T.A.R. Sicilia Palermo Sez. III, Sent., 18-03-2011, n. 499 Giustizia amministrativa

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Con ricorso notificato in data 11 ottobre 2007 e depositato il seguente 24 ottobre, la ricorrente, assegnataria di un contributo finanziario di Euro 1.551.692,54 erogato dalla resistente Amministrazione, corrispondente al 60 per cento dell’importo progettuale proposto pari ad Euro 2.531.154,23, ha impugnato – chiedendone l’annullamento, vinte le spese – il d.d.g. n. 88/Pesca/2007 datato 4 maggio 2007, con cui il resistente Assessorato regionale ha ridotto il contributo in argomento dall’importo sopraindicato a quello di Euro 1.200.000,00.

2. Il ricorso si articola in due motivi con cui si deducono i seguenti vizi:

a) Violazione degli artt. 8 e 10 della l.r. n. 10 del 1991 e violazione del principio di effettività della partecipazione al procedimento amministrativo, stante, in tesi, la mancata comunicazione di avvio del procedimento amministrativo in relazione alla nota del 13 ottobre 2006 e la mancata assegnazione di un termine entro cui consentire alla ricorrente l’esercizio delle facoltà di cui all’art. 10 della l.r. n. 10 del 1991;

b) Violazione e falsa applicazione dell’art. 21 nonies della l. 7 agosto 1990, n. 241, violazione del principio di affidamento, violazione per mancata applicazione dell’art. 1, comma 136 della l. n. 311 del 2004, nonché eccesso di potere sotto il profilo della incongrua motivazione ed irragionevolezza, in quanto sarebbe stato posto in essere un atto di secondo grado in assenza dei presupposti previsti dalla legge ed in asserita mancata considerazione degli interessi dei destinatari del provvedimento.

3. Con ricorso per motivi aggiunti notificato il 25 settembre 2009 e depositato il seguente 2 ottobre, la ricorrente ha impugnato, chiedendone la declaratoria di nullità, la nota (prot. n. 2071/09) con cui il resistente Assessorato regionale ha rideterminato la misura parziale della liquidazione in favore della stessa.

4. Si è costituita l’Amministrazione intimata che, con memoria depositata in prossimità dell’udienza di discussione ha chiesto la reiezione del ricorso.

5. All’udienza pubblica del giorno 11 marzo 2011, presenti i procuratori delle parti che si sono richiamati alle già espresse domande e conclusioni, il ricorso, su richiesta degli stessi, è stato trattenuto in decisione.
Motivi della decisione

1. Ai fini di una migliore comprensione delle questioni sottoposte alla cognizione del Collegio occorre ricostruire succintamente la vicenda sulla quale si è innestata la presente controversia.

Con avviso pubblicato nella G.U.R.S. n. 18 del 23 aprile 2004, l’Assessorato regionale della cooperazione, del commercio, dell’artigianato e della pesca ha indetto la procedura per la presentazione di istanze a valere sulla misura 4.16 – sottomisura c) del P.O.R. Sicilia 2000/2006, nello specifico finalizzate al "potenziamento e adeguamento degli impianti esistenti per la trasformazione e commercializzazione dei prodotti ittici e ammodernamento dei mercati ittici tramite sistemi di collegamento telematico".

Con decreto n. 231/Pesca/2005 del 16 dicembre 2005, il Dirigente generale del Dipartimento regionale della pesca ha ammesso a finanziamento il progetto proposto dalla ricorrente, il cui quadro economico recava un costo complessivo di Euro 2.531.154,24, con assegnazione di un contributo pari al 60 per cento di tale importo, per complessivi Euro 1.518.692,54. Detto decreto ha stabilito che il pagamento sarebbe stato effettuato, per il 50 per cento della somma complessiva concessa, mediante anticipazione a richiesta dell’interessato (e previa presentazione di polizza fideiussoria) e, quanto al saldo, a seguito di "presentazione dei documenti giustificativi relativi alle spese effettuate".

Una volta notificato il decreto di finanziamento la ricorrente – secondo quanto esposto – ha dato avvio ai lavori di cui al progetto, siccome comunicato all’Assessorato – con nota acquisita agli atti dello stesso- in data 28 dicembre 2005, allorché l’Amministrazione ha emesso un primo mandato di pagamento a titolo di anticipazione per un importo pari ad Euro 759.346,27.

