Cass. civ. Sez. II, Sent., 14-03-2011, n. 5935 Ricorso

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Che l’Avv. R.A., difensore d’ufficio di un imputato ammesso al patrocinio a spese dello Stato nell’ambito di un procedimento penale, ha proposto ricorso per cassazione avverso l’ordinanza del Tribunale di Catania, 2^ sezione penale, in data 15 luglio 2008, con cui è stata accolta soltanto in parte l’opposizione, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 170 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia), dalla medesima proposta contro il decreto di liquidazione degli onorari;

che il ricorso per cassazione è stato depositato nella cancelleria del giudice a quo ed è affidato a due motivi, i quali – privi del conclusivo quesito ex art. 366 bis c.p.c. (ratione temporis applicabile) – denunciano violazioni di legge.

Considerato che, successivamente alla proposizione della presente impugnazione, le Sezioni unite civili di questa Corte (sentenza 3 settembre 2009, n. 19161), chiamate a risolvere un contrasto di giurisprudenza in ordine alla qualificazione del vizio derivante dal mancato rispetto della sede civile della decisione dell’opposizione, hanno stabilito che qualora l’ordinanza che decide l’opposizione sia stata adottata da un giudice addetto al servizio penale, si configura una violazione delle regole di composizione dei collegi e di assegnazione degli affari, che non determina nè una questione di competenza nè una nullità, ma può giustificare esclusivamente conseguenze di natura amministrativa o disciplinare; ed hanno inoltre affermato, innovando il precedente orientamento, che (a) spetta sempre al giudice civile la competenza a decidere sulle opposizioni nei confronti dei provvedimenti di liquidazione dell’onorario del difensore del soggetto ammesso al patrocinio a spese dello Stato (o di persone ammesse al programma di protezione), dei compensi agli ausiliari dei giudici e delle indennità ai custodi, anche quando emessi nel corso di un procedimento penale, e che (b) l’eventuale ricorso per cassazione avverso il provvedimento che decide sull’opposizione va proposto, nel rispetto dei termini e delle forme del codice di rito civile, dinanzi alle sezioni civili della Corte;

che l’applicazione del nuovo indirizzo giurisprudenziale impone di effettuare il controllo di ammissibilità e di procedibilità dell’impugnazione secondo le regole del ricorso per cassazione in sede civile, laddove il presente ricorso, con cui viene impugnata una ordinanza resa in sede di opposizione da un giudice penale, è stato proposto in base alle regole procedurali proprie del rito penale, in conformità dell’orientamento allora dominante nella giurisprudenza di questa Corte;

che, con ordinanza interlocutoria n. 16766 del 2010, regolarmente comunicata, alla parte ricorrente è stato assegnato il termine perentorio di giorni sessanta per proporre e notificare ricorso per cassazione secondo le forme del codice di procedura civile, nonchè l’ulteriore termine perentorio di giorni venti dalla notificazione per il deposito del ricorso nella cancelleria della Corte;

che, come risulta dalla pertinente certificazione della Cancelleria, la parte ricorrente non vi ha provveduto;

che, pertanto, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, in quanto non notificato a cura della ricorrente ad alcuno e privo del prescritto quesito;

che, in difetto di instaurazione del contraddittorio, nessuna statuizione sulle spese deve essere adottata.
P.Q.M.

La Corte dichiara. inammissibile il ricorso.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

T.A.R. Lazio Roma Sez. I quater, Sent., 22-02-2011, n. 1624 Demolizione di costruzioni abusive

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

che nella specie il presente giudizio può essere definito con decisione in forma semplificata, ai sensi del menzionato art. 60, comma 1, del D.Lgs. n. 104/2010, stante la completezza del contraddittorio e della documentazione di causa;

che sono state espletate le formalità stabilite dall’art. 60 del citato D.Lgs. n. 104/2010;

Rilevato che con il gravame in esame di impugna il provvedimento, avente ad oggetto ordine di demolizione, ai sensi dell’art. 31 del d.P.R. n. 380/2001, di un manufatto in blocchi di poroton della superficie di 72 mq e di altezza variabile da 2,70 m a 4,5 m, realizzato, su piattaforma in cemento armato, in assenza di permesso di costruire e di nulla osta archeologico;

Considerato:

che pacificamente la realizzazione di un fabbricato integra un intervento di nuova costruzione, il quale richiede, quale titolo edilizio, il permesso di costruire, nella specie mancante;

che la disposizione su richiamata, in concreto applicata, concerne proprio l’ipotesi di interventi edilizi eseguiti in assenza del permesso di costruire, quando prescritto;

Ritenuto:

che, pertanto, di fronte a detto abuso edilizio, l’Amministrazione resistente, nell’esercizio di attività vincolata, fosse tenuta a comminare la sanzione demolitoria, ai sensi dell’art. 31 del d.P.R. n. 380/2001;

che, ciò evidenziato, non assuma rilevanza la dedotta conformità alla disciplina urbanistica, che, ove sussistente, non farebbe, comunque, venir meno l’obbligo di acquisire il permesso di costruire per l’opera realizzata dai ricorrenti;

Tenuto conto che la denunciata disparità di trattamento rispetto ad altri manufatti abusivi in loco è soltanto asserita e non dimostrata;

Ritenuto:

che, quanto alla dedotta violazione dell’art. 27 del d.P.R. n. 380/2001, per non essere stata l’ordinanza impugnata preceduta da ordine di sospensione dei lavori, debba rilevarsi che è stata comunque notificata la comunicazione di avvio del procedimento, funzionale alla partecipazione procedimentale, ed i ricorrenti non hanno prodotto documenti e memorie endoprocedimentali;

che in conclusione il ricorso sia infondato e debba essere rigettato;

che, in ordine alle spese, ai diritti ed agli onorari, essi seguano la soccombenza, ponendosi a carico dei ricorrenti, e debbano liquidarsi come in dispositivo;
P.Q.M.

Il Tribunale amministrativo regionale del Lazio – sezione I quater, definitivamente pronunciando, rigetta il ricorso in epigrafe.

Condanna i ricorrenti alle spese di giudizio, in favore del Comune resistente, forfetariamente quantificate in Euro 1.000,00 (mille/00), oltre I.V.A. e C.P.A..

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 12-05-2011, n. 10479 Efficacia della legge nel tempo e nello spazio Pensione di anzianità e vecchiaia

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Svolgimento del processo

1.- Con ricorso al giudice del lavoro di Verbania, il rag. C. C., premesso di avere, quale iscritto alla Cassa Nazionale di Previdenza ed Assistenza per i Ragionieri e i Periti Commerciali (CNPR), ottenuto la pensione di vecchiaia con decorrenza 1.10.06, esponeva che la prestazione era stata liquidata in applicazione dei criteri introdotti dalla Delib. del Comitato dei delegati della Cassa del 22 giugno 2002, per la quale la base di calcolo cui applicare il coefficiente di rendimento era portata dalla media dei migliori 15 redditi annuali degli ultimi 20 anteriori alla maturazione del diritto a pensione, alla media di tutti i redditi professionali percepiti per ogni anno di contribuzione.

Ritenendo illegittima la liquidazione, C. chiedeva il ricalcolo della pensione secondo i criteri anteriori al 22 giugno 2002 in applicazione del principio del pro rata, ai sensi della L. 8 agosto 1995, n. 335, art. 3, comma 12, con condanna della Cassa agli arretrati dalla data di decorrenza della pensione.

2.- Accolta la domanda, proponeva appello la Cassa lamentando che l’applicazione del criterio al pro rata fatta dal primo giudice era basata su erronea interpretazione della L. 8 agosto 1995, n. 335, art. 3, comma 12. 3.- Con sentenza pubblicata il 9.12.08, la Corte d’appello di Torino rigettava l’impugnazione, rilevando che la Delib. 22 giugno 2002 attuava la L. 8 agosto 1995, n. 335, art. 3, comma 12, per il quale gli enti, previdenziali privatizzati (quale la CNPR) erano tenuti ad assicurare la stabilità delle rispettive gestioni su un arco temporale non inferiore a 15 anni mediante l’adozione di provvedimenti di variazione delle aliquote contributive, di riparametrazione dei coefficienti di rendimento o di ogni altro criterio di determinazione del trattamento pensionistico. La norma prevedeva, tuttavia, che tali poteri dovessero rispettare il principio del pro rata in relazione alle anzianità già maturate all’introduzione delle dette modifiche.

La Cassa avrebbe, dunque, dovuto salvaguardare l’anzianità già maturata dall’assicurato, applicando il nuovo sistema di determinazione della prestazione solo per il periodo di iscrizione successivo alla modifica.

