Cassazione civile, sez. I, sentenza 28.05.2009 n. 12670 Cognome, filiazione, diritto al nome (2009-06-11)

La Sezione I

Svolgimento del processo

Con decreto del 23.05.2006, il Tribunale per i minorenni di Firenze disponeva, ai sensi dell’art. 262, comma secondo, c.c., che la minore G., nata il omissis, figlia di A. A. e di A. P., i quali l’avevano riconosciuta in tempi diversi, ossia la madre il omissis ed il padre il omissis, assumesse il cognome paterno, sostituendolo a quello materno.

Con decreto del 28.02-13.03.2007, la Corte di appello di Firenze, sezione per i minorenni, accoglieva il reclamo dell’A. e, in riforma dell’impugnato provvedimento, disponeva l’assunzione da parte della minore anche del cognome materno da anteporre a quello paterno, così da chiamarsi G. A. P.. La Corte distrettuale osservava e riteneva, tra l’altro:

– che il Tribunale, preso anche atto delle dichiarazioni dei genitori, aveva “tenuto conto della più che tenera età della bambina nonché del rapporto della stessa con il padre”

– che la reclamante aveva chiesto che la figlia assumesse pure il suo cognome anteponendolo a quello paterno, ribadendo anche che il P. non aveva condiviso il suo fermo desiderio di portare a termine la gravidanza, era scomparso per alcuni mesi (tre o quattro) e che la bambina era sempre vissuta con lei nella casa dei nonni materni, portando il cognome A., con cui era stata identificata e conosciuta nell’ambente di vita

– che il P. aveva chiesto la conferma del provvedimento reclamato, sottolineando anche che con l’A. vi era stato un breve legame sentimentale tra l’aprile ed il maggio del omissis, interrotto dopo alcune settimane; che in effetti, dopo avere appreso della gravidanza e della decisione di portarla a termine, autonomamente assunta dalla medesima A., aveva avuto un atteggiamento di sincero sbandamento e difficoltà, superato dopo circa due mesi, quando aveva deciso di assumersi le sue responsabilità; che da allora in poi era rimasto sempre e costantemente vicino alla madre ed alla bambina, al mantenimento della quale contribuiva; che, ai fini dell’attribuzione del cognome materno, la più che tenera età della figlia rendeva non pertinenti i riferimenti all’ambiente di vita; che conduceva una vita seria e dignitosa e che era cosa consueta che i figli portassero il cognome paterno

– che in occasione del riconoscimento della figlia da parte del padre, entrambe le parti avevano espresso “di comune accordo” la preferenza per l’attribuzione alla loro figlia del cognome paterno in aggiunta a quello materno

– che dagli atti del procedimento svoltosi innanzi al Tribunale per i minorenni e dalle dichiarazioni ivi rese dalle medesime partii emergeva, oltre al fatto che l’A. ed il P. intrattenevano rapporti civili e che quest’ultimo svolgeva adeguatamente il suo ruolo di padre, che non intendevano contrarre matrimonio o, comunque, instaurare tra loro una convivenza stabile e duratura

– che, dunque, fosse allo stato perfettamente legittimo e doveroso presumere che la bambina, pur con l’insostituibile supporto affettivo del padre, determinato a non sottrarsi ai propri doveri, anche di carattere economico, avrebbe trascorso le fasi della formazione e della crescita, quanto meno con più che larga prevalenza, presso la madre e la famiglia materna

– che, quindi, fosse da ritenere con evidenza corrispondente all’interesse della minore assumere il cognome materno e, in aggiunta a questo, quello del padre, ciò consentendo in concreto di meglio stabilirne e tutelarne l’identità personale in relazione all’ambiente familiare e sociale di vita

– che, pertanto, il reclamo doveva essere accolto, sull’ulteriore rilievo che la consuetudine di privilegiare l’assunzione esclusivamente del cognome paterno doveva cedere al regolamento normativo di cui all’art. 262 c.c..

Questo decreto è stato impugnato dal P. sulla base di un unico motivo, con ricorso notificato il 28.04.2008 sia agli eredi dell’A., deceduta il omissis, e sia al curatore speciale della minore Avv.to M. G. F., che è stato nominato ad iniziativa del ricorrente e che ha resistito con controricorso notificato a mezzo posta il 30.05-3.06.2008, conclusivamente chiedendo la conservazione del doppio cognome nel senso disposto dai giudici d’appello e, comunque, prestando il proprio assenso a tale soluzione.

Motivi della decisione

Con il ricorso il P. denunzia “Violazione dell’art. 262 c.c. (in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c.) nonché omessa o insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (in relazione all’art. 360 n. 5 c.p.c.)” e conclusivamente formula il quesito di diritto ed indica fatti e ragioni delle sue doglianze, in ossequio al disposto dell’art. 366 bis c.p.c..

Il ricorrente sostiene in sintesi:

– che i giudici di merito non hanno correttamente inteso il senso precettivo della rubricata disposizione normativa ed obliterato la relativa interpretazione che evidenzia il favor per il patronimico

– che si è erroneamente valorizzato sia il fatto che in occasione del riconoscimento paterno entrambe le parti avevano espresso “di comune accordo” la preferenza per l’attribuzione del cognome del padre in aggiunta a quello materno e sia che le stesse non intendevano contrarre matrimonio o, comunque, instaurare una convivenza familiare stabile e duratura, dovendosi escludere che sia la prima che la seconda circostanza potessero assurgere ad indici rivelatori dell’interesse della minore, il quale deve costituire criterio esclusivo di giudizio

– che la decisione giudiziaria deve totalmente prescindere dalla scelta dei genitori del minore

– che occorre tendenzialmente assicurare l’equiparazione di trattamento tra figli legittimi e naturali, contemperandola con la tutela del cognome quale elemento identificativo della persona, in ossequio a regole di rilievo costituzionale

– che ai fini di un’eventuale decisione di segno contrario all’assunzione del solo cognome paterno, il giudice deve sostanzialmente riferirsi a due aspetti, ossia all’eventuale acquisizione da parte del minore di una precisa identità per il tramite del cognome materno o al pregiudizio eventualmente conseguente all’assunzione del cognome del padre, legato alla personalità di questo

– che le regole impedienti l’attribuzione del patronimico devono a maggior valore presiedere all’attribuzione del doppio cognome, che pone il figlio nei rapporti familiari e sociali in posizione differenziata e deteriore

– che sussiste un indubbio favor per l’attribuzione del cognome paterno, idonea a rendere indistinguibile la situazione del figlio naturale rispetto a quella del figlio legittimo, ragione per cui il giudice può optare per il doppio cognome solo se in concreto ciò corrisponda all’interesse del minore, avuto riguardo al diritto all’identità personale dello stesso

– che contraria ai criteri valutativi dell’interesse del minore è anche l’opinione secondo cui il cognome del figlio deve rispecchiare il prevalente suo collocamento presso l’uno o l’altro dei genitori, che poco ha a vedere con la sua identità personale e che, comunque, costituisce situazione suscettibile di modificazione.