In data 6 luglio 2006 un’unità di personale direttivo del resistente Assessorato ha effettuato una visita di controllo sui luoghi interessati dal progetto, a seguito della quale è stata redatta specifica relazione (del 9 agosto 2006) inerente allo stato di avanzamento dei lavori edili e di sbancamento, nonché, sotto il profilo amministrativo. Con la medesima relazione il funzionario incaricato ha rilevato come l’importo ammesso a contributo (peraltro in parte erogato a titolo di anticipazione) ed oggetto del primo decreto risultasse "maggiore di quello previsto dal bando".

Con note del 2 e 13 ottobre 2006, l’Amministrazione ha, dapprima, invitato la ricorrente a prendere contatti con i medesimi uffici e, poi, ha rappresentato alla stessa l’esigenza di "fornire delucidazioni in ordine all’iniziativa finanziata" le quali sarebbero state rese note nel corso di un incontro presso l’Assessorato da tenersi il successivo giorno 18 (al quale i rappresentanti della società ricorrente non hanno preso parte).

Il 27 aprile 2007, con nota prot. n. 1350 (anticipata a mezzo fax e ricevuta il 4 maggio 2007), il Dirigente responsabile del Servizio disciplina comunitaria del Dipartimento pesca, ha reso nota alla ricorrente Società Recca la "predisposizione" di un provvedimento a rettifica del d.d.g. n. 231/Pesca del 18 novembre 2005, di concessione del contributo.

2. Il ricorso è meritevole di accoglimento e va accolto secondo quanto di seguito specificato.

3. Con il primo motivo viene dedotta la violazione degli artt. 8 e 10 della l. r. n. 10 del 1991 per la asserita impossibilità di partecipare al procedimento amministrativo.

In particolare, ad avviso della ricorrente, la nota del 27 aprile 2007, con la quale è stata comunicata la predisposizione del provvedimento di rettifica dell’importo del contributo, emanato, poi, a distanza di pochi giorni (sette), non integrerebbe gli estremi formali e sostanziali di una comunicazione di avvio del procedimento. Questa, in realtà, avrebbe dovuto, in tesi, concretizzarsi – cosa che in realtà non è stata – con la nota del 13 ottobre 2006, allorché la ditta ricorrente era stata invitata a presenziare all’incontro previsto (come sopra detto, fissato per il successivo giorno 18). Ad avviso della ricorrente non sarebbe stata rispettata né la previsione legislativa che obbliga alla comunicazione di avvio del procedimento, né, tanto più, quella secondo la quale è data la facoltà al privato di presentare memorie ed osservazioni che l’amministrazione ha l’obbligo di valutare.

La tesi di parte ricorrente è contrastata dall’Avvocatura dello Stato la quale sottolinea che:

a) la ricorrente era, secondo quanto esposto, a conoscenza della problematica inerente al quantum (non) finanziabile sin dalla data del sopralluogo di verifica di cui sopra, e che, nel caso di specie, non sarebbe stata comunque necessaria alcuna comunicazione di avvio del procedimento poiché trattavasi di attività vincolata della p.a. ("contenuto dovuto e vincolato", pag. 4 memoria);

b) l’utilità sostanziale cui aspira la ricorrente, ossia un contributo superiore a quello previsto dal bando, avrebbe dovuto necessariamente muovere da un’impugnativa del decreto originario (di concessione dell’intero contributo), la mancata proposizione della quale determinerebbe, secondo la prospettazione della difesa erariale, l’inammissibilità del gravame.

Il motivo è fondato.

Muovendo dall’adombrata inammissibilità del ricorso, osserva il Collegio che al cospetto di un provvedimento a sé favorevole, è da ritenere che nessun onere di impugnativa dello stesso gravasse in capo alla ricorrente.

Nel merito, l’impugnato decreto è un vero e proprio provvedimento di autotutela che promana dalla necessità di rimuovere il precedente decreto che, in modo erroneo, ha concesso il contributo di che trattasi per una misura superiore a quella prevista dall’avviso.

La natura del vizio che inficia il provvedimento originario del quale, con un atto di ritiro, è disposta la parziale rimozione (ossia della parte che implica un’erogazione in misura superiore a quella prevista dall’Avviso), non vale a mutare le caratteristiche proprie del potere (di autotutela) esercitato, il quale, per la natura dei presupposti da cui muove – quale, ad esempio, la valutazione (discrezionale) dell’amministrazione circa la ponderazione dell’interesse pubblico sottostante -, deve essere comunque sempre espressione del momento valutativo di tutti gli interessi in gioco.