Il giudice di merito non riteneva, inoltre, che nella specie potesse tenersi conto delle modifiche apportate alla L. n. 335 del 1995, art. 3, comma 12, dalla L. 27 dicembre 2006, n. 296, art. 1, comma 763, (legge finanziaria 2007), il quale, nell’elevare ad un arco temporale non inferiore a trenta anni la stabilità delle gestioni previdenziali degli enti privatizzati e lasciando alla loro discrezionalità i limiti di applicazione del principio del pro rata, faceva salve le deliberazioni da essi adottate prima che entrasse in vigore la legge.

Quest’ultima norma non ha, infatti, carattere retroattivo o interpretativo della disciplina previdente, di modo che solo dalla sua entrata in vigore (1.1.07) l’autonomia regolamentare degli enti non incontra più i rigidi limiti previsti dal precedente testo della L. n. 335 del 1995, art. 3, comma 12. Neppure poteva ritenersi che la legge finanziaria in questione avesse voluto validare gli atti della CNPR che avevano violato la precedente disciplina.

4.- Avverso questa sentenza propone ricorso per cassazione la Cassa Nazionale di Previdenza ed Assistenza per i Ragionieri e i Periti Commerciali, cui risponde l’assicurato con controricorso e memoria.
Motivi della decisione

5.- La Cassa ricorrente deduce la violazione della L. n. 335 del 1995, art. 3, comma 12, (nel testo originario e nel testo risultante dalla modifica introdotta dalla L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 763) e dalla L. 30 dicembre 1991, n. 414, art. 1 sotto i seguenti tre profili.

5.1.- Primo motivo. Parte ricorrente sostiene che la L. n. 335 del 1995, art. 3, comma 12 non sarebbe applicabile nel caso di specie, in cui la Cassa ha proceduto non ad un riequilibrio finanziario, ma ad una riforma integrale dell’ordinamento, della struttura, delle fonti di approvvigionamento e delle modalità di erogazione delle prestazioni, la quale si è concluso con il passaggio dal sistema retributivo (a ripartizione) a quello contributivo (a capitalizzazione) a decorrere dall’1.1.04. 5.2.- Secondo motivo. Dato che, ai sensi della L. n. 414 del 1991, art. 1, il calcolo della pensione può avvenire esclusivamente al momento della maturazione dei requisiti di diritto, è alle norme vigenti in questo momento che va fatto riferimento per la considerazione dell’anzianità contributiva, che deve essere necessariamente considerata unitariamente, non essendo possibile in questo momento il suo frazionamento in più tronconi per effettuare separati conteggi per ciascun periodo e sommarne i risultati. Nel caso di specie, alla data della Delib. 22 giugno 2002 l’assicurato non aveva ancora maturato il diritto alla pensione; dovrebbe dunque trarsene la conseguenza che lo stesso non potesse vantare un diritto da tutelare con lo strumento del pro rata.

5.3.- Terzo motivo. La L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 763, nel modificare il testo della L. n. 335 del 1995, art. 3, comma 12, avrebbe validato i provvedimenti in precedenza adottati dagli Enti di previdenza e ritualmente approvati dai Ministeri vigilanti, anche se contrastanti con il testo precedente dell’art. 3, comma 12, atteso che in caso contrario essa non avrebbe alcun senso e risulterebbe superflua, in ragione dell’irretroattività della nuova e più elastica normativa introdotta in materia dalla L. n. 296 del 2006. 6.- La Cassa di previdenza propone anche un quarto motivo, con cui lamenta omessa motivazione circa la rilevanza o meno del momento in cui viene a maturazione il diritto a pensione, che nel caso di specie decorre dall’1.10.06 e, quindi, da momento successivo alla Delib. 22 giugno 2002. 7.- Il ricorso non è fondato.

8.- La controversia trae origine dalla Delib. 22 giugno 2002 del Comitato dei delegati della Cassa, per la quale la base di calcolo cui applicare il coefficiente di rendimento era stata portata dalla media dei migliori 15 redditi annuali degli ultimi 20 anteriori alla maturazione del diritto a pensione, alla media di tutti i redditi professionali percepiti per ogni anno di iscrizione e contribuzione.

Il sistema di calcolo così introdotto (ulteriormente modificato con la Delib. 7 giugno 2003, qui non rilevante) determinava una diminuzione sull’ammontare delle pensioni rispetto a quello che sarebbe stato il risultato con il sistema precedente, e quindi una minor misura della quota della pensione retributiva già maturata. Di qui la controversia, con cui il professionista ha chiesto e ottenuto le differenze di pensione, sostenendo che detta quota doveva invece essere mantenuta intatta in forza della la regola deliro rata sancita dalla L. n. 335 del 1995, art. 3, comma 12, che per quanto qui interessa recita: ‘Nel rispetto dei principi di autonomia affermati dai D.Lgs. 30 giugno 1994, n. 509, relativo agli enti previdenziali privatisti, allo scopo di assicurare l’equilibrio di bilancio in attuazione di quanto previsto dall’art. 2, comma 2, del predetto decreto legislativo, la stabilità delle rispettive gestioni è da ricondurli ad un arco temporale non inferiore a 15 anni, in esito alle risultante e in attuazione di quanto disposto dall’art. 2, comma 2, del predetto decreto, sono adottati dagli enti medesimi provvedimenti di variazione delle aliquote contributive, di riparametrazione dei coefficienti di rendimento o di ogni altro criterio di determinazione del trattamento pensionistico nel rispetto del principio del pro rata in relazione alle anzianità già maturate rispetto alla introduzione delle modifiche derivanti dai provvedimenti suddetti. Gli enti possono optare per l’adozione del sistema contributivo definito ai sensi della presente legge.

La Cassa ricorrente solleva sostanzialmente tre questioni: 1) (n. 6.2, secondo motivo di ricorso) è che il principio del pro rata non sarebbe applicabile, in via assoluta; b) (n. 6.1, primo motivo) la regola del pro rata di cui alla citata L. n. 335 del 1995, art. 3 non opererebbe nel caso della delibera in esame, perchè non concernente un mero processo di riequilibrio finanziario, ma una riforma integrale dell’ordinamento attraverso il passaggio dal sistema retributivo a quello contributivo; c) (n. 6.3, terzo motivo) la delibera in contestazione avrebbe in ogni caso ricevuto sanatoria ad opera dello ius superveniens di cui alla L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 763. 9.- Fatta questa premessa, deve rilevarsi l’infondatezza del secondo motivo di ricorso, da trattarsi prioritariamente in quanto inerente principi di carattere generale e che, come tale, ove accolto, sarebbe in grado di determinare in radice l’annullamento della sentenza impugnata.

Una sentenza di questa Corte (Cass. 25.6.07 n. 14701) ha affermato che il principio del pro rata "deve intendersi fatto dal legislatore con riferimento ai parametri suscettibili di frazionamento nel tempo e di separata valutazione in relazione ai periodi temporali di vigenza di diverse normative" con la conseguenza che non sarebbe "applicabile al sistema di calcolo della pensione, che non è suscettibile di frazionamento, in quanto può avvenire esclusivamente al momento dell’accoglimento della domanda di pensionamento e deve essere eseguito secondo le norme in vigore in quel momento".

Questo orientamento è stato però disatteso dalla successiva giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. 24.09.10 n. 20235 e 16.11.09 n. 24202). Cass. n. 24202 rileva che "il principio del pro rata – come questa Corte ha già avuto occasione di ritenere (v. la sentenza n. 22240 del 25.11.04) – non può che essere inteso nel senso enunciato (dalla L. n. 335 del 1995, art. 3, comma 12), laddove – con riferimento specifico ai lavoratori (iscritti all’assicurazione generale obbligatoria ed a forme sostitutive ed esclusive della stessa e) soggetti, nel passaggio dal sistema retribuivo al sistema contributivo di calcolo della pensione, ad entrambi i sistemi (cioè ai lavoratori che possono far valere un’anzianità contributiva inferiore a diciotto anni) – stabilisce che, in tale caso, la pensione è determinata dalla somma: a) della quota di pensione – corrispondente alle anzianità acquisite anteriormente al 31 dicembre 1995 (cioè, alla entrata in vigore del sistema contributivo) – calcolata, con riferimento alla data di decorrenza della pensione, secondo il sistema retributivo previsto dalla normativa vigente precedentemente alla predetta data; b) della quota di pensione corrispondente ai trattamento pensionistico relativo alle ulteriori anzianità contributive calcolato secondo il sistema contributivo.