Il ricorso non ha pregio.

I commi secondo e terzo dell’art. 262 cod. civ. prevedono che nell’ipotesi di riconoscimento paterno della filiazione successivo a quello materno, il figlio possa assumere il cognome del padre aggiungendolo o sostituendolo a quello della madre, e demanda al giudice, nel caso di minore età del figlio, la relativa decisione.

Nel caso, previsto dall’art. 262, comma terzo, cod. civ., di attribuzione giudiziale del cognome al figlio naturale riconosciuto non contestualmente dai genitori, il giudice è investito del potere-dovere di decidere su ognuna delle soluzioni in detta disposizione previste, avendo riguardo all’unico criterio di riferimento dell’interesse del minore e con esclusione di qualsiasi automaticità nell’attribuzione del cognome, pure in ordine all’assunzione del patronimico (Cass. 200802751; 200716989; 200612641).

Poiché i criteri di individuazione del cognome del minore si pongono in funzione esclusiva del suo interesse, che è essenzialmente quello di evitare un danno alla sua identità personale, intesa anche come proiezione della sua personalità sociale, e poiché l’art. 262 c.c. disciplina autonomamente e compiutamente la materia, la scelta del giudice non può essere condizionata né dal favor per il patronimico né dall’esigenza di equiparare almeno tendenzialmente il risultato a quello derivante dalle diverse regole, non richiamate dal citato articolo, che presiedono all’attribuzione del cognome al figlio legittimo o legittimato (art. 33 del D.P.R. n. 396 del 2000), delle quali, peraltro, sono stati già evidenziati profili di non aderenza al dettato costituzionale ed alle norme sovranazionali (cfr., da ultimo Corte Cost. 200600061; Cass., ord., 200823934), prima che d’inattualità rispetto al comune sentire.

L’art. 262, comma terzo, cod. civ. affida, dunque, al giudice una valutazione ampiamente discrezionale, da condurre non secondo schemi predeterminati e casistiche limitanti ma con riguardo a qualsiasi aspetto che possa influire sull’apprezzamento dell’interesse del minore, in rapporto alle due previste e diverse ipotesi dell’accertamento giudiziale e del riconoscimento della filiazione, valutazione che si sottrae al sindacato di legittimità se sorretta da congrua e logica motivazione, motivazione che nella specie è rivisitabile in questa sede, ratione temporis (art. 360, comma quarto, c.p.c., art. 27, comma 2, D.Lgs. n. 40 del 2006. Sul punto, cfr. Cass. 200715953).

Alla luce degli esposti rilievi la conclusione dei giudici di merito, secondo cui l’interesse della minore appariva garantito dall’assunzione del cognome paterno in aggiunta a quello originario materno, appare aderente al dettato normativo ed irreprensibile anche per il profilo motivazionale.

Ai fini del mantenimento del cognome materno, assunto per primo, è stato giustamente valorizzato anche il profilo esistenziale della minore e segnatamente il suo duplice contesto di vita, onde pure assicurare l’aderenza del segno di identificazione ai tratti della sua personalità sociale in formazione, e, quindi, a giusto presidio del diritto della bambina ad assumere il cognome che più plausibilmente la faccia apparire come sé medesima. Né su tale valutazione di merito può influire in questa sede la sopravvenienza costituita dalla morte di A. A., dal momento che lo stesso ricorrente conferma che sino all’attualità tale evento non ha modificato il pregresso contesto di vita della figlia.

D’altro canto, mero valore rafforzativo appare avere assunto il rilievo sia della corrispondenza della decisione con l’iniziale condiviso desiderio dei genitori e sia della mancanza d’intenti coniugali fra l’A. ed il P..

Conclusivamente a fronte del quesito di diritto formulato dal ricorrente e del seguente tenore : “Se il giudice chiamato a decidere circa l’assunzione del cognome paterno da parte del figlio naturale minore, riconosciuto dalla madre e successivamente dal padre naturale, possa disattendere l’istanza di attribuzione del cognome paterno e l’assunzione del doppio cognome, con anteposizione di quello materno rispetto a quello paterno, malgrado ciò importi un trattamento differenzialo rispetto al figlio legittimo, quand’anche non sussistano comprovati motivi che ostino all’assunzione del solo cognome paterno, quali la maturazione di una precisa ed infungibile identità individuale e sociale da parte del minore per essere cresciuto nella cerchia sociale con il cognome materno o il grave comportamento del padre, idonei ad arrecargli pregiudizio” vanno affermati i seguenti principi di diritto:

a) «Nel caso di attribuzione giudiziale del cognome al figlio naturale riconosciuto non contestualmente dai genitori, il giudice è investito dall’art. 262, comma terzo, cod. civ. del potere-dovere di prendere in esame ognuna delle soluzioni in detta disposizione previste, avendo riguardo all’unico criterio di riferimento dell’interesse del minore e con esclusione di qualsiasi automaticità nell’attribuzione del cognome, pure in ordine all’assunzione del patronimico.»

b) «L’art. 262, comma terzo, cod. civ. affida al giudice una valutazione ampiamente discrezionale, da condurre non secondo schemi predeterminati e casistiche limitanti, ma con riguardo a qualsiasi aspetto che possa influire sull’apprezzamento dell’interesse del minore, in rapporto alle due previste e diverse ipotesi dell’accertamento giudiziale e del riconoscimento della filiazione, valutazione che si sottrae al sindacato di legittimità se sorretta da congrua e logica motivazione»

c) « In tema di attribuzione giudiziale del cognome al figlio naturale riconosciuto non contestualmente dai genitori, poiché i criteri di individuazione del cognome del minore si pongono in funzione esclusiva del suo interesse, che è essenzialmente quello di evitare un danno alla sua identità personale, intesa anche come proiezione della sua personalità sociale, e poiché l’art. 262 cod. civ. disciplina autonomamente e compiutamente la materia, la scelta del giudice non può essere condizionala né dal favor per il patronimico né dall’esigenza di equiparare, almeno tendenzialmente, il risultato a quello derivante dalle diverse regole, non richiamate dal citato articolo, che presiedono all’attribuzione del cognome al figlio legittimo».