Nel caso di specie, al di là della asserita effettiva conoscenza o meno, da parte della ricorrente, della problematica amministrativa inerente all’erogazione del contributo, non è revocabile in dubbio che l’unico atto configurabile quale comunicazione di avvio è quello del 27 aprile 2007 il quale, tuttavia, non incarnato la funzione per la quale il legislatore l’ha prevista: ossia quella di consentire al privato la partecipazione al procedimento mediante apporto degli interessi di parte, da valutarsi nel corso dell’istruttoria, con le connesse refluenze nella motivazione della scelta posta in essere.

Non è superfluo ricordare che il contraddittorio garantito dalla possibilità di dedurre nel procedimento attraverso memorie scritte fa sì che sia consentito adeguatamente all’interessato di mettere in evidenza i propri interessi ed illustrare in maniera compiuta le ragioni poste a sostegno delle proprie richieste, dovendosi ritenere, che quantunque la legge generale sul procedimento (sia statale che regionale) non prescriva espressamente che la comunicazione di avvio del procedimento debba contenere un termine entro il quale l’interessato può presentare memorie scritte e documenti, tale diritto (riconosciuto dall’art. 10 l. n. 241 del 1990 e della omologa disposizione legislativa regionale ex l.r. n. 10/1991) deve pur essere esercitato in un termine congruo, connotazione, questa, che i sette giorni del caso di specie, ad avviso del Collegio, non riveste, avuto riguardo anche ad una possibile analogia – come, peraltro, condivisibilmente sottolineato dalla ricorrente – con quanto espressamente previsto dall’art. 10 bis l.r. n. 10 del 1991 (che prevede un termine minimo di dieci giorni).

Va aggiunto che il tenore delle superiori considerazioni non muterebbe ove il parametro legislativo di riferimento fosse ritenuto quello di cui all’art. 1, comma 136 della l. n. 311 del 2004, e ciò sul rilievo che anche nell’applicazione di detta disposizione, finalizzata a conseguire risparmi o minori oneri finanziari per le amministrazioni pubbliche, il momento della valutazione o del giudizio mantiene una posizione di primissimo ordine.

Ciò detto, nessun richiamo – con ciò qui anticipando la trattazione delle due ultime censure del secondo motivo – ad apporti partecipativi della ricorrente e, men che mai alla necessaria valutazione degli interessi della stessa, è dato evincere dal provvedimento impugnato, di guisa che lo stesso non resiste ai dedotti profili di eccesso di potere: frutto, questo anche della oggettiva conduzione del procedimento che ha visto, a parte l’errore nell’individuazione della soglia di contributo erogabile, evidenti ritardi (si noti, ad esempio, che la segnalazione dei vizi operata dal funzionario verificatore, come si evince dalla produzione documentale dell’Avvocatura dello Stato, è del 9 agosto 2006, e che i primi tentativi di affrontare la questione si rinvengono nel successivo mese di ottobre, con un’ulteriore successiva stasi che si è protratta fino al maggio 2007, allorché è stato emanato il provvedimento impugnato).

La tempestiva adozione del provvedimento di annullamento, ove preceduto dalle prescritte attività procedimentali di garanzia, avrebbe consentito di assumere la decisione in un termine nel quale – come dimostrato dalle fatture versate agli atti del giudizio – non si sarebbe posto il problema dei gravosi oneri finanziari sostenuti dalla ricorrente per la realizzazione del progetto, per buona parte concentrati nel primo semestre del 2007.

4. Per le suesposte considerazioni, assorbita ogni altra questione od eccezione inifluente od irrilevante ai fini della presente decisione, il ricorso va accolto con conseguente annullamento dei provvedimenti impugnati.

Vanno fatte salve, ovviamente, le ulteriori determinazioni di competenza dell’Amministrazione.