Analogamente, i lavoratori iscritti ad enti privatizzati, nel caso di successione, durante il periodo dell’iscrizione, di sistemi diversi di calcolo della pensione, in ossequio al principio del pro rata, hanno diritto ad altrettante quote di pensione, da calcolare, in relazione a ciascun periodo dell’anzianità maturata, secondo il sistema rispettivamente in vigore.

La Corte, così decidendo, consapevolmente si discosta dal proprio contrario precedente (Cass. n. 14701 del 2007), il quale, trascurando la prospettata normativa di fonte legislativa, perviene alla conclusione – non sorretta tuttavia da alcuna base giuridica – secondo cui il principio del pro rata "deve intendersi fatto dal legislatore con riferimento ai parametri suscettibili di frazionamento nel tempo e di separata valutazione in relazione ai periodi temporali di vigenza di diverse normative" con la conseguenza che non sarebbe "applicabile al sistema di calcolo della pensione, che non è suscettibile di frazionamento, (in quanto) può avvenire esclusivamente al momento dell’accoglimento della domanda di pensionamento e deve essere eseguito secondo le norme in vigore in quel momento".

In conformità a questo più recente orientamento va quindi ribadito che è ben vero, in via generale, che la pensione si calcola con le regole della normativa vigente all’epoca di maturazione del diritto, tuttavia il legislatore degli ultimi anni (che si connotano per il perseguimento del risparmio della spesa previdenziale dei sistemi pubblici e privati, come nella specie), ricorre sovente alla diversa regola del pro rata, specificamente per le prestazioni pensionistiche di anzianità e vecchiaia, i cui presupposti si maturano nel corso del tempo, andando a regolare quei casi in cui la lunga anzianità assicurativa, che è prescritta come requisito, si colloca in un ambito temporale ove si succedono normative intrinsecamente diverse ed ove la più recente è solitamente meno favorevole di quella precedente.

In questi casi il legislatore – giacchè solo a lui compete la scelta – deroga alla regola generale della applicazione della legge vigente all’epoca di liquidazione della pensione, con l’ovvia finalità di non frustrare le aspettative di diritti in via di maturazione e scinde la pensione in due quote che si sommano tra loro: una quota è calcolata sulla base della anzianità assicurativa acquisita sotto il vigore della vecchia disposizione (legge o delibera com’è nella specie) e l’altra, ossia la anzianità residua, si calcola alla luce della nuova legge meno favorevole.

La stessa esigenza si ravvisa per la pensione per cui è causa, il che comporta l’infondatezza del secondo motivo di ricorso.

10.- Le argomentazioni testè svolte conducono pianamente al rigetto anche del primo motivo di ricorso (v. n. 5.1), con cui si sostiene che la L. n. 335 del 1995, art. 3, comma 12 imporrebbe l’applicazione del principio del pro rata solo nei casi di "riparametrazione dei coefficienti di rendimento o di ogni altro criterio di determinazione del trattamento pensionistico", e non già nei casi di opzione per il passaggio dal sistema retributivo a quello contributivo.

In primo luogo il tenore testuale della norma non consente questa interpretazione ed in ogni caso sarebbe incongruo escludere la regola del pro rata proprio nei casi in cui il mutamento di legislazione è più vistoso e più incide sui trattamenti pensionistici, ed imporlo invece quando le modifiche deliberate potrebbero apportare solo lievi variazioni all’ammontare delle pensioni spettanti.

Invero, è proprio nei casi di "rivoluzioni" del sistema che si fa più acuta l’esigenza di salvaguardare i diritti in via di maturazione, evitando di sottoporre tutta l’anzianità assicurativa acquisita nel vigore della vecchia normativa ad una normativa nuova, meno favorevole, emanata poco prima del conseguimento del diritto, che, in alcuni casi, opera per solo per gli ultimi anni, o addirittura degli ultimi mesi. Non è un caso, come già osservato dalla citata sentenza n. 24202 del 2009, che la più importante fattispecie di pro rata sia stata introdotta proprio dalle L. n. 335 del 1995, che ha introdotto, per le pensioni Inps, il mutamento del sistema pensionistico da retributivo a contributivo.

D’altra parte anche il sistema del pro rata rientra nell’ambito di previsione della L. n. 335 del 1995, art. 1, comma 2, che recita "Le disposizioni della presente legge costituiscono principi fondamentali di riforma economico-sociale della Repubblica, le successive leggi della Repubblica non possono introdurre eccezioni o deroghe alla presente legge, se non mediante espresse modificazioni delle sue disposizioni.

11. Infondato è anche il terzo motivo (n. 53), con cui si prospetta che la Delib. del 2002 sarebbe in ogni caso "divenuta legittima" ad opera dello ius superveniens, ossia della L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 763. Tale norma sostituisce il primo e secondo periodo della L. n. 335 del 1995, art. 3, comma 12: col primo si alza l’arco temporale da prendere in esame per assicurare l’equilibrio di bilancio degli enti previdenziali privatizzati da 15 a 30 anni; col terzo periodo (sostitutivo del secondo della precedente norma) si dispone che:

"L’esito alle risultante e in attuazione di quanto disposto dal suddetto art. 2, comma 2, sono adottati dagli enti medesimi, i provvedimenti necessari per la salvaguardia dell’equilibrio finanziario di lungo termine, avendo presente il principio del pro rata in relazione alle anzianità già maturate rispetto alla introduzione delle modifiche derivanti dai provvedimenti suddetti e comunque tenuto conto dei criteri di gradualità e di equità fra generazioni…. Sono fatti salvi gli atti e le deliberazioni in materia previdenziale adottati dagli enti di cui al comma 1 ed approvati dai Ministeri vigilanti prima dell’entrata in vigore della presente legge". 11.1.- Con l’ordinanza n. 124 del 2008 la Corte Costituzionale ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale di detta disposizione, censurata in riferimento agli artt. 3, 4, 24 e 38 Cost., nella parte in cui fa salvi gli atti e le deliberazioni adottati dagli enti previdenziali ed approvati dai Ministeri vigilanti prima dell’entrata in vigore della legge stessa e determina – secondo il rimettente – la sanatoria della Delib. 22 giugno 2002 del Comitato dei delegati della Cassa nazionale, della cui legittimità si controverteva nel giudizio a quo. Ha affermato la Corte che la questione non sembrava diretta a dirimere un dubbio di legittimità costituzionale ma si risolveva nella richiesta alla Corte di un avallo all’interpretazione, non univoca nè basata sul diritto vivente, che il rimettente riteneva dovesse essere attribuita alla norma impugnata.

Indi, con la successiva sentenza 23.10.09 n. 263, il Giudice delle leggi ha confermato il giudizio di inammissibilità, affermando che il rimettente aveva omesso di esplorare altre, pur possibili, interpretazioni della disposizione censurata, oltre quella prospettata o, quanto meno, di evidenziare le ragioni per le quali tali interpretazioni (e, in particolare, una proposta nella giurisprudenza di merito e di per sè suscettibile di eliminare in radice l’ipotizzato dubbio di costituzionalità) non sarebbero accoglibili. In relazione al consolidato insegnamento secondo cui una disposizione non si dichiara illegittima perchè suscettibile di un’interpretazione contrastante con i parametri costituzionali, ma soltanto se ne è impossibile altra a questi conforme.

11.2.- La principale differenza rispetto alla norma precedente, che imponeva il rispetto del principio deliro rata, è l’attenuazione di esso: non deve più esser "rispettato" ma si deve averlo presente tenendo altresì conto dei criteri di gradualità e di equità fra generazioni; il principio è un vincolo non più cogente, bensì elastico in quanto concorrente con esigenze di gradualità e di equità tra generazioni. Ciò significa che dal primo gennaio 2007 l’autonomia regolamentare degli enti non incontra più i limiti posti dal vecchio testo della L. n. 335 del 1995, art. 3, comma 12, ma quelli, meno rigidi, del nuovo testo.

La stessa Cassa ricorrente riconosce che non si tratta di norma interpretativa e quindi retroattiva, ma di disposizione destinata ad operare dall’1.1.07, secondo l’art. 1, u.c. della legge medesima. La Cassa invoca, però, l’ultima parte della disposizione per cui "Sono fatti salpi gli atti e le deliberazioni in materia previdenziale adottati dagli enti di cui al comma 1 ed approvati dai Ministeri vigilanti prima dell’entrata in vigore della presente legge" e sostiene che ciò che il legislatore ha voluto è proprio di far salve, per il passato, le delibere e gli atti adottati nell’esercizio di un’autonomia spintasi, in ipotesi, oltre i limiti stabiliti dalla previgente normativa, ratificando e "sanando" l’irregolarità commessa. Aggiunge la Cassa, infatti, che la disposizione sarebbe del tutto inutile se interpretata nel senso di far salvi solo gli atti pregressi purchè validi, giacchè gli atti validi non hanno necessità di alcuna ratifica.