Pertanto il ricorso deve essere respinto, con conseguente condanna del P., soccombente, al pagamento, in favore del controricorrente curatore speciale della minore, delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il P. al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in complessivi euro 2,700,00, di cui euro 2.500,00 per onorario, oltre alle spese generali ed agli accessori come per legge.

Cassazione civile, sez. lavoro, 27.05.2009 n. 12333 Lavoro, contratto indeterminato (2009-06-11)

La Sezione Lavoro

Svolgimento del processo

Con sentenza del 15.11.2001 il Tribunale del lavoro di Roma rigettava il ricorso con il quale M. M. aveva chiesto il riconoscimento di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato a far data dal 17.7.1995; l’accertamento dell’illegittimità del comportamento della … S.p.A., propria datrice di lavoro, consistente nel costringere i dipendenti a sottoscrivere periodicamente dei contratti a tempo, accertandone quindi l’inefficacia, nullità, annullabilità, illiceità e comunque l’inapplicabilità al rapporto dedotto; l’accertamento della nullità, annullabilità e illegittimità del licenziamento operato verbalmente dalla società in data 17.2.1998 e la continuità del rapporto di lavoro, mai cessato a quella data, con pronunzia di reintegra nel posto di lavoro e condanna della società a corrispondere le somme per differenze retributive, con rivalutazione ed interessi, oltre a lire 1.350.000 nette per premio di produzione anno 1993, oltre rivalutazione ed interessi.

Con atto depositato il 25.7.2002 il M. proponeva appello avverso detta sentenza, chiedendone la riforma con l’accoglimento della domanda proposta in primo grado. Parte appellata si costituiva per resistere e chiedeva il rigetto del gravame. Con sentenza dell’1 marzo-7 luglio 2005, l’adita Corte d’appello di Roma, ritenuta la nullità dei contratti a termine in questione dichiarava la sussistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato a far data dal 17 luglio 1995, con condanna della società – per quanto interessa ancora nella presente sede – al pagamento delle retribuzioni maturate dal momento di messa a disposizione delle energie lavorative da parte del dipendente, da identificarsi con il momento della notifica del ricorso introduttivo.

Per la cassazione di tale pronuncia ricorre la S.p.A. … con un unico motivo.

Resiste M. M. con controricorso, proponendo a sua volta ricorso incidentale.

Entrambe le parti hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c.

La società … ha anche presentato osservazioni scritte sulle conclusioni del P.G., ai sensi dell’art. 379, 4° comma, c.p.c.

Motivi della decisione

Va preliminarmente disposta la riunione del ricorso principale e di quello incidentale, trattandosi di impugnazioni avverso la medesima sentenza (art. 335 c.p.c).

Con l’unico motivo di ricorso principale, la società …, denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 99, 112 c.p.c., 1218 e ss. c.c., art. 18 l. n. 300/1970, illogica, violativa del principio di verità materiale, insufficiente e contraddittoria motivazione su fatto decisivo per il giudizio (art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c.), lamenta che, nonostante il M. abbia agito nell’ottica dell’art. 18 L. n. 300/2970, il Giudice d’appello abbia finito con l’accogliere una domanda mai formulata dal lavoratore, il quale nel corso dei due gradi di giudizi di merito non aveva mai posto a disposizione le proprie energie lavorative, né tantomeno aveva richiesto il risarcimento relativi danni.

Il motivo è infondato.

Invero, il Giudice d’appello, dopo aver ritenuto nulli i contratti a termine sottoscritti dalle parti e, pertanto, sussistente il rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a far data dal 17.7.1995, ha chiarito che non poteva trovare accoglimento la domanda formulata dal M. relativamente al licenziamento ed alla reintegra, considerato che la nullità dei contratti a termine con riconoscimento di rapporto a tempo indeterminato comportava il perdurare del rapporto stesso fino a valida risoluzione.

In coerenza con tale affermazione ha condannato la società al pagamento delle retribuzioni maturate dal momento di messa a disposizione delle energie lavorative da parte del dipendente, avvenuta, nella specie, con la notifica del ricorso introduttivo del giudizio.

Nella narrativa dell’atto, tuttavia, il Giudice a quo ha tenuto a puntualizzare che le richieste del M. erano spiegate come tutte basate sull’accertamento dell’illegittimità del comportamento della società consistente nel costringere i dipendenti a sottoscrivere periodicamente dei contratti a tempo, con accertamento, tra l’altro, della nullità e con riconoscimento di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato.

Da tali premesse sarebbe dovuto discendere – ad avviso del lavoratore – la reintegra nel posto di lavoro, con condanna della società alla corresponsione delle differenze retributive.

Orbene, interpretando la domanda, il Giudice d’appello ha individuato causa petendi e petitum, osservando che il M. aveva erroneamente chiesto la reintegra nel posto di lavoro, non conciliabile con le pregresse pretese ed, in particolare, con le avanzate differenze retributive conseguenti all’accertata nullità, da cui scaturivano le conseguenze economiche sopra specificate.

Va, a questo punto, rammentato, in conformità alla consolidata giurisprudenza di questa Corte regolatrice, che nella specie deve, ulteriormente, confermarsi, che la interpretazione della domanda giudiziale è operazione riservata al giudice del merito.

