Cass. pen. Sez. IV, Sent., (ud. 31-01-2013) 20-03-2013, n. 12939

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Svolgimento del processo
1. Ricorre per cassazione il difensore di fiducia di I. S. avverso la sentenza emessa in data 27.2.2012 dalla Corte di Appello di Catanzaro che confermava quella in data 21.12.2009 del Tribunale di Castrovillari, con la quale la predetta I. era stata riconosciuta colpevole del delitto di omicidio colposo con violazione delle norme sulla circolazione stradale (art. 589 c.p., commi 2 e 3) in danno dei minori P.M. e P.T. R. nonchè di Pe.Ma. (fatto del 19.12.2006) e condannata alla pena di anni tre e mesi sei di reclusione, oltre all’interdizione temporanea dai pubblici uffici.
2. Il fatto, con ricostruzione riportata in sentenza e tratta da quella offerta dal C.T. del P.M..
L’autovettura condotta dalla I. e di sua proprietà aveva a bordo altre sette persone, delle quali cinque posizionate sul sedile posteriore e due (tra cui un bambino di otto mesi) sul sedile lato passeggero. I deceduti si trovavano tutti sul sedile posteriore.
"La vettura condotta dalla I. impegnava, ad una velocità di crociera pari a km/h. 127,80, la corsia di sorpasso allorquando si era inavvertitamente e pericolosamente avvicinata al guardrail spartitraffico.
Il contatto, lieve e di striscio, tra la parte sinistra del mezzo e lo spartitraffico innestava la violenta ed istintiva reazione della giudicabile, che esercitava una energica sterzata verso destra, determinando uno spostamento dei pesi dell’autovettura che, complice il manto stradale bagnato, determinava la perdita del controllo del mezzo con attraversamento obliquo della carreggiata, per circa m. 46 da sinistra a destra, sino alla violenta collisione del settore anteriore contro il guardrail di destra. Per effetto della graduale rotazione della parte posteriore del mezzo in senso orario la vettura giungeva al primo punto di urto con un angolo pari a 110 gradi, per poi impegnare – con rotazione in senso orario – almeno tre testacoda (come da tracce di scarrocciamento), la cui forza cinetica sbalzava, fuori dell’abitacolo, tre passeggeri posti sul sedile posteriore, per la probabile contestuale apertura accidentale dello sportello posteriore di sinistra, determinata dalla necessità di un passeggero di trovare un punto cui aggrapparsi (lo sportello, infatti, non aveva subito danneggiamenti atti a provocarne l’apertura e la stessa maniglia di apertura era risultata lievemente scostata dal vano di alloggiamento).
Terminati i testacoda, la vettura proseguiva la marcia attraversando, sempre in direzione nord ed obliquamente, la carreggiata, sino ad urtare dapprima con la ruota anteriore sinistra il cordolo di cemento del guardrail centrale, che scavalcava, e dopo la parte anteriore la barriera metallica.
Seguiva l’urto della parte posteriore sinistra del veicolo con la medesima barriera, sino all’esaurimento dell’energia posseduta dal mezzo".
3. la ricorrente deduce la violazione di legge ed il vizio motivazionale laddove la Corte territoriale aveva risposto allo specifico motivo d’appello concernente la carenza di motivazione della sentenza di primo grado asserendo che era suo dovere rimediare ad eventuali difetti motivazionali e che non era prevista dall’art. 604 c.p.p. la causa di nullità eccepita dalla difesa.
Rappresenta, altresì, la violazione di legge in relazione all’art. 169 C.d.S., comma 5 e art. 172 C.d.S., comma 9, contestando l’assunto della sentenza impugnata laddove questa negava la fondatezza della tesi difensiva secondo la quale l’autovettura della I. potesse trasportare due bambini di età inferiore agli anni dieci in soprannumero sui sedili posteriori, esentati dall’obbligo dell’uso di sistemi di ritenuta, sulla base del fatto che la categorie delle vetture ad uso promiscuo sulle quali possono sistemarsi cinque passeggeri oltre ad altri due minori degli anni dieci, non assicurati da cinture, purchè accompagnati da adulti era stata soppressa per effetto della direttiva CEE n. 98/14 fin dal 1.10.1998.
Deduce, infine, il vizio motivazionale in ordine alla mancata valutazione del calcolo della velocità al momento del sinistro, disattendendo il dato offerto dal C.T. della difesa e riproducendo parte della stessa.
