Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 23-01-2013) 10-04-2013, n. 16298

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con il provvedimento impugnato veniva respinta l’istanza con la quale D.R., condannato in contumacia con sentenza del Tribunale di Firenze del 26/10/2009 alla pena di mesi nove di reclusione per il reato continuato di cui all’art. 495 c.p., commesso in (OMISSIS), chiedeva la restituzione nel termine per proporre appello avverso detta sentenza.

Il condannato ricorrente deduce violazione di legge nel desumere l’insussistenza dei presupposti per la restituzione nel termine dalla formale regolarità delle notificazioni eseguite nei confronti del difensore d’ufficio, presso il quale il D. aveva eletto domicilio in sede di comunicazione della denuncia a suo carico da parte della polizia giudiziaria. Lamenta altresì mancanza di motivazione sulla conoscenza effettiva del procedimento e della sentenza, e conseguente illogicità dell’affermazione per la quale il D. avrebbe fatto tutto quanto in suo potere per impedire di essere rintracciato, comportamento che presupporrebbe consapevolezza dell’esistenza del procedimento.
Motivi della decisione

Il ricorso è fondato.

La conoscenza effettiva del procedimento o del provvedimento e la volontaria rinuncia alla comparizione o all’impugnazione, presupposti previsti dall’art. 175 c.p.p. per il diniego della restituzione nel termine dell’imputato condannato in contumacia, non possono essere desunti dalla mera circostanza dell’esecuzione della notifica dell’estratto contumaciale della sentenza a mani del difensore domiciliatario dell’imputato (Sez. 1^, n. 3746 del 16/01/2009, Del Duca, Rv. 242535), soprattutto laddove, come nel caso di specie, l’imputato abbia eletto domicilio presso un difensore d’ufficio nominato in sede di denuncia (Sez. 1^, n. 24 del 14/12/2011, Hachni, Rv. 251683), a meno che non risulti provato un effettivo contatto del difensore con il proprio assistito a seguito della notifica (Sez. 6^, n. 7080 del 03/02/2010, Mammì, Rv. 246085). La sussistenza di quest’ultima condizione è esclusa nello stesso provvedimento impugnato, ove al contrario si da atto dei tentativi infruttuosi di rintracciare l’imputato addotti dal difensore nell’istanza di liquidazione dei propri compensi. Ed appare risultato di un incolmabile salto logico l’affermazione dei giudici di merito per la quale da tali vani tentativi dovrebbe desumersi l’aver l’imputato fatto tutto quanto in suo potere per sottrarsi alle ricerche; non potendosi trarre dal dato di per sè neutro dell’irreperibilità dell’imputato, soprattutto in quanto successivo alla mera comunicazione di una denuncia a piede libero, la conclusione della ravvisabilità di un comportamento volontario che abbia cagionato la mancata conoscenza del procedimento e della sentenza.

Il provvedimento impugnato deve pertanto essere annullato con rinvio ad altra Sezione della Corte d’Appello di Firenze per nuovo esame alla luce dei principi e delle carenze motivazionali di cui sopra.
P.Q.M.

Annulla il provvedimento impugnato con rinvio per nuovo esame ad altra Sezione della Corte d’Appello di Firenze.

Così deciso in Roma, il 23 gennaio 2013.

Depositato in Cancelleria il 10 aprile 2013

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 27-05-2013) 13-06-2013, n. 26035