Il giudizio espresso al riguardo dal detto giudice, risolvendosi in un accertamento di fatto, non è censurabile in sede di legittimità quando sia motivato in maniera congrua e adeguata, avendo riguardo all’intero contesto dell’atto, senza che ne risulti alterato il senso letterale e tenendo conto della sua formulazione testuale nonché del contenuto sostanziale, in relazione alle finalità che la parte intende perseguire (v. Cass. 9 settembre 2008 n. 22893; Cass. 26 giugno 2007 n. 14751; Cass. 14 marzo 2006, n. 5491). Contemporaneamente, non può non ribadirsi, ulteriormente, che nell’indagine diretta alla individuazione e qualificazione della domanda giudiziale, il giudice di merito come di legittimità non è condizionato dalla formula adottata dalla parte, dovendo egli tener presente essenzialmente il contenuto sostanziale della pretesa, desumibile, oltre che dal tenore delle deduzioni svolte nell’atto introduttivo e nei successivi scritti difensivi, anche dallo scopo cui la parte mira con la sua richiesta (Cass. 9 settembre 2008 n. 22893, cit.; Cass. 6 aprile 2006, n. 8107; Cass. 14 marzo 2006, n. 5442).

Pacifici, in diritto, i principi sopra esposti si osserva che nella specie il Giudice del merito ha interpretato la domanda contenuta nell’atto introduttivo del giudizio di primo grado esaminando i fatti e motivando non in base alla qualificazione datane dall’interessato ma in base ai fatti stessi, escludendo, in maniera implicita ma non per questo poco chiara, che nel ricorso in appello erano stati indicati fatti nuovi.

Per le considerazioni che precedono non ritiene il Collegio che il Giudice di appello sia incorso nelle denunciate violazioni.

Quanto alla decorrenza dell’obbligo di pagare le retribuzioni, deve, in proposito, precisarsi che, intervenute a comporre il contrasto di giurisprudenza venutosi a determinare sulla questione se l’estromissione del lavoratore dall’organizzazione aziendale per scadenza di un termine illegittimamente apposto al contratto di lavoro fosse da equiparare a licenziamento ingiustificato, le sezioni unite della Corte (7471/1991) lo hanno composto escludendo la configurabilità di una fattispecie di recesso. Ciò perché, in linea generale – fatta eccezione per i casi di esternazione della volontà di troncare il rapporto nella consapevolezza della sua permanenza – datore di lavoro e lavoratore adeguano i loro comportamenti a quella che appare la regola del rapporto, senza esprimere perciò alcuna volontà diretta a produrre l’effetto estintivo, cosicché natura meramente ricognitiva è da attribuire all’eventuale comunicazione alla controparte della cessazione del rapporto da una certa data.

Esclusa la presenza di un negozio di recesso, l’azione del lavoratore diretta a far valere la continuità del rapporto non può introdurre un giudizio di impugnazione di un atto, ma ha natura di azione di mero accertamento dell’effettiva situazione giuridica derivante dalla nullità del termine, con la conseguente inesistenza di un onere di attivarsi entro un termine di decadenza, dettato con esclusivo riferimento alle ipotesi di licenziamento. Il medesimo lavoratore potrà inoltre far valere i diritti conseguenziali all’accertamento della permanenza in vita del rapporto: di eseguire la prestazione lavorativa riprendendo il suo posto; di ricevere le prestazioni patrimoniali.

In ordine a quest’ultimo profilo, cioè alle pretese economiche del lavoratore, si è avuto un altro intervento delle sezioni unite della Corte (2334/1991) che hanno chiarito come, in linea con i principi generali dei contratti sinallagmatici, l’obbligazione retributiva costituisca necessariamente (salve le specifiche eccezioni al principio contemplate dalla legge) il corrispettivo della prestazione di lavoro, cosicché, quando la prestazione manchi per causa imputabile al datore di lavoro, il lavoratore può ottenere soltanto il risarcimento del danno (in linea generale, nella misura corrispondente alla retribuzione) subito a causa dell’impossibilità della prestazione cagionata dal rifiuto ingiustificato del datore di lavoro, concretante inadempimento contrattuale ai sensi e per gli effetti dell’art. 1223 c.c. (a seguito dei ricordati interventi delle sezioni unite, la giurisprudenza della Corte ha fatto costante applicazione dei principi sopra enunciati: v., tra le tante, Cass. 5932/1998; 5821/2000; 14882/2000; 10782/2000; 12697/2001; 9962/2002: 17524/2002).

Donde la necessità, per ottenere il risarcimento, che il lavoratore si attivi per offrire l’esecuzione delle prestazioni, costituendo in mora il datore di lavoro nelle forme di cui all’art. 1217 c.c., ossia, “mediante l’intimazione di ricevere la prestazione o di compiere gli atti che sono da parte sua necessari per renderla possibile” o anche “nelle forme d’uso”.

Nella specie, la Corte di Appello, interpretando, ancora una volta, la domanda, ha correttamente identificato la messa in mora con il momento di messa a disposizione delle energie lavorative da parte del dipendente, avvenuta, nel caso in oggetto, con la notifica del ricorso introduttivo del giudizio; ritiene il Collegio che la censura mossa sul punto dalla società vada rigettata perché la relativa statuizione è conforme al diritto.

Né è di ostacolo a tale determinazione la pronuncia delle SS.UU. dell’8 ottobre 2002, n. 14381, seguita da altre successive, alla cui stregua la situazione di “mora accipiendi” del datore di lavoro non sarebbe integrata dalla domanda di annullamento del licenziamento con la richiesta di reintegrazione nel posto di lavoro, trattandosi di affermazione di per sé neutra, che prescinde dalla interpretazione, spettante al giudice di merito, volta ad attribuire alla richiesta di reintegrazione la disponibilità a riprendere lo svolgimento della propria attività lavorativa.

Per quanto precede il ricorso principale va rigettato, rimanendo assorbito l’incidentale proposto subordinatamente all’accoglimento del primo.

L’esito del giudizio induce a compensare le spese.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi; rigetta il ricorso principale e dichiara assorbito l’incidentale. Compensa le spese del presente giudizio

Cassazione civile -Sez. Lavoro- Sentenza n.9474/2009 Lavoro, salute, guarigione (2009-06-12)

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. Con ricorso depositato in data 4.12.2002, F. (omissis) conveniva dinanzi al Tribunale di Napoli la spa (omissis) ed esponeva di avere lavorato per la convenuta quale aiuto medico specialista in geriatria dal febbraio 1981, con rapporto di lavoro a tempo parziale di trenta ore settimanali; nel contempo, rivestiva la carica di direttore sanitario del Centro F. srl., fino al 28.4.2002, circostanza questa nota alla (omissis). Dopo un periodo di malattia (4.7.2000 – 2.1.2001) aveva ripreso servizio, ma in data 23.4.2002 aveva dovuto nuovamente assentarsi per l’insorgenza di coxoartrosi post-necrotica: pendente un ciclo riabilitativo consigliato in attesa di intervento chirurgico, la società gli contestava alcuni illeciti disciplinari; ricevuta la lettera di giustificazioni, lo licenziava per giusta causa. Egli impugnava il licenziamento e chiedeva la reintegra, in una col risarcimento del danno per avere riportato una crisi ansioso-depressiva a causa di tale licenziamento.