Motivi della decisione
3. Il ricorso è inammissibile.
4. La ricorrente tenta inammissibilmente di sostituire le proprie alla valutazione del materiale probatorio e ricostruzione dei fatti operate dai Giudici di merito. E ciò con specifico riferimento all’ultima censura, laddove il calcolo della velocità, il cui eccesso non è l’unico profilo di colpa contestato attesa comunque l’inadeguatezza della velocità allo stato di tempo (ora notturna) e di luogo (strada resa viscida dalla pioggia).
Peraltro, il nuovo testo dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), come modificato dalla L. 20 febbraio 2006, n. 46, con la ivi prevista possibilità per la Cassazione di apprezzare i vizi della motivazione anche attraverso gli "atti del processo", non ha alterato la fisionomia del giudizio di cassazione, che rimane giudizio di legittimità e non si trasforma in un ennesimo giudizio di merito sul fatto. In questa prospettiva, non è tuttora consentito alla Corte di Cassazione di procedere ad una rinnovata valutazione dei fatti ovvero ad una rivalutazione del contenuto delle prove acquisite, trattandosi di apprezzamenti riservati in via esclusiva al giudice del merito. Il novum normativo, invece, rappresenta il riconoscimento normativo della possibilità di dedurre in sede di legittimità il cosiddetto "travisamento della prova", finora ammesso in via di interpretazione giurisprudenziale: cioè, quel vizio in forza del quale la Cassazione, lungi dal procedere ad una inammissibile rivalutazione del fatto e del contenuto delle prove, può prendere in esame gli elementi di prova risultanti dagli atti onde verificare se il relativo contenuto sia stato o no "veicolato", senza travisamenti, all’interno della decisione (Cass. pen. Sez. 5^, n. 39048 del 25.9.2007, Rv. 238215). Ciò peraltro vale nell’ipotesi di decisione di appello difforme da quella di primo grado, in quanto nell’ipotesi di doppia pronunzia conforme, come nel caso di specie, il limite del devolutum non può essere superato ipotizzando recuperi in sede di legittimità, salva l’ipotesi in cui il giudice d’appello, al fine di rispondere alle critiche contenute nei motivi di gravame, richiami atti a contenuto probatorio non esaminati dal primo giudice (Cass. pen., sez. 2^, 15.1.2008, n. 5994; Sez. 1^, 15.6.2007, n. 24667, Rv.
237207; Sez. 4^, 3.2.2009, n. 19710, Rv. 243636), evenienza non verificatasi nel procedimento in esame.
Del resto, le censure sono anche aspecifiche dal momento che ripropongono le medesime doglianze rappresentate al giudice di appello ed da quello disattese con motivazione ampia e congrua e ciò con particolare riferimento alla seconda censura, avendo la Corte esaustivamente spiegato come all’epoca del fatto (2006) non fosse più in vigore la disposizione di cui all’art. 169 C.d.S., comma 5, art. 172 C.d.S. che valeva transitoriamente fino all’8.5.2009 solo per gli autoveicoli immatricolati prima del 1.10.1998, laddove l’auto della I. risultava immatricolata il 29.6.1999. Quanto alla prima censura, la mancanza di motivazione della sentenza non rientra tra i casi, tassativamente previsti dall’art. 604 c.p.p., per i quali il giudice di appello deve dichiarare la nullità della sentenza appellata e trasmettere gli atti al giudice di primo grado, ben potendo e dovendo lo stesso provvedere, in forza dei poteri di piena cognizione e valutazione del fatto, a redigere, anche integralmente, la motivazione mancante. (Cass. pen. Sez. Un. n. 3287 del 27.11.2008, Rv. 244118; Sez. 3^, n. 9922 del 12.11.2009 Rv. 246227 e successive conformi).
5. Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso segue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento in favore della Cassa delle Ammende di una somma che, alla luce dei principi affermati dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 186 del 2000, sussistendo profili di colpa, si stima equo determinare in Euro 1.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso in Roma, il 31 gennaio 2013.
Depositato in Cancelleria il 20 marzo 2013
Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen., sez. II 14-10-2008 (01-10-2008), n. 38810 Appello principale del coimputato – Notificazione agli altri imputati – Obbligo