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Svolgimento del processo
1. Con la sentenza indicata in epigrafe il giudice di pace di Prato condannava Z.X. per il reato di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 10 bis, riconosciute le circostanze attenuanti generiche, alla pena di Euro 3.500 di ammenda.
2. Ha proposto ricorso per cassazione il Procuratore generale presso la Corte di appello di Firenze, denunciando la violazione di legge, in primo luogo, avuto riguardo alla compatibilità del reato in oggetto con le disposizioni della direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio 16 dicembre 2008, 2008/115/CE e con le modifiche normative di cui alla L. n. 129 del 2011. In specie, rileva che la modifica delle modalità di espulsione e delle sue conseguenze, intervenuta nella legislazione nazionale a seguito della predetta direttiva ed il necessario adeguamento agli scopi della stessa, induce a dubitare che la previsione di una pena pecuniaria sostituibile con l’espulsione sia compatibile con dette norme, dovendo essere applicata al cittadino straniero irregolare in via prioritaria una procedura di rimpatrio.
Del resto, anche secondo il tenore della disciplina nazionale modificata dalla L. n. 129 del 2011 ogni decisione di rimpatrio deve essere assunta con esame caso per caso e non può basarsi sulla mera irregolarità del soggiorno; tanto non è avvenuto nel caso di specie. Evidenzia, al riguardo, che le predette valutazioni sono rilevanti benchè, nella specie, il giudice non abbia disposto l’espulsione come sanzione sostitutiva, atteso che l’attestazione di illegalità del soggiorno determina la convertibilità della pena pecuniaria con l’espulsione in sede di esecuzione.
Infine, rileva che il giudice ha omesso di accertare se nel lungo tempo tra aprile 2010 e febbraio 2010 fosse o meno intervenuta l’espulsione dell’interessata, con conseguente violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 10 bis, comma 5.
Motivi della decisione
Il ricorso è infondato e deve essere rigettato.
La norma che incrimina le condotte di ingresso e permanenza illegale nel territorio dello Stato – D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 10-bis – ha di recente superato il vaglio di compatibilità costituzionale. Il giudice delle leggi, con la sentenza n. 250 del 2010, ha precisato che la norma non punisce una "condizione personale e sociale" – quella, cioè, di straniero "clandestino" (o, più propriamente, "irregolare") – e non criminalizza un "modo di essere" della persona.
Essa, invece, punisce uno specifico comportamento costituito dal "fare ingresso" e "trattenersi" nel territorio dello Stato, in violazione delle disposizioni di legge.
Si è quindi di fronte, rispettivamente, ad una condotta attiva istantanea (il varcare illegalmente i confini nazionali) e una a carattere permanente di natura omissiva, consistente nel non lasciare il territorio nazionale.
La condizione di "clandestinità" è, in questi termini, la conseguenza della condotta penalmente illecita e non già un dato preesistente ed estraneo al fatto e la rilevanza penale si correla alla lesione del bene giuridico individuabile nell’interesse dello Stato al controllo e alla gestione dei flussi migratori, secondo un determinato assetto normativo: si tratta di un bene strumentale, per mezzo della cui tutela si accorda protezione a beni pubblici finali di sicuro rilievo costituzionale. Per queste ragioni non è stata una scelta arbitraria la predisposizione di una tutela penale di siffatto interesse, che si atteggia a bene giuridico di categoria, capace di accomunare buona parte delle norme incriminatrici presenti nel testo unico del 1998.
Sulla base di questo nucleo argomentativo la Corte costituzionale ha decretato la compatibilità della norma di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 10-bis con alcuni principi della Carta fondamentale, specificamente e principalmente con quelli desumibili dagli artt. 2 e 3.
Per quel che poi attiene alla compatibilità con la normativa sovranazionale, in particolare con la direttiva CE n. 115 del 2008, si è di recente registrato l’intervento risolutivo della Corte di giustizia con la decisione del 6 dicembre 2012 sulla domanda di pronuncia pregiudiziale proposta, ai sensi dell’art. 267 TFUE, dal Tribunale di Rovigo, nel procedimento penale a carico di xxx. Ed è appena il caso di ricordate che già questa Corte aveva statuito che "la fattispecie contravvenzionale prevista dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 10 -bis, che punisce l’ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato, non viola la c.d. direttiva Europea sui rimpatri (direttiva Commissione CEE 16 dicembre 2008, n. 115), non comportando alcun intralcio alla finalità primaria perseguita dalla direttiva predetta di agevolare ed assecondare l’uscita dal territorio nazionale degli stranieri extracomunitari privi di valido titolo di permanenza e non è in contrasto con l’art. 7, par. 1 della medesima, che, nel porre un termine compreso tra i 7 e 30 giorni per la partenza volontaria del cittadino di paese terzo, non per questo trasforma da irregolare a regolare la permanenza dello straniero nel territorio dello Stato" (Sez. 1, n. 951 del 22/11/2011, xxx, rv.
251671).
Nel caso di specie, quindi, il giudice di pace che ha inflitta sanzione pecuniaria, senza neppure disporre espulsione, ha applicato correttamente la normativa vigente, in relazione a condotta che è ancora prevista come reato.
Non può rilevare in questa sede quanto dedotto dal Procuratore generale ricorrente in ordine alla possibilità che venga disposta la conversione della pena pecuniaria con l’espulsione in sede di esecuzione, atteso che, all’evidenza, il giudice dell’esecuzione potrà operare la necessaria valutazione in ordine alla sussistenza nel caso di specie dei presupposti dell’espulsione, secondo le indicazioni della direttiva e la disciplina nazionale novellata.
Quanto all’ultimo rilievo, deve evidenziarsi che la disposizione di cui al comma 4, seconda parte, dell’art. 10-bis prevede che il questore comunica all’autorità giudiziaria competente per l’accertamento del reato la eventuale avvenuta esecuzione dell’espulsione o del respingimento; pertanto, il giudice non ha alcun onere di verificare l’eventuale espulsione o respingimento.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Così deciso in Roma, il 27 maggio 2013.
Depositato in Cancelleria il 13 giugno 2013

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cassazione III civile ordinanza 02.04.2009, n. 8093 Consumerismo, servizio sanitario nazionale, salute (2009-04-07)

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE TERZA SEZIONE CIVILE

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

sul ricorso 8989-2008 proposto da … omissis … legale rappresentante pro-tempore

contro

I. …

avverso la sentenza n. 317/2008 del TRIBUNALE di BENEVENTO del 26.2-08, depositata il 27/02/2008;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 15/01/2009 dal Consigliere Relatore Dott. RAFFAELE FRASCA;

udito per il resistente l’Avvocato … G. che si riporta alla memoria.

E’ presente il p.G. in persona del Dott. Giovanni SALVI che nulla osserva rispetto alla relazione scritta.