2. Previa costituzione ed opposizione della(omissis) spa, il Tribunale respingeva la domanda attrice. Proponeva appello l’attore e la Corte di Appello, previa costituzione della convenuta, riformava parzialmente la sentenza di primo grado, ordinando la reintegra del F. e la corresponsione delle retribuzioni medio tempore maturate; non riconosceva invece l’ulteriore danno richiesto dall’attore. Questa, in sintesi, la motivazione della sentenza di appello:

– altro giudizio tra le parti, inerente al riconoscimento di mansioni superiori, non ha rilevanza nella presente controversia;

– irrilevante è pure la mancata affissione del codice disciplinare, dato che le mancanze addebitate (simulazione dello stato di malattia, avere ritardato la guarigione, avere svolto attività concorrenziale) costituiscono mancanze inerenti ad ogni rapporto di lavoro e non tipiche dell’attività svolta dal datore di lavoro;

– lo stato invalidante è accertato dal giudice di primo grado e sul punto la sentenza è passata in giudicato;

– il F. è stato visto mentre, perdurante la malattia, guidava una motocicletta, si recava al mare e quindi si portava presso il Centro F. per prestare ivi la propria attività;

– viene addebitato all’attore di avere, con tali comportamenti, ritardato la guarigione, ma di ciò non vi è prova; la terapia in acqua era consigliata, non risulta che la guida della motocicletta sia incompatibile col processo di guarigione;

– l’attività presso il Centro F. era nota alla (omissis); essendo il F. assunto a tempo parziale; egli avrebbe potuto richiedere autorizzazione al riguardo, ma nella specie tale autorizzazione non era necessaria in ragione della consapevolezza della C. Center, dell’ampia tolleranza al riguardo esercitata ed infine al fatto che, se del caso, doveva essere contestata la mancata richiesta dell’autorizzazione e non la prestazione in sé;

– gli ulteriori danni non erano ricollegabili con nesso causale al licenziamento.

3. Ha proposto ricorso per Cassazione la (omissis) spa, deducendo tre motivi. Resiste con controricorso F. Francesco Maria. La ricorrente ha presentato memoria integrativa.

MOTIVI DELLA DECISIONE

4. Col primo motivo del ricorso, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione, a sensi dell’art. 360 n. 3 CPC., degli artt. 2697, 2730, 2909 Codice Civile, nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa punti decisivi della controversia, ex art. 360 n. 5 CPC: erroneamente la Corte di Appello ha ritenuto che si sia formato il giudicato interno sul punto inerente alla (insussistente) dimostrazione dello stato di malattia; infatti la parte convenuta, totalmente vittoriosa in primo grado, non aveva l’onere di proporre appello incidentale, ma poteva limitarsi a riproporre in appello la questione ritenuta assorbita. In ogni caso, l’attività ludica e non, espletata dall’attore durante la presunta malattia, doveva essere ritenuta idonea a dimostrare che il F. ben avrebbe potuto prestare il proprio lavoro anche presso la (omissis). Il fatto di avere guidato in più occasioni una moto di grossa cilindrata, di essersi recato al mare a prendere bagni; di avere guidato l’autovettura, di essersi recato presso il Centro F., doveva far ritenere sussistente, quanto meno, un’attività dell’attore in contrasto con gli obblighi di cura e riposo, in modo da non compromettere ulteriormente la guarigione.

5. Il motivo è fondato nei limiti di cui infra. Si premette che la parte totalmente vittoriosa in primo grado non ha l’onere di proporre appello incidentale, ma può limitarsi a riproporre una questione che il giudice di primo grado abbia ritenuto “assorbita”. Nella specie, il Tribunale ha respinto la tesi della simulazione dello stato di malattia, ma l’ha superata addebitando al lavoratore un comportamento comunque illegittimo. La questione non è stata specificamente riproposta in appello, tanto è vero che la ricorrente richiamava genericamente tutte le deduzioni svolte in primo grado. Devesi pertanto ritenere che lo stato di malattia sia coperto da giudicato.

6. La Corte di Appello ha però ritenuto che i vari comportamenti ascritti al F. non fossero in contrasto coi doveri del dipendente durante il periodo di malattia. Ha perciò ritenuto che il fatto di avere guidato una motocicletta, nonostante la coxo-artrosi dell’anca, di avere preso bagni di mare e di avere comunque prestato una (limitata) attività presso il Centro F. non fossero idonei a compromettere l’interesse del datore di lavoro ad una pronta guarigione del lavoratore. Quanto affermato dalla Corte di Appello appare in contrasto coi principi più volte affermati da questa Corte di Cassazione in ordine ai doveri del lavoratore durante la malattia. Si veda al riguardo Cass. 7.6.1995 n. 6399: “Lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente assente per malattia può giustificare il recesso del datore di lavoro, in relazione alla violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà ove tale attività esterna, prestata o meno a titolo oneroso, sia per sé sufficiente a far presumere l’inesistenza della malattia, dimostrando, quindi, una sua fraudolenta simulazione ovvero quando, valutata in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, l’attività stessa possa pregiudicare o ritardare la guarigione e il rientro in servizio del lavoratore.”.

7. Si veda ancora Cass. 1.7.2005 n. 14046: “Lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente assente per malattia può giustificare il recesso del datore di lavoro, in relazione alla violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà, oltre che nell’ipotesi in cui tale attività esterna sia per sé sufficiente a far presumere l’inesistenza della malattia, dimostrando, quindi, una fraudolenta simulazione, anche nel caso in cui la medesima attività, valutata con giudizio ex ante in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare la guarigione e il rientro in servizio, con conseguente irrilevanza della tempestiva ripresa del lavoro alla scadenza del periodo di malattia. (Nella specie, la sentenza di merito, confermata dalla S.C., aveva riconosciuto legittimo il licenziamento di un dipendente che era stato sorpreso a lavorare con mansioni di carico e scarico merci e servizio ai tavoli nel circolo ricreativo gestito dalla moglie durante un periodo di assenza dal servizio per distorsione al ginocchio).