11.3.- Tale tesi è infondata.

Va in primo luogo osservato che la disposizione invocata vale non solo per la CNPR, attuale ricorrente, ma per tutti gli organismi che gestiscono forme obbligatorie di previdenza e assistenza (escluse quelle sostitutive che pure erano incluse nell’atto di privatizzazione, D.Lgs. 30 giugno 1994, n. 509, come Enasarco, Inpgi, Enpam), ossia per le Casse Avvocati e Procuratori, Dottori Commercialisti, Geometri, Ingegneri ed Architetti. Vi sarebbe, dunque, una amplissima sanatoria di tutte le delibere di modifica della regolamentazione delle pensioni, ossia di atti, risalenti a tempi diversi e di cui nulla sia sa, neppure se abbiano contenuto "anticipatorio" della nuova legge, come la Cassa ricorrente sostiene per la sua Delib. del 2002, con l’unica condizione di essere stati approvati dai ministeri vigilanti antecedentemente al primo gennaio 2007.

Sarebbe invero incongruo ritenere che la norma abbia inteso attuare una sanatoria, proiettata nel passato, di una serie indefinita di atti delle Casse, a contenuto non identificato, i quali, all’epoca della loro emanazione, non erano conformi alla legge vigente.

Inoltre, come non si è mancato di rilevare, "far salvo" un provvedimento significa che esso non perde efficacia per effetto della nuova legge, ma, non anche, che esso sia conforme a legge, di talchè gli atti ed i provvedimenti adottati dagli enti prima della disposizione del 2006 rimangono efficaci e la loro legittimità, per i pensionamenti attuati entro il 2006, come nella specie, deve essere vagliata alla luce del vecchio testo della disposizione in quanto normativa da applicare ratione temporis.

11.4.- Va disattesa, inoltre, la tesi che solo con l’interpretazione propugnata dalla CNRP la disposizione troverebbe ragion d’essere, mentre, diversamente opinando sarebbe del tutto inutile.

Va infatti rilevato che il mantenimento di efficacia di tali atti si giustifica invece pienamente per il periodo "successivo" all’entrata in vigore della legge del 2006, ossia dopo le modifiche apportate dalla disposizione in commento, allorquando è stato modificato il procedimento per l’emanazione dei provvedimenti delle Casse, basati non più sui bilanci tecnici redatti dai singoli Enti com’era in precedenza ( D.Lgs. n. 509 del 1994, art. 2, comma 2), ma "in esito" ad un bilancio tecnico redatto secondo criteri determinati dal Ministero dell’Economia, sentiti gli enti interessati, sulla base delle indicazioni elaborate dal Consiglio nazionale degli attuali, nonchè del nucleo di valutazione della spesa previdenziale.

Si poteva infatti ritenere che, in relazione ai periodi successivi all’entrata in vigore della legge, ossia dal primo gennaio 2007 in poi, non ci si potesse più avvalere delle delibere precedenti, che quindi fossero da ritenere automaticamente caducate, perchè non elaborate alla stregua dei nuovi criteri. La ratifica era quindi necessaria, perchè sorgeva la necessità di conferire ultrattività alle vecchie delibere, anche se non redatte ai sensi della nuova legge ormai vigente ratione temporis. In altri termini, la sanatoria di cui all’ultima parte del comma 763 è funzionale a coprire il periodo successivo all’entrata in vigore della legge, allorquando le regole per le delibere erano già state modificate, ma non si era avuto ancora il tempo di adottarle secondo le prescrizioni del nuovo sistema. Si tratta in definitiva di una norma transitoria per non paralizzare l’attività degli enti.

Conclusivamente, dovendosi escludere sanatorie di sorta della delibera della Cassa del 2002 ad opera della legge del 2006, la medesima è illegittima, onde il motivo va rigettato.

12.- Il quarto motivo, prima ancora che infondato, è inammissibile.

Infatti la giurisprudenza di questa Corte, anche a Sezioni Unite, ha affermato che, poichè secondo l’art. 366 bis c.p.c. (applicabile ratione temporis nella presente causa), nel caso previsto dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’illustrazione di ciascun motivo deve contenere, a pena di inammissibilità, la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la renda inidonea a giustificare la decisione, la relativa censura deve contenere, un momento di sintesi (omologo del quesito di diritto) che ne circoscriva puntualmente i limiti, in maniera da non ingenerare incertezze in sede di formulazione del ricorso e di valutandone della sua ammissibilità (cfr., ex plurimis, Cass., S.u, 21.10.07 n. 20603).

Nel caso di specie la parte ricorrente non ha adempiuto a tale onere e, pertanto, il motivo all’esame risulta inammissibile.

Nè a diverse conclusioni potrebbe giungersi tenendo conto del riferimento fatto alla L. 30 dicembre 1991, n. 414, art. 1, comma 4, sia per la mancata formulazione del quesito di diritto ex art. 366 bis c.p.c. in relazione all’eventuale violazione di tale norma, sia perchè, secondo il costante orientamento di questa Corte, la violazione o falsa applicazione di norme di diritto, che, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, ricorre nel caso di errata interpretazione o applicazione di una norma, non può essere denunciata in Cassazione come vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, perchè tale vizio è riferito dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, alla ricostruzione della concreta fattispecie e può dare luogo solo al controllo della giustificazione del giudizio sulla ricostruzione del fatto (cfr., ex plurimis, Cass. 10.1.95 n. 228 e 12.4.02 n. 5271).

13.- In definitiva il ricorso va rigettato.

Deve dunque affermarsi che è illegittimo il provvedimento di liquidazione della quota retributiva di pensione (avendo determinato il reddito professionale, su cui liquidare la pensione, non già, com’era in precedenza, sulla base "dei quindici redditi professionali annuali dichiarati dall’iscritto ai fini Irpef per gli ultimi venti anni di contribuzione anteriori a quello di maturazione del diritto a pensione", ma sulla base della "media di tutti i redditi professionali annuali"), ove effettuato dalla Cassa in violazione della regola del pro rata di cui alla L. 8 agosto 1995, n. 335, art. 3, comma 12, applicabile anche alle pensioni per cui è causa.

Deve, inoltre, affermarsi che il disposto della L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 763 va interpretato nel senso che la disposta salvezza degli atti e delle deliberazioni in materia previdenziale adottati dagli enti di cui al D.Lgs. n. 509 del 1994 ed approvati dai Ministeri vigilanti, non vale a sanare la illegittimità dei provvedimenti adottati in violazione della precedente legge vigente al momento della loro emanazione.

Le spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 40 (quaranta) per esborsi ed in Euro 2.000 (duemila) per onorari, oltre spese generali, Iva e Cpa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. V, Sent., 10-06-2011, n. 12767 Imposta locale sui redditi – ILOR

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con ricorso notificato (nel domicilio eletto in primo grado) a S.R., l’AGENZIA delle ENTRATE – premesso che (1) "su disposizione della Procura della Repubblica… il Nucleo Regionale di Polizia Tributaria… di Palermo ha eseguito indagini sul conto di…

S.R. e Ro. per il reato di usura"; (2) "dalle indagini è(ra) emerso che gli indagati, oltre a gestire alcune società ed a stornare le relative provviste sui propri conti personali, utilizzavano svariati conti correnti aperti presso vari istituti di credito ed a loro intestati per compiere ingenti movimentazioni finanziarie attraverso operazioni di prestito, di riscossione di assegni e di sconto e rinnovazione di effetti (pagg. 1- 3 del p.v. di constatazione redatto in data 25 giugno 1997)"; (3) "taluni conti intestati agli indagati, residenti entrambi nel Comune di (OMISSIS), erano aperti presso gli stessi istituti di credito (Banco di Sicilia e Banca del Popolo, pagg. 1 e 2 p.v.c.)";

4) "dall’esame dei conti i verbalizzanti desumevano la sostanziale fungibilità dell’uno rispetto alle operazioni compiute dall’altro (pag. 3, righi 15 e 16, p.v.c.)"; (5) "nel corso delle indagini veniva acquisita la deposizione di… C.P. (contabile delle società gestite dai S.), L.G. (ex amministratore di una di tali società) e S.G. (cliente debitore degli indagati), i quali concordemente dichiaravano che "i S." (al plurale) gestivano una contabilità parallela per svolgere, accanto alle attività ufficiali, una attività finanziaria occulta, praticando tassi usurai del 60% annuo circa (pag. 12 p.v.c.)"; (6) "sulla base delle prove raccolte, con sentenza del 25 luglio 1996 il Tribunale di Termini Imerese irrogava ai…