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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza in data 26 maggio 2005, la Corte d’Appello di Potenza, sezione penale, confermava la sentenza del Tribunale in sede appellata da R.G. e P.F., con la quale questi erano stati dichiarati colpevoli di concorso in tentata rapina aggravata (artt. 110, 56 e 629 c.p.) anche dalla recidiva, in danno C.C., gestore della discoteca "(OMISSIS)", e condannati, riconosciute le attenuanti generiche equivalenti alle contestate aggravanti, il primo alla pena di due anni due mesi di reclusione ed Euro 800,00 di multa e il secondo alla pena di un anno otto mesi di reclusione ed Euro 600,00 di multa.
La Corte territoriale, rigettata l’eccezione di nullità per genericità delle deduzioni afferenti pretesi mancati avvisi delle rinnovazioni dei dibattimenti, nel merito riteneva infondato l’appello del R. perchè la prova della responsabilità si fondava sulla scorta della testimonianza della persona offesa, che aveva trovato significative conferme che ne confortavano l’attendibilità.
Il significato intimidatorio delle frasi pronunciate, che sollecitavano la necessità di protezione per evitare danni al locale, era indiscutibile, donde l’idoneità delle stesse a coartare la volontà della vittima ed indugia a corrispondere la somma richiesta. L’appello del P. era inammissibile perchè allo stesso non spettava alcun avviso a norma dell’art. 584 c.p.p. sicchè la sua impugnazione non poteva essere qualificata come incidentale in quanto coimputato e non parte avversa.
Contro tale decisione ha proposto tempestivo ricorso l’imputato P.F., a mezzo del difensore, che ne ha chiesto l’annullamento per i seguenti motivi: – nullità del giudizio di primo grado ovvero inutilizzabilità degli atti acquisiti per mancato avviso delle varie rinnovazioni del dibattimento; – illogicità e contraddittorietà della motivazione che ha ritenuto credibile il denunciante senza tenere conto di quanto dallo stesso riferito e risultante alla pag. 49-50 del verbale di udienza sul suo equilibrio mentale. Inoltre nessuna moinaccia era stata formulata dal ricorrente, R. si era limitato a chiedere di essere assunti quali "buttafuori". Nessuna minaccia era stata formulata e la richiesta di danaro costituiva al proposta di corrispettivo per l’attività da svolgere. Mancava comunque la prova del dolo; – effetto estensivo dell’appello a norma dell’art. 587 c.p.p. perchè P. aveva diritto a proporre appello incidentale nonchè ad invocare l’effetto estensivo dell’appello principale proposto dal R..
MOTIVI DELLA DECISIONE
Il ricorso è inammissibile, L’appello incidentale svolge l’esclusiva funzione di contrastare la pretesa principale avanzata nei confronti del destinatario della relativa facoltà. In conseguenza non esiste alcun obbligo di notificare l’appello principale proposto da uno dei coimputati ad altro imputato, che non si sia avvalso autonomamente del suo potere di impugnazione. Invero, in capo a quest’ultimo, non sussiste interesse alla proposizione del gravame incidentale, il quale è previsto come impugnazione antagonista rispetto a quello della parte processualmente avversa (Cass. Sez. 5, 24.9-23.10. 1999 n. 4255).
Come rilevato dalla Corte territoriale, la notifica al P. dell’impugnazione proposta da R., a norma dell’art. 584 c.p.p., non era dovuta e non lo ha legittimato alla proposizione di appello incidentale, per le ragioni sopra specificate. L’appello proposto da P. era quindi inammissibile per mancato rispetto dei termini, previsti a pena di decadenza dall’art. 505 c.p.p., inammissibilità rilevabile anche in questa sede.
Nè il ricorrente può invocare l’effetto estensivo dell’impugnazione proposta dal coimputato R., posto che la sentenza di condanna è stata confermata anche nei suoi confronti e che R. non ha proposto ricorso. L’effetto estensivo dell’impugnazione non conferisce all’imputato non appellante autonoma legittimazione a proporre ricorso.
Tanto meno può conferire tale legittimazione all’imputato il cui appello sia inammissibile.
Segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e di somma in favore della Cassa della ammende che, in ragione dei profili di colpa rinvenibili nelle delineate cause di inammissibilità, va quantificata in mille/00 Euro.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1000,00 alla Cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