5. Le spese e gli onorari del giudizio possono essere compensati avuto riguardo agli specifici profili della controversia.
P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale della Sicilia, Sezione terza, definitivamente pronunziando sul ricorso in epigrafe lo accoglie e, per l’effetto, annulla i provvedimenti impugnati nella stessa epigrafe indicati, salvi gli ulteriori provvedimenti.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cons. Stato Sez. V, Sent., 01-04-2011, n. 2013 Contratti e convenzioni

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. Con la sentenza n. 639/1997 il Tar per la Campania, sezione di Salerno, ha accolto il ricorso proposto dalla cooperativa a r.l. V.C. avverso l’atto n. 181/1991 di annullamento da parte del Co.Re.Co. della deliberazione, con cui la giunta del comune di Castelcivita aveva approvato l’avviso di gara per l’affidamento di alcuni servizi comunali.

La regione Campania ha proposto ricorso in appello avverso tale sentenza per i motivi che saranno di seguito esaminati.

La cooperativa a r.l. V.C., regolarmente intimata, non si è costituita in giudizio.

All’odierna udienza la causa è stata trattenuta in decisione.

2. L’oggetto del giudizio è costituito dalla contestazione di un atto di annullamento da parte del Co.Re.Co. di una deliberazione di giunta comunale, avente ad oggetto l’indizione di una gara per l’affidamento di alcuni servizi (pulizia edifici, fornitura pasti e assistenza agli anziani).

Il motivo dell’annullamento in sede di controllo è stato l’asserito difetto di competenza della giunta comunale in relazione ad atti rientranti nella competenza del consiglio.

Il giudice di primo grado ha ritenuto, invece, sussistente la competenza della giunta e la regione appellante contesta tale statuizione, deducendo che l’intera materia degli appalti è riservata alla competenza del consiglio ai sensi dell’art. 32 della legge n. 142/1990.

Il motivo è privo di fondamento.

Come correttamente rilevato dal Tar, gli atti di indizione della gara erano estranei a finalità di indirizzo (di competenza del consiglio comunale) e anzi costituivano mera attuazione di precedenti deliberazioni, con cui il consiglio comunale aveva approvato la convenzione, che ha poi costituito la base della procedura di gara.

Si trattava, peraltro, di servizi comunali di carattere generale e ordinario, rispetto ai quali non sussisteva la competenza del consiglio, di cui all’invocato art. 32, comma 2. lett. m), della legge n. 142/90, limitata a "gli acquisti e le alienazioni immobiliari, le relative permute, gli appalti e le concessioni che non siano previsti espressamente in atti fondamentali del consiglio o che non ne costituiscano mera esecuzione e che, comunque, non rientrino nella ordinaria amministrazione di funzioni e servizi di competenza della giunta, del segretario o di altri funzionari".

Nel caso di specie, la competenza del consiglio era, infatti, esclusa dal carattere esecutivo degli atti e dall’essere i servizi in questione rientranti nell’ordinaria amministrazione.

3. In conclusione il ricorso in appello deve essere respinto e nulla deve essere disposto per le spese in assenza di costituzione della parte appellata.
P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta), respinge il ricorso in appello indicato in epigrafe.

Nulla per le spese.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 15-03-2011) 26-04-2011, n. 16372 Sentenza

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Il Giudice di Pace di Palermo ha prosciolto M.S. e S.C. dall’accusa di minaccia (che avrebbero dato fuoco al cantiere se non avessero smesso di lavorare), poichè la querela – proposta dall’amministratore Unico della società titolare dell’azienda – non palesava la legittimazione ed i poteri necessari per l’esercizio del diritto di tale diritto.

Avverso la sentenza hanno interposto autonomi ricorsi, ancorchè per analoghi motivi, sia il Pubblico Ministero palermitano sia il Procuratore Generale presso la Corte distrettuale di Palermo, segnalando che la mancata indicazione della fonte dei poteri di rappresentanza non inficia la validità della querela.

In data 21.2.2011 è stata depositata memoria nell’interesse degli imputati, con la quale si respingevano gli argomenti del ricorrente Pubblico Ministero, instando per la dichiarazione di inammissibilità del ricorso.

IN DIRITTO I ricorsi sono fondati.

La memoria difensiva ribadisce che la minaccia era diretta non già alla persona offesa R., bensì al dipendente F., capocantiere, il quale non aveva sporto querela alcuna e che il R. non aveva legittimazione all’esercizio di quel potere.

Il rilievo attinge, tuttavia, ad uno scrutinio sul fatto e non è proponibile al giudice di legittimità.

La difesa lamenta, ancora, che il R. non avesse legittimazione all’esercizio del diritto di querela.