7. Applicando i suddetti principi alla fattispecie in esame si ha che l’espletamento di altra attività lavorativa ed extralavorativa da parte del lavoratore durante lo stato di malattia è idonea a violare i doveri contrattuali di correttezza e buonafede nell’adempimento dell’obbligazione, posto che il fatto di guidare una moto di grossa cilindrata, di recarsi in spiaggia e di prestare una seconda attività lavorativa sono di per sé indici di una scarsa attenzione del lavoratore alla propria salute ed ai relativi doveri di cura e di non ritardata guarigione, oltreché dimostrativi del fatto che lo stato di malattia non è assoluto e non impedisce comunque l’espletamento di una attività ludica o lavorativa.

8. Con il secondo motivo del ricorso, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione, a sensi dell’art. 360 n. 3 CPC., degli artt. 1362 ss. Codice Civile, 2105 stesso codice in relazione agli artt. 14 e 30 del CCNL di settore; della Legge Regionale n. 377.1998 e vizio di motivazione: la Corte di Appello ha errato ritenendo che l’attività presso altro centro C.o fosse consentita, sulla base di una infondata interpretazione della norma contrattuale. La norma del CCNL, se intesa nel senso di autorizzare comunque un’attività in favore di terzi, è nulla per contrasto con l’art. 2105 citato; in ogni caso il F. doveva chiedere l’autorizzazione.

9. Il motivo è infondato. L’argomentazione secondo la quale la norma contrattuale sarebbe nulla per contrasto con norma imperativa è nuova ed inammissibile. In ogni caso, trattandosi di rapporto di lavoro part time, la prestazione di ulteriore attività part time presso altro centro medico non può essere ritenuta vietata tout court. Ma diversa è la ratio decidendi della Corte di Appello: muovendo dall’art. 30 del CCNL, essa ha ritenuto che non sussiste divieto di prestare la propria opera presso terzi in caso di lavoratori a tempo definito, essendo in tal caso sufficiente una richiesta di autorizzazione. Nella specie, come accerta la Corte di Appello, la C. Center era da tempo a conoscenza dell’ulteriore attività del F. – per circa dieci ore settimanali – e nulla aveva rilevato al proposito; circostanza questa tale da integrare gli estremi della tolleranza, ovvero da indurre a diversa e più tenue valutazione dell’infrazione nel giudizio di proporzionalità tra mancanza e sanzione. Il motivo si risolve quindi in una censura in fatto, inammissibile nel giudizio di legittimità, avendo la Corte di Appello giustificato il proprio convincimento sul punto con motivazione esauriente, immune da vizi logici o contraddizioni, talché essa si sottrae ad ogni censura in sede di legittimità

10. Col terzo motivo del ricorso, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione, a sensi dell’art. 360 n. 3 CPC, dell’art. 18 della Legge n. 300.1970 e vizio di motivazione, per avere la Corte di Appello condannato essa C. Center al versamento delle retribuzioni globali di fatto, senza tenere conto dell’aliunde perceptum in ragione del rapporto di lavoro presso il Centro F..

11. Il motivo è manifestamente infondato e va rigettato. Trattasi infatti di rapporto di lavoro part time, onde quanto percepito in conseguenza di una diversa attività lavorativa per un orario di lavoro ulteriore non costituisce aliunde perceptum rispetto all’orario praticato presso la C. Center. La ricorrente avrebbe dovuto allegare e dimostrare la sussistenza di una diversa fonte di guadagno, sostitutiva della retribuzione dovuta dalla convenuta.

12. La sentenza impugnata deve essere pertanto cassata limitatamente al primo motivo del ricorso, che viene accolto, ed il processo va rinviato alla Corte di Appello di Napoli in diversa composizione, anche per le statuizioni circa le spese. Il principio di diritto è quello indicato al par. n. 7 che precede.

P.Q.M.

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

accoglie il primo motivo del ricorso, rigetta il secondo e il terzo motivo; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le spese, alla Corte di Appello di Napoli in diversa composizione.

Così deciso in Roma, in camera di consiglio, il 24 febbraio 2009

IL PRESIDENTE

DOTT. GUGLIELMO SCIARELLI

IL CONSIGLIERE ESTENSORE

DOTT. VINCENZO DI NUBILA

Depositata in Cancelleria il 21 aprile 2009.

Cassazione civile, sez. III, sentenza 27.05.2009 n. 12270 Assicurazione, assicurativo, circolazione stradale, motorino, trasportato, terzi (2009-06-12)

La III Sezione Civile

Svolgimento del processo

Con sentenza 11 febbraio – 12 maggio 2004, la Corte di Appello di Roma ha riformato la decisione del Tribunale di Civitavecchia n. 958 del 2000, che aveva ritenuto un concorso di pari responsabilità dei due conducenti, I. A. e N. L., in relazione all’incidente stradale dell’omissis.

I giudici di appello attribuivano la responsabilità dell’incidente per il 60% a carico del N. L. e per il 40% a carico dello I..

Dai rilievi dei Carabinieri era risultato che lo I., alla guida della propria vettura stava percorrendo la via omissis, con direzione omissis. Giunto all’incrocio con via omissis – per evitare il N. L. che proveniva, alla guida del ciclomotore Piaggio SI, da detta via (che aveva senso unico contrario) e che trasportava a bordo una giovane, nonostante ne avesse divieto – frenava e deviava verso sinistra, terminando la marcia contro un albero situato sul margine dell’opposta semicarreggiata.

Considerato che lo I. procedeva ad una velocità indubbiamente superiore ai 30 kmh orari consentiti e che il N. L. proveniva contromano e con a bordo un passeggero, con tutte le conseguenze relative alla stabilità del ciclomotore, la Corte di Appello riconosceva nella produzione del sinistro una responsabilità del 60% a carico del N. L. e del 40% a carico dello I..

La Corte territoriale riteneva che la garanzia assicurativa prestata dalla RAS relativamente al ciclomotore Piaggio non fosse operante né nei confronti dell’assicurato né nei confronti del terzo danneggiato.

I giudici di appello procedevano poi alla liquidazione dei danni riportati dal N. L. e dallo I..