Ritenuto quanto segue;

… omissis … ha proposto istanza di regolamento di competenza avverso la sentenza del 27 febbraio 2008, con la quale il Tribunale di Benevento – da lui inerito di una controversia contro … omissis … per ottenere l’accertamento della responsabilita’ del personale medico dipendente di detta azienda nell’esecuzione di un intervento chirurgico e, conseguentemente, la condanna della medesima al risarcimento dei danni sofferti le lesioni ad esso conseguenti, in conseguenza alla sua persona – ha dichiarato, sull’eccezione incompetenza territoriale formulata dall’Azienda convenuta, la propria incompetenza territoriale e la competenza sulla controversia del Tribunale di Perugia. All’istanza di regolamento ha resistito con memoria … omissis …

Essendo il ricorso soggetto alla disciplina di cui al decreto_legislativo_206_2005, in ragione dell’epoca di pronuncia del provvedimento impugnato, ed essendosi ravvisate le condizioni per la trattazione con il procedimento di cui all’art. 380 – bis c.p.c., e’ stata redatta relazione ai sensi di tale norma, che e’ stata notificata alle parti e comunicata al Pubblico Ministero.

La resistente ha depositato memoria ed il Pubblico Ministero ha formulato conclusioni scritte Considerato quanto segue;

La relazione ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c. ha avuto il seguente tenore;

Il ricorso prospetta tre motivi, corredati ognuno da corrispondenti quesiti di diritto.

Con il primo si sostiene che l’Azienda convenuta avrebbe rinunciato all’eccezione incompetenza, in quanto nella seconda comparsa conclusionale depositata in funzione della decisione del Tribunale avrebbe espressamente formulato la seguente precisione: «nella consapevolezza dell’orientamento espresso da ultimo da Cass. Civ. Sezioni Unite con sentenza 1.01.2008, n. 577 si rimette a Giustizia in relazione alla eccezione di incompetenza per territorio come sollevata in atti». Il Tribunale avrebbe omesso di considerare la rinuncia, che, stante iI carattere derogabile della competenza del Tribunale di Perugia, invocata sotto il profilo del foro generale della convenuta e dei fori facoltativi di cui all’art. 20 c.p.c, avrebbe determinato adesione alla competenza beneventana.

Il motivo parrebbe infondato, atteso che l’espressione che avrebbe integrato la rinuncia all’ eccezione non appare logicamente idonea in questo senso, giacche’ il “rimettersi a giustizia e’ soltanto evocativo del normale ufficio del giudice, che e’ appunto quello di concedere giustizia (secondo cio’ che prescrive la volonta’ astratta dell’ordinamento in relazioni: alla fattispecie concreta).

3.1. – Con il secondo motivo si denuncia “illegittimita’ ed infondatezza in diritto della sentenza declinatoria della competenza per violazione e/o mancata applicazione dell’art. 1469 bis c. III n. 19 c. c. e art. 33 lett. u) del d.lgs. n. 206 del 2005″ sotto il profilo che al ricorrente dovrebbe riconoscersi la qualifica di “consumatore” o “utente” di cui all’art. 3 del detto d. lgs. ed alla convenuta quella di “professionista” ai sensi della stessa fonte legislativa, di modo che il foro di Benevento, luogo di residenza dell’istante sarebbe stato quello applicabile nella controversia ai sensi dell’art. 33 citato.

In relazione a tale motivo si prospetta il seguente quesito di diritto: «all’utente della prestazione sanitaria resa da una Azienda Ospedaliera Pubblica con oneri a carico del Servizio Sanitario nazionale, e’ applicabile la disciplina legislativa del consumatore e quindi e’ applicabile il principio del foro generale della residenza o del domicilio del consumatore ovverosia della competenza territoriale esclusiva del Giudice del luogo in cui l’utente consumatore ha la propria residenza o il proprio domicilio elettivo, ex art. 1469 bis comma 3 n, I e art. 33 comma 2° lett. u) codice del consumo.

Questi gli argomenti a sostegno.

In primo luogo, avrebbe rilievo il carattere contrattuale della responsabilita’ della struttura sanitaria anche pubblica, siccome affermato dalla recente Cass. sez. un, n. 577 del 2008 (nonche’ numerose altre decisioni della Corte, che vengono parimenti citate).

In secondo luogo, si deduce l’inesattezza dell’affermazione del Tribunale di Benevento secondo cui la particolarita’ del rapporto fra paziente e struttura ospedaliera, con oneri a carico del S.S.N., giustificherebbe l’inapplicabilita’ delle disposizioni sul rafforzamento della posizione del consumatore nella fase negoziale, perche’ trattandosi di erogazione di un servizio pubblico, non e’ l’utente che paga la prestazione e non puo’ definirsi consumatore. L’inesattezza viene sostenuta invocandosi il principio di diritto espresso da Cass. n. 369 del 2007 in ordine al riconoscimento della posizione di consumatore del terzo beneficiario della polizza assicurativa, nonche’ la pregressa ord. n. 285 del 2004 della Corte costituzionale sulla stessa questione. Di tale principio si invoca l’estensione analogica alla posizione dell’utente del servizio Sanitario nazionale, perche’ anche costui, come il detto beneficiario, non sopporta il costo del servizio.

In terzo luogo, si asserisce l’inesattezza dell’argomento prospettato dal Tribunale sulla base dell’art. 101 del d.lgs, 206 del 2005, la’ dove prevede una norma di rinvio a proposito dei servizi pubblici, per sottrarre l’azienda sanitaria pubblica all’operativita’ del foro del consumatore.

L’inesattezza discenderebbe dal fatto che a seguire il ragionamento del Tribunale anche quando la postazione sia erogata da un’azienda sanitaria privata, trattandosi sempre di un pubblico servizio dovrebbe valere detta sottrazione.