Ma l’assunto è manifestamente infondato, poichè, in tema di querela, l’amministratore di una società di capitali, avendo la fonte dei suoi poteri nell’art. 2384 cod. civ., è legittimato – quale rappresentante dell’organismo – a proporre querela in nome e per conto della società, senza essere gravato dall’onere di documentare la titolarità del potere di rappresentanza (cfr. da ultimo, Cass. pen., sez. 5^, 4 dicembre 2009, Bervicato, Ced Cass., rv. 246885).

Inoltre, a ragione, i ricorrenti rammentano che l’omessa indicazione della fonte dei poteri di rappresentanza, nel contesto della querela (ritualmente proposta dal legale rappresentante della persona giuridica, non ne determina la nullità, ma, nel caso in cui l’effettiva titolarità di tale potere da parte del querelante venga formalmente contestata, impone al giudice di procedere alla verifica in concreto della sua sussistenza (cfr. Cass. pen., sez. 6^, 16 febbraio 2010, Anselmi, Ced Cass., rv. 246177).

La Sentenza impugnata deve, quindi, essere annullata con rinvio al Giudice di Pace di Palermo per il giudizio.
Motivi della decisione

I ricorsi sono fondati.

La memoria difensiva ribadisce che la minaccia era diretta non già alla persona offesa R., bensì al dipendente F., capocantiere, il quale non aveva sporto querela alcuna e che il R. non aveva legittimazione all’esercizio di quel potere.

Il rilievo attinge, tuttavia, ad uno scrutinio sul fatto e non è proponibile al giudice di legittimità.

La difesa lamenta, ancora, che il R. non avesse legittimazione all’esercizio del diritto di querela.

Ma l’assunto è manifestamente infondato, poichè, in tema di querela, l’amministratore di una società di capitali, avendo la fonte dei suoi poteri nell’art. 2384 cod. civ., è legittimato – quale rappresentante dell’organismo – a proporre querela in nome e per conto della società, senza essere gravato dall’onere di documentare la titolarità del potere di rappresentanza (cfr. da ultimo, Cass. pen., sez. 5^, 4 dicembre 2009, Bervicato, Ced Cass., rv. 246885).

Inoltre, a ragione, i ricorrenti rammentano che l’omessa indicazione della fonte dei poteri di rappresentanza, nel contesto della querela (ritualmente proposta dal legale rappresentante della persona giuridica, non ne determina la nullità, ma, nel caso in cui l’effettiva titolarità di tale potere da parte del querelante venga formalmente contestata, impone al giudice di procedere alla verifica in concreto della sua sussistenza (cfr. Cass. pen., sez. 6^, 16 febbraio 2010, Anselmi, Ced Cass., rv. 246177).

La Sentenza impugnata deve, quindi, essere annullata con rinvio al Giudice di Pace di Palermo per il giudizio.
P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata con rinvio al Giudice di Pace di Palermo per nuovo giudizio.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. II, Sent., 06-09-2011, n. 18271 Risoluzione del contratto per inadempimento

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con atto notificato il 3.10.97 B.A. citò al giudizio del Tribunale di Potenza C.R. e S.V., esponendo di avere con i medesimi stipulato, in data 19.6.95, un contratto di appalto relativo ad opere di edilizia agricola finanziate dalla Regione Basilicata, integrativo di quello originario del 6.5.94 intervenuto con il solo S., che non era stato in grado di adempierlo, in virtù del quale il C. si era impegnato a fornire materiali e attrezzature al predetto,con previsione di una penale di L. 10.000.000 per il caso di inadempimento, e l’istante a corrispondergli, quale corrispettivo per tale fornitura la somma di L. 90.000.000, cedendogli pro soluto con atto del 27.5.96 il credito per l’ottenuto finanziamento. Soggiungeva l’attore che anche il C. si era reso inadempiente, per cui aveva comunicato ad entrambi i convenuti, con lettera del 26.5.96, la propria volontà di risolvere il contratto, diffidando il suddetto dall’incassare il credito Su tali premesse, chiese dichiararsi la risoluzione del contratto per inadempimento di entrambi i convenuti, con condanna al pagamento della penale, al risarcimento dei danni e, quanto al C., alla restituzione di L. 90 milioni incassati dalla Regione.

Si costituiva il solo C., chiedendo il rigetto delle suddette domande ed, in via riconvenzionale, il saldo del corrispettivo ed il risarcimento dei danni.