S., su richiesta da essi stessi formulata ai sensi dell’art. 444 c.p.p., la pena di anni uno e mesi due di reclusione e di L. 2.000.000 per i reati di cui agli artt. 62 bis, 81 cpv., 110, 612, 56, 629, 640, 644 e 644 bis c.p., (pag. 2 del p.v.c.)") (7) "sulla base di autorizzazione ad utilizzare a fini fiscali i dati risultanti dall’indagine penale rilasciata dal competente Procuratore della Repubblica in data 13 giugno 1997, la Guardia di Finanza ha intrapreso una verifica fiscale nei confronti di S.R. e Ro., quali soci di una società di fatto costituita e gestita occultamente per svolgere attività usuraie illecite": "i verbalizzanti hanno ricostruito tutti i flussi finanziari risultanti dai conti a loro intestati, hanno eliminato le operazioni neutre (quali i giroconti) ed hanno ipotizzato la produzione di un reddito di impresa in misura pari al 60% degli accreditamenti (così depurati) risultanti dai predetti conti"; (8) "sulla base delle rilevazioni della Guardia di Finanza" l’Ufficio "ha notificato alla s.d.f. Severina Raimondo e Rosario un avviso di accertamento per l’anno 1994 ai fini ILOR, contestando un reddito non dichiarato di L. 652.871.000 quale importo degli interessi usurari percepiti al tasso del 60% sul capitale impiegato di L. 1.088.117.000 risultante dall’analisi dei conti bancari" -, in forza di tre motivi, chiedeva di cassare la sentenza n. 74/04/05 della Commissione Tributaria Regionale della Sicilia (depositata il 20 ottobre 2005) che aveva respinto l’appello dell’Ufficio avverso la decisione (446/12/98) della Commissione Tributaria Provinciale di Palermo la quale aveva accolto il ricorso ritenendo "non sussistente la… società di fatto".

L’intimato non svolgeva attività difensiva.
Motivi della decisione

p.1. La sentenza impugnata.

A. La Commissione Tributaria Regionale premette:

– "l’Ufficio… notificava a S.R. quale socio di una società di fatto intercorrente tra lo stesso e Se.Ro. avviso di accertamento con il quale veniva determinato un reddito netto per l’anno 1994 di L. 442.788.000 con una conseguente imposta IRPEF di L. 195.438.000 oltre le sanzioni";

– "l’avviso di accertamento era basato sulle risultanze di un processo verbale di constatazione redatto dalla Guardia di Finanza in data 25 giugno 1997, nel corso delle indagini svolte su delega del Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Termini Imerese ai fini della ricostruzione dei flussi finanziari riconducibili ai soggetti sopraindicati";

– " S.R. e Se.Ro. hanno impugnato l’avviso di accertamento" (a) "contestando l’esistenza della società di fatto" ("erroneamente ipotizzata… sulla scorta di elementi indiziari quali la doaumentazione bancaria e le dichiarazioni rese da certo C.P."), (b) eccependo (b1) che "l’avviso di accertamento era illegittimo perchè motivato solo per relationem al verbale della Guardia di Finanza, la quale nel corso degli accertamenti non aveva osservato le disposizioni in materia di assistenza all’imputato" ("tra l’altro due dei conti correnti esaminati erano cointestati a persone estranee alle indagini"), (b2) che "il verbale di constatazione ed il conseguente accertamento si fondavano su dichiarazioni rese da terzi in base alle quali veniva determinata la pretesa tributaria" e (b3) che "fino alla data del 7 marzo 1994 (data della sentenza della Corte di Cassazione a Sezione Unite) i proventi di attività illecita non costituivano reddito tassabile";

– "L’Ufficio… ha proposto appello" (a) contestando "le motivazioni della sentenza in ordine al disconoscimento dell’esistenza della società di fatto" e (b) ribadendo "la validità del proprio accertamento basato sulle risultanze della verifica della Guardia di Finanza, nonchè la tassabilità dei proventi derivanti da attività illecita";

– " S.R. e Se.Ro. non si sono costituiti in questo grado".

B. La Commissione Tributaria Regionale, quindi, ha respinto l’appello osservando:

(a) sull’"esistenza" della "società di fatto tra i contribuenti" che, secondo l’Ufficio "emergerebbe dalla circostanza che i S. operavano nel settore economico e finanziario utilizzando società regolarmente costituite ed operanti secondo criteri formali di conformità alla normativa che disciplina il settore e contemporaneamente utilizzavano i conti correnti personali per finanziare operazioni illecite" ed in ordine alla quale "non sarebbe necessaria una manifestazione di volontà espressa" essendo "sufficienti degli atti all’esterno apprezzabili come sociali, in quanto il contratto societario si può perfezionare per effetto del comportamento dei soci (rectius soggetti) corrispondente al contenuto del contratto di cui all’art. 2247 c.c." ("i S., secondo l’Ufficio, avrebbero compiuto volontariamente atti all’esterno apprezzabili come sociali"), che "la ricostruzione operata dall’Ufficio… non sembra sor-retta da un ragionamento logico- giuridico" perchè:

(a1) "la configurabilità di una società di fatto deve risultare chiaramente da prove specificatamente riguardanti i suoi requisiti tipici, quali la costituzione di un fondo comune, l’attività comune, la partecipazione agli utili ed alle perdite, il vincolo di collaborazione tra i soggetti", cioè "elementi tutti che non sembrano risultare dagli atti di causa"; "mancano, inoltre, o non sono provate, manifestazioni esteriori dell’attività di gruppo che per la loro sistematicità e concludenza evidenzino l’esistenza della società, anche nei rapporti interni"; peraltro "in caso di società di fatto che si assume sussistere fra consanguinei (nella specie i presunti soci sono padre e figlio) la prova del vincolo societario deve essere particolarmente rigorosa, occorrendo che essa si basi su elementi e circostante evidenti, tali da escludere che l’intervento del familiare possa essere motivato dalla affectio familiaris, sicchè di regola non è sufficiente l’attività di impresa in comune per ipotizzare una società di fatto, in quanto può trattarsi di atti spiegabili anche in chiave di solidarietà familiare (Cass. n. 6770 del… 1996)";

(a2) "nel caso… manca anche qualsiasi elemento che possa fare presumere l’affectio societatis che è l’intenzione dei soggetti di vincolarsi e di collaborare per conseguire risultati patrimoniali comuni nell’esercizio collettivo di una attività imprenditoriale", ovverosia "mancano… non solo elementi concreti che possano provare l’esistenza della società di fatto fra i S., ma anche semplici elementi che possano essere assunti come presunzioni semplici che, come hanno sostenuto i primi giudici, "non essendo dotate del carattere di specialità della presunzione legale, debbono avere il carattere della precisione e concordanza, in presenza di elementi coordinabili"; per il giudice a quo, quindi, "la tesi dell’appellante… è fondata su fatti meramente indiziari in quanto non solo manca il fondo comune, ma i conti correnti bancari controllati sono individuali e non cointestati ai due soggetti ed alcuni, addirittura, sono cointestati con altri soggetti non coinvolti nell’indagine della guardia di finanza";

(b) sull’"accertamento bancario", che "dal processo verbale di constatazione risulta soltanto il giro di affari complessivo annuo, senza alcuna indicazione relativa alle singole operazioni che hanno interessato i conti" ("nè risulta dagli atti di causa che l’Amministrazione finanziaria abbia esaminato i singoli movimenti o che di essi abbia chiesto notizie al contribuente in modo da porlo nelle condizioni di fornire eventuali valide giustificazioni sulla natura dei movimenti stessi");

(c) "la determinazione degli interessi attivi che l’appellata avrebbe percepito è discutibile in guanto per poterli quantificare sono necessari tre parametri, e cioè il capitale, il tempo ed il tasso, e tutti e tre debbono essere certi" mentre "nel caso" (c1) "l’ammontare del capitale non è certo in quanto la sommatoria dei movimenti bancari non rappresenta il capitale impiegato" ("basterebbe, ad esempio, versare e prelevare giornalmente un Euro, ed a fine anno risulterebbe una movimentazione in entrata di 365,00 Euro ed altrettanto in uscita, mentre il capitale impiegato sarebbe soltanto di un Euro: l’Amministrazione ha calcolato, invece, gli interessi sulla intera movimentazione"), (c2) "il tempo non è certo in quanto l’impiego può essere avvenuto per un giorno come per l’intero anno, il che non emerge dagli atti di causa" e (c3) "il tasso non è certo ma soltanto presunto".