In quarto luogo si prospetta che darebbe luogo ad un risultato lesivo dei principio costituzionale di eguaglianza l’escludere l’operativita’ del foro del consumatore in caso di prestazione resa da una azienda ospedaliera pubblica con oneri a carico del S.S.N. ed ammetterla invece a favore di chi, avendo disponibilita’ economiche, si rivolga ad una struttura privata a proprie spese.

3.1.1. Il motivo parrebbe infondato.

Premesso che esso dev’essere scrutinato alla stregua dell’art. 33, comma 2, lett. u) del d.lgs. n. 206 del 2005 (c.d. codice del consumo), atteso che la norma codicistica invocata e’ venuta meno, si deve anzitutto rilevare che in punto di soggezione dell’utente di un servizio pubblico alle disposizioni di tale codice, il tessuto normativo di quest’ultimo contiene soltanto due riferimenti a tale tipo di utente. Il primo e’ contenuto nell’art. 2, comma 2, lett. g) la’ dove si riconosce come diritto fondamentale ai consumatori e agli utenti quello “all’erogazione di servizi pubblici secondo gli standard di qualita’ e di efficienza”. Il secondo e’ espresso nell’intitolazione del Titolo quinto del d.lgs. che e’ alla “erogazione di servizi pubblici”, nella intitolazione del Capo primo di cui esso si compone, e nell’art. 101 di cui tale capo consta, il quale, sotto la rubrica “Norma di rinvio”, cosi’ dispone: «1. Lo Stato e le regioni, nell’ambito delle rispettive competenze, garantiscono i diritti degli utenti dei servizi pubblici attraverso la concreta e corretta attuazione dei principi e dei criteri previsti della normativa vigente in materia. 2. Il rapporto di utenza deve svolgersi nei rispetto di standard di qualita’ predeterminati e adeguatamente resi pubblici. 3. Agli utenti e’ garantita, attraverso forme rappresentative, la partecipazione alle procedure di definizione e di valutazioni degli standard di qualita’ previsti dalle leggi. 4. La legge stabilisce per determinati enti erogatori di servizi pubblici l’obbligo di adottare, attraverso specifici meccanismi di attuazione diversificati in relazione ai settori, apposite carte dei servizi.».

Il coordinamento fra le due norme evidenzia che la seconda – peraltro programmatica ed avente valore piuttosto che di norma di rinvio a specifiche disposizioni, di norma di rinvio ad una produzione (legislativa) di Stato e Regioni – nelle intenzioni del legislatore delegato vuole solo indicare taluni criteri di realizzazione normativa (appunto affidati alle competenze di Stato e Regioni) del diritto riconosciuto al consumatore in relazione alla erogazione del servizio pubblico dall’art. 2, comma 2.

Viceversa, detto coordinamento, attesa la limitatezza del diritto riconosciuto dall’art. 2, comma 2, lett. g), non evidenzia – come vorrebbe la sentenza impugnata – che in generale il rapporto di utenza con il servizio pubblico sia sottratto automaticamente alla disciplina del d.lgs. Se cosi’ avesse voluto disporre, il legislatore lo avrebbe dovuto dire in ben diverso modo, cioe’ con una norma effettuativa dell’operare della disciplina del d.lgs. del settore del servizio pubblico. Mentre, come si e’ visto, la previsione settoriale nei sensi indicati, contenuta nelle due norme, e’ significativa di una intentio legis non aliena dal considerare il rapporto di utenza con il servizio pubblico come rapporto in linea di massima soggetto all’ambito della disciplina del codice.

L’interprete e’, dunque, autorizzato ad un approccio interpretativo diverso da quello adottato dalla sentenza impugnata, cioe’ ad affrontare il problema dell’operare delle tutele apprestate a favore del consumatore-utente anche a beneficio dell’utente di un servizio pubblico, valutando se le varie disposizioni di cui consta il decreto legislativo siano o meno applicabili, per la loro ratio o sulla base del loro tenore, al rapporto di utenza pubblica.

L’operazione esegetica deve riguardare anzitutto la possibilita’ che al detto rapporto si possano riferire le definizioni individuate dall’art. 3 del d.lgs.

In relazione al rapporto fra il cittadino ed il servizio sanitario nazionale (disciplinato in generale dalla L. n. 833 del 1978) in funzione della fruizione di una prestazione sanitaria), in ipotesi ospedaliera, in totale esenzione od anche previo pagamento del c.d. ticket, certamente al cittadino-utente si attaglia la definizione di “utente”, di cui alla lettera a) dell’art. 3. Alla struttura ospedaliera facente capo al S.S.N., posto che il detto servizio si articola sia attraverso strutture direttamente gestite dalla mano pubblica (e, quindi, da organismi di diritto pubblico, come l’azienda qui resistente), sia attraverso strutture gestite da privati che abbiano ricevuto l’autorizzatone a svolgere il servizio in convenzione, v’e’ da chiedersi se possa attagliarsi la definizione di “professionista”, di cui all’art. 3, lett. e). La risposta all’interrogativo parrebbe certa nel caso delle seconde, perche’ esse, sulla base della convenzione, agiscono come soggetti imprenditoriali (che cioe’, perseguono un proprio utile), mentre e’ dubitativa riguardo alle prime. Anche se l’interprete subisce certamente la suggestione della configurabilita’ dell’attivita’ delle strutture di mano pubblica pur sempre come attivita’ “professionale”, il che potrebbe giustificare che esse siano comprese nella definizione di “professionista”.