Con sentenza del 28.1-9.2.00, nella contumacia del S., l’adito tribunale respinse le reciproche domande.

Ma a seguito dell’appello del B., resistito dal C. contumace il S. la Corte di Potenza, dopo aver disposto ed espletato il libero interrogatorio delle parti, con sentenza del 30.12.04, depositata il 21.1.05, in accoglimento del gravame pronunziò la risoluzione del contratto per inadempimento dei convenuti e condannò il C. alla restituzione della somma di Euro 46.481,12 ed alla penale di Euro 5.164,57, con gli interessi legali dalla domanda, oltre al rimborso all’attore delle spese del doppio grado di giudizio, dichiarando compensate quelle tra il suddetto ed il S..

La corte lucana, premesso che era risultata documentalmente provata la sussistenza della fonte dell’obbligazione dedotta in giudizio, costituita dal contratto di appalto, e che ai convenuti sarebbe spettato provare, a fronte dell’avversa domanda di risoluzione, il proprio adempimento, osservava che, contrariamente a quanto ritenuto dal primo giudice, tale prova non era stata fornita e, per di più, sussistevano elementi comprovanti il contrario.

In particolare, mentre vi era stata, in sede di libero interrogatorio, ammissione da parte del C. di aver incassato l’importo del finanziamento, il medesimo non aveva provato di aver fornito i materiali e le attrezzature, al cui acquisto avrebbe dovuto secondo contratto provvedere "immediatamente", al S., il quale a sua volta avrebbe dovuto eseguire i lavori entro il 5.7.95. Nè a tal fine poteva ritenersi sufficiente la circostanza che nella delibera regionale del 30.12.96 vi fosse riferimento alla "regolare avvenuta esecuzione delle iniziative a suo tempo approvate", trattandosi di un elemento presuntivo scarsamente significativo, superato da precise risultanze documentali. Queste erano costituite dalle diffide inviate dal B., tra cui l’ultima del 24.4.96, richiamante le precedenti ed intimante al S. di portare a termine i lavori ed al C. di consegnare i materiali e le attrezzature a tal fine occorrenti, seguita dalla lettera del successivo 20/5, con la quale era stata significata la risoluzione del contratto, cui si erano aggiunti una consulenza stragiudiziale giurata e, successivamente in grado di appello (ma ammissibilmente ex art. 345 c.p.c., trattandosi di prove precostituite) un verbale di consistenza (sottoscritto anche dal S.), rispettivamente attestanti la mancata esecuzione di lavori per oltre L. 40.000.000 lire e l’omessa installazione di attrezzature per L. 62.500.000, nonchè una fattura, per l’installazione e posa in opera di attrezzature per l’importo di L. 66.768.000, rilasciata all’attore da una terza ditta al riguardo incaricata.

Avverso la suddetta sentenza il C. ha proposto ricorso per cassazione affidato ad un unico motivo. Non hanno svolto attività difensiva in questa sede gli intimati B. e S..
Motivi della decisione

Il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 1260 c.c. e segg., artt. 1372 e 1453 cod. civ., censurando le asserite "sviste interpretative ed applicative delle norme codicistiche di riferimento " in cui i giudici di appello sarebbero incorsi, segnatamente: a) non cogliendo la particolarità della complessa vicenda, caratterizzata da distinte fattispecie contrattuali, costituite dal contratto di appalto del 1994 con cui il B. aveva affidato al S. l’esecuzione dei lavori assistiti da finanziamento regionale, dal contratto, integrativo del primo, intervenuto tra i suddetti ed il C., con il quale quest’ultimo si impegnava a trasferire al secondo i materiali e le attrezzature, ottenendo dal primo quale controprestazione la cessione pro soluto del credito relativo al finanziamento, e dal contestuale atto di cessione di tale credito verso la Regione Basilicata; b) non tenendo conto dell’autonomia negoziale della cessione suddetta e della sua natura di negozio giuridico "a causa variabile", nè che la stessa, in quanto negozio ad effetti reali, aveva determinato all’atto del consenso il trasferimento della titolarità del credito dal cedente al cessionario; c) commettendo, così, il conseguente errore di aver condannato il C., per effetto della risoluzione del contratto d’appalto tra il B. ed il S., per inadempimento del secondo, alla restituzione al primo della somma corrispondente al credito ceduto pro soluto, senza anche pronunziare la risoluzione della cessione, in mancanza della quale detto credito, stante l’autonomia del negozio e l’estraneità del cessionario a quello di appalto, era rimasto nella "sfera giuridica del cessionario"; d) non considerando che l’assunzione del rischio di insolvenza della debitrice ceduta (la Regione Basilicata) da parte del cessionario C., cui aveva fatto "da contraltare la presa in carico da parte del cedente B. del rischio di insolvenza del cessionario in termini di inadempimento del contratto di compravendita delle attrezzature (in favore del committente S.), rispetto al quale contratto di compravendita degrada …a mero esecutore materiale del corrispettivo (sub specie d i cessione del credito) …", avrebbe potuto comportare la condanna del C. soltanto al pagamento della penale, di L. 10 milioni, prevista nel contratto integrativo "per il caso in cui l’operazione negoziale complessiva non avrebbe avuto buon esito" e non anche alla restituzione dei 90 milioni del credito ceduto, che avrebbe dovuto passare "attraverso la risoluzione non già dell’appalto bensì della cessione", costituente quest’ultima il "corrispettivo di una compravendita, peraltro neppure oggetto di risoluzione, rispetto a cui …" il C. non era "parte nè in senso formale nè in senso sostanziale, ma puro e semplice esecutore materiale del pagamento". Le censure non meritano accoglimento.