In definitiva, per la Commissione Tributaria Regionale "le presunzioni dell’Ufficio sono carenti degli elementi di certezza, presunzione e concordanza e non possono essere prese a base dell’accertamento impugnato" e "l’accertamento… appare… non motivato e privo degli elementi necessari per sostenerlo, anche perchè, per la determinazione del reddito l’Ufficio si è basato sulle dichiarazioni rese nel corso delle indagini da soggetti terzi, ed in particolare da quelle rilasciate da tale C.P., dichiarazioni che non possono trovare ingresso nel processo tributario stante l’esplicito divieto posto alla testimonianza dal D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 7". p.2. Il ricorso dell’Agenzia.

L’Agenzia – esposto aver " S.R. e Ro." ("presunti soci della società") contestato "la sussistenza della società di fatto ipotizzata dai verbalizzanti" nonchè "dedotto" (1) che "l’impugnato avviso di accertamento sarebbe illegittimo perchè motivato per relationem al p.v.c. della Guardia di Finanza", (2) che "nella verifica fiscale non sarebbero state osservate le disposizioni in materia di assistenza dell’imputato", (3) che "l’accertamento si basava su dichiarazioni di terzi, asseritamente non utilizzabili" e (4) che "all’epoca dei fatti i proventi di attività illecita non costituivano reddito tassabile" – impugna la decisione per tre motivi.

A. Con il primo la ricorrente denunzia "violazione e falsa applicazione del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39, dell’art. 2247 c.c., e segg., e art. 2697 c.c., dell’art. 115 c.p.c., e dell’art. 654 c.p.p.", nonchè "insufficiente ed illogica motivazione su punti decisivi della controversia", esponendo:

– poichè "l’accertamento dell’Ufficio è fondato su alcune circostanze che devono ritenersi assolutamente pacifiche, perchè mai contestate" ("in particolare… la circostanza che… S. R. e Ro. abbiano movimentato ingentissime risorse finanziarie per svolgere attività di finanziamento ad interessi usurai", come "risulta inequivocabilmente" dall’"analisi dei conti bancari ad essi intestati" e dalla "sentenza penale di condanna"), l’"affermazione dei giudici tributaria secondo cui l’Amministrazione avrebbe dovuto provare in termini particolarmente rigorosi l’esistenza di una società di fatto tra i due imputati di tale illecita attività attraverso elementi e circostanze evidenti,.. specificamente riguardanti i suoi requisiti tipici, quali la costituzione di un fondo comune, l’attività comune, la partecipazione agli utili e alle perdite, il vincolo di collaborazione tra i soggetti, nonchè attraverso manifestazioni esteriori dell’attività di gruppo che per la loro sistematicità e concludenza evidenzino l’esistenza della società, anche nei rapporti interni", "appare manifestamente illogica" in quanto, dovendo "il rigore della prova… essere posto in relazione con la natura dei fatti da provare", "nel caso di svolgimento di un’attività penalmente illecita" ("quale è pacificamente quella svolta dai…

S.") "è assurdo pretendere che il loro accordo si dovesse esteriorizzare in forme evidenti ed attraverso manifestazioni che per la loro sistematicità e concludenza evidenzino l’esistenza della società" in quanto "lo svolgimento di un’attività penalmente illecita si realizza per sua natura in forme occulte" per cui "non ha senso pretendere elementi evidenti e manifestazioni esterne dell’accordo associativo, sotto pena di rendere sostanzialmente impossibile la prova che si intende fornire": "nel contesto sopra descritto", quindi, "i giudici tributar avrebbero dovuto esigere prove meno apparenti e avrebbero dovuto meglio valorizzare, secondo il comune buon senso, gli elementi presuntivi emersi nel caso";

– "questi elementi sono stati integralmente trascurati dai giudici a quibus, che si sono limitati ad esprimere inconferenti considerazioni astratte sul rigore della prova che avrebbe dovuto essere fornita dall’Ufficio", "in particolare, la C.T.R. non ha considerato lo stretto rapporto di parentela esistente tra i… S.; la ristrettezza dell’ambiente nel quale operavano; l’identità del disegno delittuoso da essi posto in essere; la coincidenza delle condizioni di spazio e di tempo in cui essi hanno operato l’attività illecita loro ascritta; il contenuto delle concordi dichiarazioni rese da… C., L. e S. (certamente ammissibili nel rito tributario, per le ragioni che saranno meglio esplicitate nel successivo motivo di gravame), che hanno imputato promiscuamente ai… S. l’attività usuraia posta in essere";

– "tutte queste circostanze apparivano logicamente idonee a far presumere, secondo l’id quod plerumque accidit, l’esistenza di un pactum societatis, ancorchè non formalizzato in atti esteriori".

La ricorrente aggiunge che "la C.T.R. ha… del tutto ignorato l’esito del processo penale celebrato a carico dei… S., sebbene l’art. 654 c.p.p., correttamente interpretato, consentisse loro di trarre elementi di valutazione e di giudizio": "in particolare, essi hanno ignorato che ai… S. è stata contestata l’ipotesi del concorso, ex artt. 81 e 110 c.p.p., e che la condanna loro inflitta ha riconosciuto la sussistenza del rapporto associativo"; "la circostanza che la condanna sia stata emessa a seguito di patteggiamento, ai sensi dell’art. 444 c.p.p., implica anzi il sostanziale riconoscimento di tale circostanza da parte degli stessi imputati" ("l’omessa considerazione di questi elementi rilevanti integra certamente il vizio di violazione dell’art. 115 c.p.c., e art. 654 c.p.p., nonchè quello di omesso o insufficiente esame di punti decisivi della controversia").

B. Con l’altro motivo l’Agenzia censura l’affermazione della "C.T.R." secondo cui "l’accertamento sarebbe illegittimo anche perchè l’Ufficio avrebbe indebitamente determinato il reddito percepito nella misura del 60% dei capitali affluiti sui conti bancari dei…

S., mediante l’indebita utilizzazione delle dichiarazioni rese ai verbalizzanti dai testimoni sentiti" e denunzia "violazione e falsa applicazione del D.P.R. 29 settembre 1972, n. 600, art. 32, comma 1, n. 2, e dell’art. 39, comma 2, e del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 7", oltre che "insufficiente ed illogica motivazione su punti decisivi della controversia", sostenendo che "l’accertamento avrebbe dovuto essere confermato anche nel quantum" perchè:

– "i giudici a quibus non hanno considerato che la determinazione del reddito mediante applicazione del tasso di interesse del 60% sull’ammontare dei versamenti affluiti sul conto, ha costituito una misura di favore per la società di fatto, perchè l’Ufficio era legittimato a recuperare a tassazione l’intero importo dei versamenti risultanti dai conti bancari, secondo il disposto del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, comma 1";

– "la sentenza impugnata è manifestamente illegittima nella parte in cui nega validità probatoria alle concordi dichiarazioni rese dai testi sentiti dalla Guardia di Finanza in merito all’ammontare del tasso di interesse applicato (5% mensile circa)" in quanto (1) "la mancata dichiarazione dei redditi illecitamente percepiti legittimava l’Ufficio ad effettuare l’accertamento in via induttiva, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 2, ricorrendo anche ad elementi privi dei requisiti di gravità, precisione e concordanza" e (2) "l’utilizzazione delle dichiarazioni rese dai (recte: ai) verbalizzanti" è "perfettamente legittima" perchè "il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, si limita a vietare la testimonianza come mezzo istruttorio, e non pure come prova in senso sostanziale (cfr., tra le tante, Cass., 25 marzo 2002, n. 4269; Cass., 15 novembre 2000, n. 14774; Cass., 19 dicembre 1997, n. 12854; nonchè Corte Cost. 21 gennaio 2000, n. 18)".

C. In terzo (ed ultimo) luogo l’Agenzia impugna la affermazione per la quale l’"insussistenza della società di fatto comporterebbe automaticamente l’integrale annullamento dell’accertamento eseguito nei confronti dei presunti soci" e denunzia "violazione e falsa applicazione degli artt. 2261 e 2293 c.c., e dei principi generali del contenzioso tributario" affermando che tale "ragionamento appare manifestamente erroneo" perchè "i redditi della società di fatto si identificano con la somma dei redditi accertati a carico dei singoli soci", con la conseguenza che "una volta esclusa l’esistenza dell’accordo associativo, l’accertamento dei redditi di partecipazione imputati ai soci conserverebbe comunque validità, sia pure nei limiti dei redditi direttamente ascrivibili alla propria attività".