Avverso tale decisione lo I. ha proposto ricorso per cassazione sorretto da quattro, distinti motivi.

Ras ha depositato controricorso. N. B. e M. S. e N. L. (rispettivamente proprietari e conducente del ciclomotore Piaggio) resistono con controricorso, proponendo, a loro volta, ricorso incidentale, articolato su tre motivi.

Il Procuratore Generale presso questa Corte ha concluso per l’accoglimento del terzo motivo del ricorso principale e di quello incidentale e per il rigetto degli altri motivi.

Motivi della decisione

Deve procedersi alla riunione dei ricorsi, proposti contro la medesima decisione.

Con il primo motivo il ricorrente principale denuncia omessa motivazione e difetto assoluto di motivazione su un punto decisivo della controversia e violazione di norma di legge (art. 2054 c.c.) censurando quella parte della decisione che aveva ritenuto un concorso di colpa del 40% a suo carico.

Unico responsabile del sinistro doveva considerarsi, infatti, il N. L. che proveniva da una via in cui il transito era consentito solo nel senso contrario.

Osserva il Collegio:

il motivo è inammissibile, poiché tende ad una diversa interpretazione delle risultanze processuali.

Con motivazione adeguata, i giudici di appello hanno spiegato le ragioni per le quali hanno ritenuto una responsabilità concorrente dei due conducenti (attribuendo solo un concorso di colpa del 60% al N. L.). Gli stessi hanno infatti precisato che lo I. procedeva indubbiamente ad una velocità superiore a quella consentita in quel luogo, come era risultato dalle conseguenze dell’impatto contro l’albero e dalla lunghezza delle tracce di frenata.

Ravvisando una minore responsabilità a carico dello I. (40%), gli stessi giudici hanno riconosciuto una responsabilità concorrente del N. L., valutata nella misura del 60%, poiché questo ultimo proveniva contro mano da una strada laterale e trasportava a bordo del ciclomotore un passeggero, in violazione delle norme del codice della strada, con tutte le conseguenze che ne potevano derivare per quanto riguarda la stabilità del mezzo.

Con il secondo motivo il ricorrente principale I. deduce, sotto altro profilo, omessa motivazione su un punto decisivo della controversia, nonché violazione degli articoli 1223 e 2043 c.c.

I giudici di appello avevano ridotto la misura del risarcimento già riconosciuta dal primo giudice, senza alcuna motivazione, sia per quanto riguarda i danni materiali subiti dal veicolo di proprietà del ricorrente principale che per quanto riguarda il danno biologico, patrimoniale e morale riconosciuto allo stesso.

Il motivo è infondato. Con motivazione logica ed adeguata, la Corte territoriale ha spiegato le ragioni per le quali ha ridotto la liquidazione dei danni già operata dal primo giudice, e per quanto riguarda il costo delle riparazione del veicolo dello I., al valore del veicolo incidentato (provvedendo anche alla liquidazione delle spese necessarie per la rimozione del mezzo con carro attrezzi).

Tra l’altro, i giudici di appello hanno richiamato le conclusioni cui era giunto il consulente nominato dall’ufficio, secondo il quale gli esiti permanenti residuati dall’incidente potevano essere valutati nell’ordine del 3% e consistevano essenzialmente in danno fisionomico per esiti cicatriziali e la inabilità temporanea assoluta e parziale potevano essere valutate nell’ordine di quindici giorni ciascuna.

Con il terzo motivo, il ricorrente principale denuncia violazione e falsa applicazione dei canoni di ermeneutica contrattuale costituente punto decisivo della controversia.

La Corte romana aveva escluso la operatività della garanzia assicurativa, attribuendo alla polizza assicurativa un significato ben lontano da quello fatto proprio dalle parole utilizzate dai contraenti.

L’assicurazione doveva considerarsi inoperante solo nel caso in cui il conducente non fosse abilitato alla guida dello stesso e la circostanza che egli trasportasse un passeggero, nonostante il veicolo non fosse abilitato al trasporto di altri soggetti oltre al conducente, doveva considerarsi del tutto ininfluente nei confronti dei terzi.

La clausola contrattuale, infatti, escludeva la garanzia solo “qualora il conducente non fosse abilitato alla guida” senza prevedere altre ipotesi di esclusione.

Il motivo è fondato.

Secondo la più recente giurisprudenza di questa Corte, non rileva, ai fini della esclusione della garanzia assicurativa, la violazione dell’art. 122, terzo comma, codice della strada, nel testo all’epoca vigente (1993), atteso che condurre un numero di passeggeri non conforme alle prescrizioni del documento di circolazione integra – indubbiamente – una inosservanza delle condizioni di guida, ma non incide sulla relativa abilitazione; con la conseguenza che tale circostanza può valere ad escludere la garanzia assicurativa solo se l’ipotesi sia espressamente prevista dalle condizioni di contratto.

In altre parole, l’ipotesi in esame, in quanto non prevista espressamente dalle condizioni generali di assicurazione non esclude affatto – secondo le pronunce di questa Corte – la copertura assicurativa nei confronti dei terzi danneggiati.

La questione è stata esaminata da questa Corte, nella sentenza n. 2115 del 1996, nella quale si è affermato che: “Qualora, in un contratto di assicurazione della responsabilità civile obbligatoria derivante dalla circolazione dei veicoli a motore e dei natanti, sia prevista una clausola che escluda la garanzia assicurativa per i danni verificatisi quando il conducente non fosse abilitato alla guida, sussistono l’operatività della polizza ed il conseguente obbligo indennitario dell’assicuratore quando il conducente, pur abilitato alla guida, abbia omesso il rispettare le prescrizioni o le cautele eventualmente impostegli (nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza del giudice di merito, il quale aveva escluso che esistessero limiti alla indennizzabilità, da parte dell’assicuratore, del sinistro cagionato da un motociclo condotto da minorenne, sul quale erano trasportate tre persone)”.

L’accertamento del difetto di abilitazione alla guida dal quale deriva, a seguito di espressa previsione contrattuale, il venir meno della garanzia assicurativa, presuppone la individuazione – di volta in volta – di un tipo di abilitazione in relazione ad una determinata categoria di veicoli, ovvero delle condizioni formali e sostanziali cui esso è legato.

