse del minore, in rapporto alle due previste e diverse ipotesi dell’accertamento giudiziale e del riconoscimento della filiazione, valutazione che si sottrae al sindacato di legittimità se sorretta da congrua e logica motivazione»

c) « In tema di attribuzione giudiziale del cognome al figlio naturale riconosciuto non contestualmente dai genitori, poiché i criteri di individuazione del cognome del minore si pongono in funzione esclusiva del suo interesse, che è essenzialmente quello di evitare un danno alla sua identità personale, intesa anche come proiezione della sua personalità sociale, e poiché l’art. 262 cod. civ. disciplina autonomamente e compiutamente la materia, la scelta del giudice non può essere condizionala né dal favor per il patronimico né dall’esigenza di equiparare, almeno tendenzialmente, il risultato a quello derivante dalle diverse regole, non richiamate dal citato articolo, che presiedono all’attribuzione del cognome al figlio legittimo».

Pertanto il ricorso deve essere respinto, con conseguente condanna del P., soccombente, al pagamento, in favore del controricorrente curatore speciale della minore, delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il P. al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in complessivi euro 2,700,00, di cui euro 2.500,00 per onorario, oltre alle spese generali ed agli accessori come per legge.