La questione all’esame, dunque, non pare poter essere risolta sulla base delle definizioni offerte dall’art. 3, che non sono decisive.

Venendo alla disciplina specifica del c.d. foro del consumatore di cui all’art. 33, comma 2, lett. u), una volta ipotizzato (come consente l’equivocita’ del dato dell’art. 3) che nell’uno e nell’altro caso ricorra la figura del professionista, l’interprete si imbatte in un dato che induce decisamente ad escludere che alla controversia, introdotta dal cittadino-utente (che si sia rivolto alla struttura pubblica o a una struttura convenzionata), per ottenere il risarcimento dei danni sofferti in conseguenza dell’inesecuzione o del non corretto adempimento della prestazione richiesta possa applicarsi la norma de qua. Il dato che viene in rilievo e’ che, perche’ la norma della lettera u), citata sopra si applichi, e’ necessario un presupposto. Lo fanno manifesto sia l’intitolazione del titolo primo della parte terza (intitolata al Rapporto di consumo), che e’ “Dei contratti del consumatore in generale”, sia la stessa rubrica “Clausole vessatorie nel contratto tra professionista e consumatore”.

Questo presupposto e’ rappresentato dal “contratto” fra professionista e consumatore.

Ebbene, poiche’ il rapporto fra il cittadino-utente che si rivolga alla struttura sanitaria pubblica per ottenere una prestazione, se del caso ospedaliera, o ad una struttura convenzionata in totale esenzione o previo pagamento di ticket non si puo’ qualificare come contratto, trattandosi soltanto dell’adempimento di un dovere di prestazione direttamente discendente dalla leggi e, automaticamente attivato dalla richiesta del cittadino-utente, manca il presupposto per l’applicabilita’ della lett u). Questa sembra essere la ragione determinante dell’esclusione di tale applicabilita’. Mancando il contratto non si puo’ giustificare l’applicazione del foro del consumatore, che il contratto presuppone. Il cittadino che chiede una prestazione in esenzione o con ticket al Servizio Sanitario Nazionale esercita in sostanza un diritto soggettivo pubblico riconosciutogli direttamente dalla legge e che la legge stessa prevede debba essere soddisfatto a richiesta dall’organizzazione del Servizio Sanitario Nazionale o direttamente o attraverso !s strutture in convenzione, imponendo essa stessa la relativa prestazione. Il rapporto che si instaura con la struttura sanitaria pubblica o convenzionata rappresenta l’attuazione (che ha titolo direttamente nella legge) di questo obbligo di prestazione e non suppone la stipula, nemmeno tacita, di un contratto. In altri termini, quando il cittadino-utente si rivolge alla struttura sanitaria pubblica o in convenzione, la ricezione della sua richiesta e la conseguente attivazione della struttura non danno luogo alla conclusione, nemmeno per fatto concludente, di un contratto, ma realizzano soltanto l’attuazione dell’obbligazione della mano pubblica di fornire il servizio. Tale attuazione non avviene mediante la riconduzione del rapporto allo schema del contratto, del quale non solo non vi sono i presupposti giustificativi a livello normativo (atteso che non si prevede alcunche’ che sia in qualche modo riconducibile alla figura della stipulazione di un accordo contrattuale), ma neppure vi sonori presupposti fattuali che potrebbero comunque fare emergere la figura del contratto, nei contorni seppure sfumati che essa ha nel momento storico attuale. Si potrebbe pensare che tali presupposti sussistano sub specie della figura dell’obbligo a contrarre, ma si tratterebbe di prospettiva erronea, perche’ cio’ che la legge direttamente impone non e’ qui l’obbligo di contrattare una prestazione, che l’oggetto del diritto soggettivo del cittadino-utente.

In proposito e’ a questo punto necessaria una precisazione.

La conclusione che nega la ricorrenza del contratto non e’ in alcun modo configgente con la comune ed ormai acquisita qualificazione come contrattuale della responsabilita’ della struttura ospedaliera anche pubblica, evocata con insistenza dalla parte istante, e presente da tempo nella giurisprudenza della Corte. Tale affermazione, infatti, non sottende (vedi, peraltro, a quel che consta, Cass. n. 8826 del 2007, in diverso senso) che quando ci si rivolge alla struttura del Servizio Sanitario nazionale o ad una struttura convenzionata si stipuli un contratto, ma vuole significare che la cattiva esecuzione della prestazione “da’ luogo a responsabilita’ contrattuale nel senso di responsabilita’ nascente dall’inadempimento di un obbligo preesistente o dalla sua cattiva esecuzione e non nel senso di responsabilita’ per inadempimento di un contratto o per la sua cattiva esecuzione. Il concetto di responsabilita’ contrattuale, cioe’, viene usato nel senso non gia’ di responsabilita’ che suppone un contratto, ma nel senso – comune alla dottrina in contrapposizione all’obbligazione da illecito extracontrattuale – di responsabilita’ che nasce dall’ inadempimento di un rapporto obbligatorio preesistente, che nella specie sta a carico della struttura del Servizio Sanitario Nazionale. La lettura delle motivazioni, anche al di la’ di quanto sembra talvolta suggeriscano le massime, evidenzia che la Corte (salvo appunto la sentenza sopra citata) non ha qualificato il rapporto che sorge dall’accettazione della richiesta da parte della struttura sanitaria del Servizio Sanitario nazionale, direttamente operante o operante in convenzione, come contratto,, ma si e’ sempre soffermata sulla natura della responsabilita’, ricorrendo alla figura della responsabilita’ contrattuale nei sensi indicati.