Cassazione, 13 gennaio 2010, n. 446 Assegni postdatati, se la banca revoca l’autorizzazione all’emissione si rischia la sanzione

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Fatto e diritto

Il giudice di pace di Gela con sentenza del 12 agosto 2005 respingeva, tranne che per la determinazione della sanzione, l’opposizione proposta da Omissis, avverso il Prefetto di Caltanissetta, per l’annullamento dell’ordinanza ingiunzione n. 1582/2001 IV notificata il 28 gennaio 2005, relativa a violazione dell’art. 28 d.lgs. n. 507/99.

Omissis ha proposto ricorso per cassazione, notificato il 28 ottobre 2006, al quale la Prefettura di Caltanissetta, assistita dall’Avvocatura dello Stato, ha resistito con controricorso.

Avviata la trattazione con il rito previsto per il procedimento in camera di consiglio, il procuratore generale ha chiesto il rigetto del ricorso perché manifestamente infondato.

Con l’unico motivo di ricorso, l’istante lamenta violazione della norma sopraindicata, assumendo che gli assegni oggetto del provvedimento sanzionatorio erano stati emessi postdatati prima che le venisse comunicata, da parte delle banche trattarie, la revoca dell’autorizzazione all’emissione di assegni.

Il ricorso è infondato.

In materia di sanzioni amministrative connesse all’emissione di assegni senza autorizzazione, viola il dovere di diligenza media, con conseguente impossibilità di invocare il fatto scusabile, l’emittente il quale assuma consapevolmente con la postdatazione degli assegni il rischio della sopravvenienza di un difetto di autorizzazione all’emissione al momento della loro presentazione.

L’emittente pone in essere un comportamento (la postdatazione o l’emissione senza data) vietato dalla legislazione speciale, ancorché non più oggetto di sanzione penale, e si espone consapevolmente alle conseguenze derivanti dal sopravvenire di una situazione che renda illegittima l’emissione dei titoli o impossibile il loro pagamento (cfr. per riferimenti Cass. 18345/06). Non può quindi addurre a propria giustificazione il sopravvenire della revoca dopo l’emissione e la mancata conoscenza della determinazione della banca in quel momento, poiché l’assegno non avrebbe dovuto essere negoziato con postdatazione, ma apponendovi la data del giorno di emissione. Attenendosi a tale regola, l’emittente non avrebbe corso il rischio del sopravvenire della revoca dell’autorizzazione nelle more tra l’emissione e il sopraggiungere della data apposta sul titolo.

Discende da quanto esposto il rigetto del ricorso e la condanna alla refusione delle spese di lite, liquidate in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Condanna parte ricorrente alla refusione a controparte delle spese di lite, liquidate in euro 700 per onorari, oltre rimborso delle spese prenotate a debito.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 03-12-2010) 21-01-2011, n. 1861 Determinazione

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Svolgimento del processo

Con la sentenza impugnata la Corte di Appello di Milano ha confermato la condanna di A.E.R.M., alla pena precisata in epigrafe, per il reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, commi 1 bis e 5, a lui ascritto per avere detenuto, a fini di spaccio, sostanza stupefacente del tipo cocaina.

Per quanto interessa in sede di legittimità la Corte territoriale ha rigettato il ricorso, convenite in appello, del Procuratore Generale della Repubblica avverso la sentenza di primo grado, con il quale veniva censurato l’aumento di pena applicato per la recidiva ex art. 99 c.p., comma 2 in misura inferiore ad un terzo.

La sentenza ha osservato sul punto che il contrasto rilevato dalla pubblica accusa tra il disposto dell’art. 99 c.p., comma 1, ai sensi del quale, nel caso di applicazione della recidiva, la pena deve essere aumentata nella misura di un terzo, e quello del secondo comma, che consentirebbe aumenti di pena fino alla metà, ma anche in misura inferiore al terzo, deve essere risolto sul piano interpretativo, attribuendo alla espressione del comma 1 "può essere sottoposto ad aumento di un terzo", il significato "fino ad un terzo", previa valutazione discrezionale del caso concreto. Avverso la sentenza ha proposto ricorso il Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte territoriale, che la denuncia per violazione di legge.