In tale ottica, ed agli effetti della norma del codice stradale (art. 79 lettera d) anche in relazione al successivo art. 80) e della previsione contrattuale, per “mancanza” di regolare patente di guida deve intendersi sia l’assoluto difetto di patente, sia il difetto – originario o sopravvenuto – delle condizioni di validità e di efficacia della stessa in relazione alle norme che disciplinano l’abilitazione alla guida (sospensione e revoca della patente, venir meno della validità di essa per il decorso del termine stabilito per la conferma da parte della Prefettura, sopravvenienza di condizioni ostative non rilevate – ad es. condizioni di integrità fisica: cfr. Cass. 5657 – 86 -) in relazione allo specifico tipo di veicolo oggetto di assicurazione.

Ove, invece, sulla scorta delle condizioni sopra considerate sia configurabile l’esistenza di una abilitazione alla guida, questa non può dirsi venuta meno sol perché le prescrizioni e limitazioni eventualmente imposte non siano state osservate, in quanto la inosservanza di esse non si traduce in una limitazione della validità e-o efficacia del titolo abilitativo riconosciuto, bensì integra una semplice illiceità della guida.

Non v’è spazio, in dette ipotesi, per la configurazione di una “mancanza” di patente di guida (tra l’altro non prescritta all’epoca per la guida di ciclomotori), potendosi solo configurare una guida effettuata irregolarmente per l’inosservanza delle prescritte cautele.

Tali principi sono stati più volte applicati da questa Corte con particolare riguardo all’ipotesi di mancato impiego degli occhiali il cui uso sia prescritto nella patente, nel senso di ritenere non esclusa l’operatività della garanzia l’inosservanza sia stata espressamente prevista a tal fine (cfr. Cass. 2445 del 1964, etc.).

Né rileva la violazione dell’art. 122 3 comma cod. strad., atteso che il condurre un numero di passeggeri non conforme alle prescrizioni del documento di circolazione integra un’inosservanza delle condizioni di guida, ma non incide sulla relativa abilitazione, epperò vale ad escludere la garanzia assicurativa solo se l’ipotesi sia espressamente prevista dalle condizioni di contratto. In definitiva, l’ipotesi in esame, in quanto non espressamente prevista nelle condizioni generali di assicurazione, non esclude la copertura assicurativa.

La decisione di questa Corte del 1996 non si pone affatto in contrasto con la meno recente pronuncia di questa stessa Corte, come sembrerebbe ritenere la sentenza impugnata (che la richiama a pag. 14).

Infatti, anche in essa si ribadisce:

“In tema di responsabilità per danni derivante dalla circolazione dei veicoli a motore, qualora nel contratto di assicurazione per la responsabilità civile, stipulato per un veicolo non soggetto ad assicurazione obbligatoria (nella specie ciclomotore), sia stata esplicitamente esclusa la garanzia assicurativa nelle ipotesi di circolazione del veicolo in violazione delle condizioni risultanti dalla carta di circolazione, deve ritenersi che detta esclusione operi non soltanto con riferimento alla inosservanza di quanto esplicitamente attestato in detto documento (omologazione del mezzo ed idoneità del motore) ma anche con riferimento alla violazione delle norme del codice della strada che disciplinano le modalità di circolazione del veicolo (nell’affermare il suddetto principio la suprema corte ha respinto il ricorso contro la sentenza del giudice di merito che aveva ritenuto non operante la garanzia assicurativa relativamente ai danni cagionati dalla circolazione di un ciclomotore, sul quale, in violazione dell’art. 122 quarto comma Cod. strad., viaggiava un passeggero oltre il conducente)” (Cass. 9 luglio 1990 n. 7168).

Nel caso di specie, non si deduce che tale clausola fosse prevista espressamente nel contratto di assicurazione, dandosi atto invece che la polizza conteneva una clausola di esonero dalla garanzia assicurativa qualora il conducente non fosse “abilitato alla guida a norma delle disposizioni in vigore”.

Con il quarto motivo, il ricorrente principale deduce il difetto di motivazione in ordine alla avvenuta compensazione delle spese del giudizio.

Il motivo deve considerarsi assorbito, per effetto del parziale accoglimento del ricorso principale.

Con il primo motivo i ricorrenti incidentali denunciano contraddittoria e carente motivazione nonché erronea applicazione delle norme di diritto (art. 2054 c.c.). I giudici di appello avevano errato attribuendo una responsabilità del 60% al N. L., senza adeguata motivazione.

Al più, gli stessi giudici avrebbero dovuto applicare la presunzione di pari responsabilità di cui al secondo comma dell’art. 2054, codice civile.

Il motivo è inammissibile: si richiama quanto già rilevato a proposito del primo motivo del ricorso principale.

Da ciò discende il rigetto del secondo motivo del ricorso incidentale, con il quale si deduce la errata determinazione del danno liquidato allo I. (in conseguenza della errata applicazione del 60% di responsabilità a carico del N. L.) e la necessità di una rideterminazione nella corretta misura del 50%.

Con il terzo motivo, i ricorrenti incidentali deducono omessa applicazione degli articoli 1370 e 1469 quater, secondo comma, codice civile.

Riconoscendo una interpretazione estensiva alla clausola invocata dalla RAS, la Corte d’appello aveva finito per violare le disposizioni di legge richiamate che (in via generale) prevedono la necessità di interpretare le clausole contrattuali contenute in formulari predisposti da uno dei contraenti nel senso più favorevole all’altro e (in materia di contratti conclusi con i consumatori) impone sempre di seguire la interpretazione a questo più favorevole, vietando qualsiasi interpretazione sfavorevole che lo possa sfavorire.

Il primo motivo è fondato per le ragioni già indicate a proposito dell’analoga censura contenuta nel terzo motivo del ricorso principale I..

Conclusivamente, devono essere accolti il terzo motivo del ricorso principale e di quello incidentale e rigettati gli altri (ad eccezione del quarto motivo del ricorso principale che deve essere dichiarato assorbito).

La sentenza impugnata deve essere cassata in relazione alle censure accolte. Il Giudice di rinvio procederà a nuovo esame, provvedendo anche in ordine alle spese del presente giudizio.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi.

Accoglie il terzo motivo del ricorso incidentale ed il terzo motivo del ricorso principale, del quale dichiara assorbito il quarto e rigetta gli altri.

Cassa e rinvia anche per le spese di questo giudizio alla Corte di appello di Roma.