Per la ricorrente, poi, "l’asserita illegittimità dell’accertamento, nella parte concernente la causale e la misura del reddito accertato, non esclude la responsabilità personale del socio, nei cui confronti l’accertamento è stato diretto quale componente della società, nei limiti dei redditi da lui direttamente prodotti ed a lui direttamente a scrivibili", "questa tesi trova conforto nel principio generale" ("costantemente affermato dalla giurisprudenza di questa… Corte") "secondo cui il giudizio tributario non si riduce all’esame della legittimità formale dell’atto impugnato, si estende al marito del rapporto, essendo diretto a verificare la fondatezza della pretesa impositiva": "in base a questo principio, la C.T.R. non poteva limitarsi a sostenere che l’atto impositivo conseguiva ad altro accertamento eseguito nei confronti di una società di fatto, ma avrebbe dovuto altresì verificare se potesse comunque affermarsi la personale responsabilità del socio ricorrente, nei limiti del maggior reddito a lui personalmente ascrivibile per l’attività da lui stesso compiuta. Sussistevano infatti tutti gli elementi di sostanza e di forma perchè l’accertamento potesse esplicare efficacia a questi più ridotti fini, perchè alla determinazione del reddito di partecipazione accertato concorre certamente il reddito prodotto in proprio". p.3. Le ragioni della decisione.

Il ricorso deve essere accolto perchè fondato.

A. Dalla sentenza impugnata, invero, si evince che il giudice di appello pone a base della sua decisione, essenzialmente, l’affermazione (chiarificatrice, quand’anche espressa in fine della motivazione, della ratio effettiva che lo ha ispirato) secondo cui "l’accertamento… appare… non motivato e privo degli elementi necessari per sostenerlo, anche perchè, per la determinazione del reddito l’Ufficio si è basato sulle dichiarazioni rese nel corso delle indagini da soggetti terzi, ed in particolare da quelle rilasciate da tale C.P., dichiarazioni che non possono trovare ingresso nel processo tributario stante l’esplicito divieto posto alla testimonianza dal D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 7".

Il richiamo a tale "divieto" evidenzia la mancata considerazione delle "dichiarazioni rese nel corso delle indagini da soggetti terzi" e, quindi, in sostanza, la (volontariamente, perchè ritenuta oggetto di allegazione inutilizzabile) omessa considerazione degli elementi probatori offerti dall’Ufficio a suffragio della sua pretesa fiscale, anche quanto all’esistenza di una società di fatto tra padre e figlio.

Siffatto richiamo, però, mostra, altresì, l’erronea ricognizione della effettiva latitudine della norma di cui al quarto comma (numerazione originaria) del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 7, (per il quale nel processo tributario "non sono ammessi il giuramento e la prova testimoniale") essendo pacifico nella giurisprudenza di questa Corte (cfr., da ultimo, Cass., trib., 10 marzo 2010 n. 5746, la quale richiama "Cass. n. 903 del 2002 e n. 9402 del 2007", ex multis) che il "divieto" detto – diversamente da quanto ritenuto nella sentenza impugnata – "si riferisce" soltanto "alla prova testimoniale da assumere nel processo" ("che è necessariamente orale, di solito ad iniziativa di parte, richiede la formulazione di specifici capitoli, comporta il giuramento dei testi, e riveste, conseguentemente, un particolare valore probatorio") ma "non implica… l’inutilizzabilità, ai fini della decisione, delle dichiarazioni raccolte dall’Amministrazione nella fase procedimentale e rese da terzi e cioè da soggetti terzi rispetto al rapporto tra il contribuente – parte e l’Erario": "tali dichiarazioni", infatti, hanno comunque "il valore probatorio proprio degli elementi indiziari" per cui "danno luogo a presunzioni" (costituenti prove dei fatti ex art. 2727 c.c. e ss.) "qualora rivestano i caratteri di gravità, precisione e concordanza di cui all’art. 2729 c.c.".

La "natura e la valenza di elementi indiziari, nel processo tributario, del contenuto delle dichiarazioni" dette, inoltre, "non muta" sia che l’"acquisizione delle dichiarazioni di terzi sia realizzata in via diretta in fase di verifica" sia nel caso in cui si utilizzino "come fonte gli atti di un giudizio civile o penale".

Il giudice tributario, infatti (Cass., trib., 14 maggio 2010 n. 11785), "nell’esercizio dei propri autonomi poteri di valutazione… del materiale probatorio acquisito agli atti ( art. 116 c.p.c.)", deve ("in ogni caso") verificare la "rilevanza" di quel "materiale" (anche di quello penale) nell’"ambito specifico" (tributa rio) "in cui esso è destinato ad operare".

B. Del pari giuridicamente erronee si palesano le considerazioni svolte dal giudice di secondo grado in ordine all’"accertamento bancario" ("dal processo verbale di constatazione risulta soltanto il giro di affari complessivo annuo, senza alcuna indicazione relativa alle singole operazioni") atteso che le stesse, nella sostanza, fanno "malgoverno" (Cass., trib., 13 settembre 2010 n. 19493) dei "seguenti consolidati principi":

– "i dati raccolti dell’Ufficio in sede di accesso ai conti correnti bancari del contribuente consentono, in virtù della presunzione contenuta nel D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, e art. 39, di imputare gli elementi da essi risultanti direttamente a ricavi dell’attività svolta dal medesimo, salva la possibilità per il contribuente di provare che determinati accrediti non costituiscono proventi della detta attività (v., tra le molte, Cass. 11 gennaio 2008 n. 430;

Cass. 13 febbraio 2006 n. 3115; Cass. 29 maggio 2003 n. 8614; Cass. 29 marzo 2002 n. 4601)";

– detta "presunzione legale… vincola l’Ufficio tributario ad assumere per certo che i movimenti bancari effettuati sui conti correnti intestati al contribuente siano a lui imputabili, senza che risulti necessario procedere all’analisi delle singole operazioni, la quale è posta a carico del contribuente, in virtù dell’inversione dell’onere della prova (Cass. 7766/08; 2821/08; 7329/03; 7267/02;

15447/01)".

Le medesime norme, ancora (Cass., trib., 21 gennaio 2009 n. 1452, ex multis), "autorizzano l’Ufficio finanziario a procedere all’accertamento fiscale anche attraverso indagini su conti correnti bancari formalmente intestati a terzi, ma che si ha motivo di ritenere connessi ed inerenti al reddito del contribuente, acquisendo dati, notizie e documenti di carattere specifico relativi a tali conti, sulla base di elementi indiziari tra i quali può assumere rilievo decisivo la mancata risposta del contribuente alla richiesta di chiarimenti rivoltagli dell’Ufficio in ordine ai medesimi conti, e senza che l’utilizzabilità dei dati dagli stessi risultanti trovi ostacolo nel divieto di doppia presunzione, attenendo quest’ultimo alla correlazione tra una presunzione semplice ed un’altra presunzione semplice, e non già al rapporto con una presunzione legale, quale è quella che ricorre nella fattispecie in esame (V. pure Cass. Sentenze n. 27032 del 21/12/2007, n. 18421 del 2005, n. 6232 del 2003)": in particolare, in base alle richiamate disposizioni, "devono ritenersi legittime" le "indagini bancarie estese ai congiunti del contribuente persona fisica" ("ovvero a quelli degli amministratori della società contribuente") essendo "il rapporto familiare sufficiente a giustificare, salva prova contraria, la riferibilità al contribuente accertato delle operazioni riscontrate sui conti correnti bancari degli indicati soggetti".

C. Nella giurisprudenza di questa Corte, ancora, è "pacifico" (Cass., un., 31 luglio 2006 n. 17289, da cui gli excerpta, nonchè, ex multis, Cass., trib.: 3 dicembre 2010 n. 24587; 3 agosto 2007 n. 17105; 21 dicembre 2007 n. 27022; 22 marzo 2006 n. 6380; 30 settembre 2005 n. 19251; 19 dicembre 2003 n. 19505) che "la sentenza penale emessa a seguito di patteggiamento ai sensi dell’art. 444 c.p.p., costituisce un importante elemento di prova nel processo civile" (atteso che "la richiesta di patteggiamento dell’imputato implica pur sempre il riconoscimento del fatto-reato") per cui "il giudice, ove intenda disconoscere tale efficacia probatoria, ha il dovere di spiegare le ragioni per cui l’imputato avrebbe ammesso una sua responsabilità non sussistente e il giudice penale abbia prestato fede a tale ammissione (cfr. le sentenze di questa Corte n. 2213 del 1 febbraio 2006 e n. 19251 30 settembre 2005)": "la sentenza di applicazione di pena patteggiata", infatti, "pur non potendosi tecnicamente configurare come sentenza di condanna (anche se è a questa equiparabile a determinati fini), presuppone pur sempre una ammissione di colpevolezza che esonera la controparte dell’onere della prova (Cass. 5 maggio 2005, n. 9358)".