L’art. 33, comma 2, lett. u), appare, dunque, nella specie inapplicabile. Il terzo motivo lamenta in fine “irritualita’ della eccezione di incompetenza territoriale sollevata dalla parte convenuta ex art. 38 comma secondo c.p.c.” per non essere stata contestata la competenza del Tribunale di Benevento ai sensi del c.d. foro del consumatore. Tale contestazione si sarebbe dovuta avverare perche’ nella citazione si invocava la responsabilita’ contrattuale dell’ Azienda e, quindi anche il detto foro.

Il motivo e’ infondato, tenuto che l’onere di contestazione e’ riferibile alla c.d. competenza territoriale derogabile, ma non alla competenza territoriale inderogabile, qual e’ quella dei c.d. foro del consumatore (si veda Cass. (ord.) 16557 del 2008 anche per ulteriori riferimenti), 6. Sembra, dunque, conclusivamente doversi dichiarare la competenza del Tribunale di Perugia.

Il Collegio condivide la soluzione finale indicata nella relazione quanto all’individuazione del giudice competente, ma reputa che la giustifichino considerazioni solo in parte coincidenti con quelle esposte nella relazione in riferimento al secondo motivo. Fra queste, infatti, il Collegio non ravvisa necessarie, indipendentemente da ogni valutazione sulla loro correttezza, quelle che hanno fatto leva, per giustificare l’esclusione della invocabilita’ del c.d. foro del consumatore, sul rilievo che non sarebbe sussumibile sotto la figura del contratto la qualificazione del rapporto che insorge quando il cittadino si rivolge direttamente alla struttura sanitaria pubblica o a quella di una azienda convenzionata e, dunque, quando richiede una prestazione sanitaria fornita direttamente o indirettamente dal Servizio Sanitario Nazionale. Ancorche’ non sembri del tutto sfornito di fondamento il dubbio esposto nella relazione riguardo alla mancanza di una chiara affermazione (salvo la sentenza citata nella relazione) della natura contrattuale della responsabilita’ delle dette strutture anche quanto alla fonte, deve condividersi la sollecitazione del Pubblico Ministero relativamente all’opportunita’ che la questione meriterebbe – per la sua indubbia natura di questione di particolare importanza – di essere rimessa alle Sezioni Unite della Corte, perche’ sciolgano il dubbio stesso.

Le ragioni che giustificano l’esclusione dell’operativita’ del c.d. foro del consumatore nella fattispecie all’esame sono le seguenti.

In primo luogo, deve osservarsi che il rapporto fra la posizione dell’utente del servizio pubblico e la disciplina del citato d.lgs. (c.d. codice del consumo) dev’essere individuato sulla base di una corretta ricostruzione del significato dei due indici normativi gia’ segnalati dalla relazione presenti nel testo di esso.

La proclamazione dell’art. 2, comma 2, lett. g), richiamata nella relazione, in quanto presente in una norma rubricata “diritti del consumatore” e, quindi, deputata a fornirne una ricognizione sembra assumere sia l’indubbia valenza di assegnare al consumatore-utente del servizio pubblico il rango di una sottocategoria della categoria del consumatore-utente agli effetti del codice, sia l’ulteriore significato di identificare uno specifico atteggiarsi del diritto del consumatore-utente del servizio pubblico, considerato come tale: la specificita’ e’ quella che si esprime nel diritto alla erogazione del servizio pubblico “secondo standard di qualita’ e di effettivita’”. Peraltro, il lettore della norma in questione pone in relazione questo specifico diritto con gli altri riconosciuti dalle altre lettere della norma, e’ subito indotto a concludere che quello della lettera g) non e’ l’unico diritto riconosciuto all’utente del servizio pubblico, bensi’ soltanto un diritto aggiuntivo. Sarebbe del resto illogico,che a tale utente non siano riconosciuti quelli previsti dalle altre lettere, come ad esempio il diritto alla salute, che e’ diritto di diretta derivazione costituzionale, o quello alla purezza di prodotti.

Questa conclusione e’ confermata dalla seconda norma che specificamente considera ”utente del servizio pubblico, l’art. 101. Essa si autoproclama “norma di rinvio”, ma si tratta di una autoproclamazione che in realta’ non e’ fedele alla rubrica, posto che non si fa riferimento nel comma 1 alle norme che sarebbero oggetto del rinvio, ma piuttosto si affida allo Stato ed alle regioni, nell’ambito delle rispettive competenze, di dettare una normativa. Si tratta, dunque, di una previsione di rinvio ad un potere normativo, quindi, ad una fonte (rinvio formale).

II rinvio e’ fatto in funzione della garanzia dei “diritti degli utenti dei servizi pubblici” e questo dato normativo conferma la conclusione che quello di cui all’art. 2, comma 2, lett. g non sia l’unico diritto riconosciuto all’utente del servizio pubblico e rafforza il convincimento che quest’ultimo e’ a pieno titolo un utente, cui il codice tendenzialmente puo’ se del caso trovare applicazione. Tale conclusione e’ ulteriormente rafforzata dal rilievo di quanto emerge dai successivi tre commi.