Motivi della decisione

Con un unico mezzo di annullamento la pubblica accusa ricorrente denuncia l’interpretazione del disposto di cui all’art. 99 c.p., comma 1, contenuta nella sentenza impugnata. Si deduce che tale interpretazione contrasta con il testo normativo, che attribuisce al giudice il potere di decidere se tener conto della recidiva, ma non lascia alcuna discrezionalità in ordine al quantum dell’aumento di pena, che viene fissato nella misura di un terzo.

Dal dato normativo, pertanto, deriva necessariamente che nell’ipotesi di recidiva di maggiore gravità, cosiddetta qualificata, l’espressione del disposto di cui all’art. 99 c.p., comma 2, che prevede l’aumento della pena "fino alla metà", debba essere interpretato nel senso di aumento della pena da un terzo fino alla metà.

Si deduce che da una diversa interpretazione di tale disposto, nel senso che all’ipotesi di recidiva più grave possa corrispondere un aumento di pena inferiore a quello previsto per l’ipotesi di recidiva semplice, deriva la manifesta illegittimità costituzionale della norma per la sua evidente irrazionalità.

In subordine, pertanto, si deduce la non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 99 c.p., comma 2, per contrasto con l’art. 3 Cost., nella parte in cui non prevede che l’aumento di pena fino alla metà non debba partire dal minimo di un terzo come stabilito dal medesimo art. 99 c.p., comma 1.

Il ricorso è fondato.

Il testuale dato normativo dell’art. 99 c.p., comma 1, secondo il quale, in caso di recidiva, l’imputato "può essere sottoposto ad un aumento di un terzo della pena da infliggere per il nuovo delitto non colposo" non consente l’interpretazione prospettata nella impugnata sentenza circa la discrezionalità della misura dell’aumento di pena in detta ipotesi.

La necessità di interpretare la norma nel suo significato letterale deriva anche dall’esame dell’evoluzione legislativa in materia, caratterizzata da un inasprimento del trattamento sanzionatorie previsto per la recidiva a seguito della sostituzione del precedente testo dell’art. 99 c.p. disposta dalla L. 5 dicembre 2005, n. 251, art. 4.

La precedente formulazione della norma, infatti, attribuiva al giudice, in tutti i casi, salva l’ultima ipotesi di cui al comma 4, il potere di determinare discrezionalmente l’aumento di pena da applicarsi per la recidiva, ove ritenuta operante, nel limite massimo stabilito dalla legge.

E’ evidente, pertanto, che la statuizione puntuale della misura dell’aumento di pena stabilito per la recidiva dalla norma attualmente vigente non possa essere interpretata altrimenti che quale volontà legislativa di escludere qualsiasi discrezionalità dell’organo giudicante nella determinazione della sua misura, fermo restando il potere di escludere la recidiva stessa.

Deriva da tale interpretazione dell’art. 99 c.p., comma 1, che il secondo comma debba necessariamente essere interpretato nei termini prospettati dalla pubblica accusa ricorrente, nel senso che l’aumento di pena da applicarsi per la recidiva qualificata deve essere determinato nella misura da un terzo alla metà.

Una diversa interpretazione renderebbe irrazionale il disposto dell’art. 99 c.p., comma 2, rispetto alla previsione contenuta nel primo, essendo consentito per la recidiva più grave un aumento discrezionale di pena inferiore a quello stabilito per l’ipotesi di recidiva semplice.

Contrasterebbe inoltre con la ratio della novella che, ferma restando la discrezionalità nella applicazione della recidiva, ha inteso sottrarre all’organo giudicante, in quasi tutti i casi, ogni discrezionalità nella determinazione della misura dell’aumento di pena.

Per completezza di esame la Corte, di ufficio, rileva che i giudici di merito hanno erroneamente considerata l’ipotesi di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5quale fattispecie autonoma di reato, sulla quale sono stati calcolati gli aumenti di pena per le aggravanti, senza procedere al giudizio di comparazione ex art. 69 c.p..

La sentenza impugnata deve essere, pertanto, annullata con rinvio per un nuovo esame in ordine alla determinazione della pena che tenga conto degli esposti rilievi in punto di diritto.

P.Q.M.

La Corte annulla la sentenza impugnata limitatamente al trattamento sanzionatorio con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello di Milano per nuovo esame sul punto.

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