D. Una "società di fatto", per scolastica nozione, si forma per facta concludentia e, se costituita per svolgere (e/o se ha svolto) attività commerciale (quale definita nell’art. 2195 c.c.), è regolata dalle disposizioni dettate per la società in nome collettivo irregolare dall’art. 2297 c.c. il quale (al comma 1), per quanto concerne "i rapporti tra la società e i terzi" (quindi anche quelli con il fisco), rinvia ("sono regolati dalle") alle "disposizionirelative alla società semplice", lasciando comunque "ferma" la "responsabilità illimitata e solidale tra tutti i soci".

In sintesi: nella società di fatto "qualunque obbligo sociale, in qualunque modo sorto, fa nascere nel socio l’obbligo corrispondente" (Cass., 1^, 11 maggio 2005 n. 9917, che ricorda "Cass. 17 gennaio 2003 n. 615").

Conseguentemente va ribadito il principio secondo cui (Cass., trib., 9 maggio 2007 n. 10584) "nella società in nome collettivo" (il cui regime, come detto, regola anche la società di fatto svolgente attività commerciale) "tutti i soci rispondono solidalmente e illimitatamente per le obbligazioni sociali di ogni specie, tra cui anche le obbligazioni legali e quelle tributarie, fino al giorno in cui si verifica lo scioglimento, che non e opponibile ai terzi fino alla sua idonea conoscibilità".

E. Il D.P.R. dicembre 1986, n. 917, art. 5, comma 1, come noto, dispone che "i redditi delle società semplici, in nome collettivo e in accomandita semplice residenti nel territorio dello Stato sono imputati a ciascun socio, indipendentemente dalla percezione, proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili".

Il D.P.R. 29 settembre 1973, n. 599, a sua volta, dopo aver definito (all’art. 1, comma 1) il "presupposto dell’imposta locale sui redditi" (ILOR) come "il possesso di redditi in denaro o in natura, continuativi od occasionali, prodotti nel territorio dello Stato, ancorchè esenti dall’imposta sul reddito delle persone fisiche o dall’imposta sul reddito delle persone giuridiche", al medesimo art. 1, comma 2, lett. b) esclude espressamente "dall’imposta … i redditi derivanti dalla partecipazione in società di ogni tipo e dalla partecipazione in enti soggetti all’imposta sul reddito delle persone giuridiche".

Lo stesso D.P.R. n. 599 del 1973, art. 2, comma 1, infine, qualifica "soggetti passivi dell’imposta", per quanto qui rileva, "le persone fisiche, le società di ogni tipo, comprese le società semplici, in nome collettivo e accomandita semplice".

Dal coordinato disposto di tali norme discende che, in ipotesi (quale quella di specie) di "società di fatto" tra due o più soggetti, l’ILOR fa carico alla società mentre l’IRPEF (o l’IRPEG se uno dei soci di fatto è una società regolare) deve essere corrisposta dal singolo socio "proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili".

Per le medesime norme, inoltre, le "persone fisiche" che siano in "possesso di redditi in denaro o in natura, continuativi od occasionali" sono obbligate al pagamento dell’ILOR anche per i "redditi" che siano "esenti dati imposta sul reddito delle persone fisiche o dall’imposta sul reddito delle persone giuridiche": se detti "redditi" non sono "esenti" da IRPEF (od IRPEG), il contribuente (nel concorso dei presupposti di legge) è obbligato al pagamento sia dell’ILOR che dell’IRPEF (od IRPEG) sui medesimi.

F. Dalla coordinazione logico-giuridica dei principi richiamati ai punti D. ed E. che precedono discende che (a) in ipotesi di accertata esistenza di una società di fatto tra più "persone", queste sono "soggettipassivi" ("proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili" di ognuna) soltanto dell’imposta sui redditi perchè la società è soggetta passiva dell’ILOR, mentre (b) in ipotesi di accertata inesistenza di quella società, il soggetto passivo di entrambe le imposte per il reddito prodotto dall’attività economica ascritta (in origine) alla società di fatto (risultata inesistente) va individuato (nei limiti quantitativi, ovviamente, della contestazione dell’Ufficio) nella persona cui sia riconducitele quell’attività: la mancanza, nella società di fatto, di una personalità distinta da quella dei (pretesi) soci, infatti, impone di ritenere comunque riferita (già nella contestazione dell’Ufficio) individualmente, quindi anche ad ogni ipotizzato socio, l’avvenuto svolgimento di quell’attività economica produttiva di reddito imponibile e, di conseguenza, l’assunzione ex lege, da parte del medesimo, della qualità di soggetto passivo di entrambe le imposte.

G. In ordine alla imponibilità del reddito tratto da attività (lato sensu) illecita, infine, "la giurisprudenza di questo giudice di legittimità ha ripetutamente affermato" Cass., trib., 13 novembre 2006 n. 24192, la quale ribadisce l’"orientamento confermato da numerosa giurisprudenza anche successiva all’entrata in vigore della L. n. 212 del 2000 (v, Cass. n. 21746 del 2005 e n. 13335 del 2003)" che la L. 24 dicembre 1993, n. 537, art. 13, comma 4, (secondo cui "nelle categorie di reddito di cui al testo unico delle imposte sui redditi, approvato con D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 6, comma 1, devono intendersi ricompresi, se in esse classificabili, i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo se non già sottoposti a sequestro o confisca penale. I relativi redditi sono determinati secondo le disposizioni riguardanti ciascuna categoria") "è da ritenersi norma di interpretazione autentica del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 6, con la conseguenza che sono retroattivamente tassabili anche i proventi derivanti da illecito, includendo perciò nel reddito imponibile perfino il prezzo del reato, obbligatoriamente soggetto a confisca (quando essa non sia stata adottata), dovendo altresì ritenersi tale disposizione interpretativa, ancorchè non vincolante rispetto alla precedente disciplina ( D.P.R. 29 settembre 1973, n. 597, artt. 1 e 6, e del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 599, art. 1), criterio ermeneutico influente, alla stregua della sostanziale identità della stessa in ordine alla determinazione dei presupposti della tassazione, così arrivando a considerare imponibili i proventi di qualsivoglia attività illecita anche nel vigore della normativa antecedente al citato D.P.R. n. 917 del 1986, (v. tra le altre Cass. 19 aprile 1995, n. 4381)".

Sul tema, inoltre, questa sezione (sentenza 7 agosto 2009 n. 18111), ribadita la natura interpretativa "applicabile quindi retroattivamente anche alla fattispecie in esame (Cass. 13213/2007;

conf. 21746/2005, 13335/2003)" dell’art. 13, comma 4, detto e richiamata la "sentenza n. 8041 depositata… il 25 marzo 2008", ha specificato che "il problema della corretta qualificazione del reddito derivante da attività illecita ("per sua natura di più difficile classificazione, a causa della imprevedibilità dei percorsi della criminalità economica) non può costituire pretesto per escludere la tassazione quando non vi sia una perfetta sovrapponibilità con le categorie reddituali tipizzate secondo i canoni delle attività legali", rilevando che "eventuali margini di oscillazione sono fisiologici, ma non per questo possono privilegiare i proventi da illecito considerandoli non tassabili". p.4. Provvedimenti finali.

In definitiva la sentenza impugnata deve essere cassata perchè affetta dagli evidenziati errori giuridici i quali si sono riverberati, in maniera determinante e decisiva, sulla valutazione del complessivo materiale probatorio offerto dall’Ufficio a sostegno della pretesa fiscale, anche quanto (a) alla sussistenza di una società di fatto tra padre e figlio per lo svolgimento dell’attività di prestito di danaro ad interessi e (b) alla misura degli interessi percepiti; la causa, siccome bisognevole dei necessari accertamenti fattuali, va, quindi, rinviata a sezione della Commissione Tributaria Regionale diversa da quella che ha emesso la decisione annullata affinchè la stessa (1) valuti detto materiale, nonchè quello (eventualmente) offerto dai contribuenti, in conformità a tutti i principi di diritto innanzi richiamati e (2) provveda a regolare le spese processuali di questo giudizio di legittimità.
P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa, anche per le spese del giudizio di legittimità, ad altra sezione della Commissione Tributaria Regionale della Sicilia.

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