Il comma 2 della norma, riecheggiando il comma 2, lett. g), assegna al detto potere un contenuto necessario, quello di fissare “standard di qualita’ predeterminati” in relazione al rapporto di utenza. Il comma 3 garantisce la partecipazione al procedimento normativo di definizione degli standard. Ed il comma 4 affida alla legge il compito di stabilire, per determinati enti erogatori di servizi pubblici, l’obbligo di adottare, con diversificazione rispetto ai vari settori ed in correlazione alle loro specificita’, “apposite carte dei servizi”, cosi richiamando un istituto che l’ordinamento conosceva gia’ (si veda il d.l. 12 maggio 1995 n. 163, convertito nella legge 11 luglio 1995 n 273).

Ora, l’espressa considerazione – nei commi 2, 3 e 4 – del diritto all’erogazione secondo standard di qualita’ significa che il potere di normazione, cui allude il comma 1, e’ piu’ ampio e generale, riferendosi esso ai “diritti” dell’utente del servizio pubblico in genere.

Dal comma 1 dell’art. 111 emerge un secondo dato che presenta una certa ambiguita’: la proposizione “garantiscono i diritti degli utenti dei servizi pubblici attraverso la concreta e corretta attuazione dei principi e dei criteri previsti della normativa vigente in materia” si presta, intatti, ad essere intesa: a) sia nel senso di un riferimento ai “principi e criteri della normativa vigente” nella materia dei servizi pubblici, di modo che si sia voluto affidare alla legge statale e regionale il compito di disciplinare i diritti dell’utente del servizio pubblico tenendo corto della peculiarita’ della disciplina dei vari servizi, nel quale caso si sarebbe voluto sottrarre quella figura di utente alla disciplina del codice pur applicata secondo un criterio di compatibilita’ con il modo dell’attivita’ del servizio pubblico; b) sia nel senso di un riferimento dei “principi e criteri della normativa vigente” non gia’ alla materia dei servizi pubblici, bensi’ alla materia dei diritti dell’utente, nel quale caso si sarebbe dato allo Stato ed alle Regioni soltanto il potere di raccordare la disciplina emergente su questa materia e, quindi, in primo luogo dallo stesso codice del consumo alla peculiarita’ del servizio pubblico.

Se si considera quanto si e’ detto sopra sull’esegesi dell’art. 2, comma 2, e sulle conseguenze che se ne sono tratte in punta di tendenziale applicabilita’ all’utente del sevizio pubblico della disciplina del codice, la lettura dell’art. 101, comma 1, quella che sembra preferibile e senz’altro la seconda. E cio’ per un’esigenza di elementare coerenza con quanto desumibile dall’art. 2, comma 2. Il principio di diritto che allora si puo’ affermare e’ il seguente: «L’art. 101, comma 1, del c.d. codice del consumo, di cui al d.lgs. n. 206 del 2005 non sottrae i diritti dell’utente del servizio pubblico al suo operare ove in relazione alla specifica modalita’ del rapporto di utenza le norme del codice risultino applicabili, ma consente soltanto allo Stato e alle regioni, nell’ambito delle rispettive competenze, di dettare norme che applichino i principi stabiliti dal codice tenendo conto delle peculiarita’ della disciplina del singolo servizio pubblico e delle modalita’ con cui avviene il suo espletamento».

3. Affermata, dunque, la tendenziale riferibilita’ del codice anche all’utente del servizio pubblico, in mancanza di adozione di una specifica normativa da parte dello Stato e delle regioni per gli ambiti di loro rispettiva competenza (normativa che potrebbe esprimersi anche con atti di normazione secondaria), deve ritenersi in linea tendenziale che all’utente del servizio pubblico la disciplina del codice possa applicarsi previo riscontro dell’idoneita’ del relativo rapporto ad essere ricondotto sotto le norme del codice del consumo di volta in volta considerate.

E’ a questa stregua che va verificata la compatibilita’ della norma dell’art. 33, comma 2. Iett. u), con la posizione dell’utente del servizio sanitario nazionale quando instauri una controversia inerente la prestazione di tale servizio.

3.1. Sotto tale profilo, con riferimento alla posizione dell’utente del servizio sanitario nazionale quando controverta direttamente con l’azienda ospedaliera pubblica (come’ nel caso di specie), la quale, secondo una delle possibili modalita’ di fruizione delle prestazioni del servizio sanitario nazionale, gli abbia erogato una prestazione, deve considerarsi che, nelle logica del funzionamento del pubblico servizio costituito dal c.d. servizio sanitario nazionale, l’erogazione del servizio e’ garantita attraverso una organizzazione imperniata sul principio di territorialita, cioe’ nel senso che vi sono tante articolazioni della complessiva organizzazione preposte ognuna ad un certo territorio. La fruizione del servizio, invece, non e’, pero’, necessariamente collegata alla residenza dell’utente se non in via tendenziale, essendovi, com’e’ noto, la possibilita’ di beneficiare del servizio, sia pure di solito attraverso un imput che parte dall’articolazione del servizio del luogo di residenza, in una qualsiasi articolazione dell’organizzazione. Ebbene questo rapporto fra l’organizzazione del servizio, strutturata su base territoriale, ed il diritto alla fruizione da parte dell’utente, che non e’ ancorato all’articolazione territoriale di residenza, evidenzia una circostanza che pone l’utente, quando si rivolge ad una articolazione diversa dal suo luogo di residenza, in una posizione che non e’ apparentabile a quella del consumatore di cui alla lett. u) dell’art. 33 citato. Il collegamento della struttura ad un certo territorio, ove posto in relazione con la libera scelta dell’utente di fruire del servizio al di fuori dell’ambito dell’articolazione del suo luogo di residenza, palesa cioe’ una situazione nella quale, essendo frutto di una scelta dell’utente fruire del servizio al di fuori dell’ambito riferibile al suo luogo di residenza, e’ responsabile della radicazione della vicenda all’ambito territoriale della struttura si e’ rivolto e’ esclusivamente l’utente, il quale, d’altro canto, e’ pienamente consapevole che l’articolazione cui si e’ rivolto e’ predisposta per operare in un certo ambito territoriale. E’ pertanto, pienamente ragionevole che la vicenda del contenzioso che nasce dall’erogazione del servizio non sia soggetta al foro del consumatore.