La Corte d’Appello, sulla base di una implicita, ma evidente, considerazione unitaria della complessa fattispecie negoziale, che il ricorrente tenta di frazionare in una pluralità di rapporti distinti, senza tenere conto del palese nesso di interdipendenza funzionale che li avvince, è pervenuta alla pronunzia risolutoria sul rilievo, rimasto inconfutato, che sia il S., sia il C., non avevano adempiuto (o comunque non avevano assolto al relativo onere probatorio su di loro incombente) ai rispettivi impegni assunti nei confronti del B.. La coesistenza nello stesso contratto sia di un rapporto appalto, sia di una compravendita, nell’ambito della quale la cessione del credito assolveva ad una funzione solutoria anticipata, e la circostanza che la fornitura dei materiali e delle attrezzature, in virtù del secondo, fosse finalizzata alla esecuzione del primo, sono state correttamente considerati elementi tali da conferire al committente attore la facoltà di chiedere la risoluzione non solo dell’appalto, ma anche della compravendita, nei confronti di entrambe le controparti.

Che queste ultime fossero ciascuna obbligataci confronti dell’attore, all’adempimento sia dell’una, sia dell’altra delle connesse prestazioni, lungi dal risultare escluso, resta invece confermato dal tenore del contratto (che il ricorrente ha integralmente trascritto nella narrativa del ricorso), in particolare dalle clausole contenute nell’art. 4 (nella parte prevedente la facoltà del committente di chiedere, in caso di inadempienza del S., l’ultimazione delle opere da parte del C.) e nell’art. 6 ( contenente la previsione di una penale a favore del B., ed a carico del C., per il caso di mancata "fornitura immediata" dei materiali e delle attrezzature).

Tale essendo la complessa fattispecie negoziale dedottala pronunzia risolutoria, pur letteralmente menzionante il solo contratto "di appalto", e tuttavia completata dalla dizione "stipulata tra le parti il 19 giugno 1995" e dalla precisazione che la risoluzione veniva pronunziata "per colpa degli appellati" indistintamente, non del solo S., deve intendersi omnicomprensiva; sicchè priva di fondamento risulta la censura, secondo cui, in mancanza della "risoluzione preventiva del contratto di compravendita", la condanna del C. alla restituzione del prezzo, costituito dall’importo del credito cedutogli, sarebbe rimasta priva di giustificazione. Tale condanna, non diversamente da quella (non censurata) del pagamento della penale (necessariamente implicante l’accertamento dell’inadempienza del suddetto convenuto all’obbligazione derivante dalla compravendita), trova invece corretta giustificazione nel venir meno della causale del pagamento de quo, per effetto della contestuale pronunzia risolutoria che, investendo tutti i rapporti instaurati con l’unico contrattola travolto anche quello di compravendita, rendendo indebito il pagamento.

Conclusivamente il ricorso, in assenza di alcuna violazione o falsa applicazione delle citate disposizioni codicistiche in tema di cedibilità dei crediti, di efficaca del contratto e risoluzione dello stesso, non può che essere respinto. Nulla sulle spese, in assenza di controparti resistenti.
P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.