A queste considerazione deve aggiungersi – superando i dubbi affacciati nella relazione che l’azienda ospedaliera pubblica non riveste la qualita’ di “professionista”, che e’ essenziale per l’applicabilita’ della norma de qua. Cio’, perche’ l’azienda sanitaria pubblica (anche se oramai e’ sostanzialmente configurabile come un soggetto privato e non pubblico, gestito con criteri manageriali, com’e’ per la A.S.L), quando eroga la prestazione non agisce nell’esercizio di un’attivita’ imprenditoriale, commerciale, artigianale, non potendo l’attivita’ che ha permesso di eseguire la prestazione a favore dell’utente considerarsi espressione di attivita’ di quel genere quindi, un’attivita’ economica, per l’assorbente ragione che il suo svolgimento deve avvenire senza il necessario rispetto del principio di economicita’, atteso che comunque l’erogazione del servizio deve essere assicurata anche se cagiona perdite. L’azienda sanitaria pubblica, dunque, non agisce come un “professionista” alla stregua della nozione fissata dall’art. 3 lett. e) del codice.

Ne’ puo’ considerarsi che detta attivita’ sia espressione dell’esercizio di una professioni, come adombrato dalla relazione: il momento finalistico dell’attivita’, in quanto essa e’ diretta all’assicurazione del servizio esclude che si verta in ipotesi di esercizio di una professione ai sensi delle norme degli arti 2229 e ss. c.c., per l’assorbente ragione che l’attivita’ professionale secondo tali norme e’ finalizzata alla consecuzione di un compenso.

Neppure potrebbe argomentarsi che professionali sono comunque le attivita’ del personale servente dell’azienda sanitaria, che riceve remunerazione per il loro espletamento: e’ sufficiente osservare che rispetto al rapporto che si instaura fra l’azienda e l’utente tale remunerazione non viene in evidenza. Ma nemmeno viene in evidenza rispetto al rapporto che si instaura fra il personale dell’azienda e l’utente, secondo la giurisprudenza della Corte che ormai tende a configurare una responsabilita’ contrattuale (talvolta definita da “contatto”‘) anche nel rapporto fra l’utente ed il personale sanitario. Onde, l’applicazione del foro di cui all’art. IX comma 2, lett. u) non potrebbe discendere di riflesso nemmeno sotto tale profilo, cioe’ per la configurabilita’ del foro inderogabile almeno rispetto al detto personale. Si e’, in sostanza, in presenza di attivita’ professionale, ma non nel senso supposto dall’art, 3, lett. e), il quale, in relazione alla tutela dell’art. 33 in genere suppone che il carattere professionale dell’attivita’ del detto “professionista” si ponga in riferimento al contratto stipulato con il “consumatore”.

Alla soluzione dell’inapplicabilita’ dell’art 33, comma 2, lett. u) deve pervenirsi anche a proposito di una struttura convenzionata.

Cio’, anzitutto per la ragione che vale l’argomento della territorialita’ dell’espletamento del servizio e della libera scelta dell’utente di fruirne fuori del suo luogo di residenza. Inoltre, se e’ vero che essa si presenta come un’azienda diretta a perseguire un utile proprio in ragione dell’espletamento della prestazione sanitaria coperta dal Servizio Sanitario Nazionale questi viene in rilievo quando essa stipula la convenzione con gli organismi di diritto pubblico a cio’ abilitati, mentre, una volta instaurata la convenzione, la fornitura del servizio all’utente avviene con modalita’ del tutto identiche a quelle seguite dalla struttura pubblica, senza cioe’ che l’essere l’azienda sanitaria privata convenzionata un imprenditore si ponga come tale. Cio’ e’ tanto vero che I”utente del servizio sanitario nazionale si rivolge ad essa come si sarebbe rivolto alla struttura pubblica. Anche in questo caso valgono, poi, le medesime considerazioni svolte a proposito dell’atteggiarsi del rapporto fra l’utente ed il personale della struttura sanitaria privata.

Va semmai precisato che, qualora il rapporto fra l’utente e la struttura sanitaria convenzionata abbia corso con l’espletamento di eventuali prestazioni aggiuntive direttamente a carico dell’utente e non del Servizio Sanitario Nazionale, allora l’art. 3 comma 2, lett. u) potra’ venire in rilievo, in quanto nel rapporto, necessariamente da considerarsi su base unitaria, l’azienda sanitaria si e’ posta direttamente nei confronti dell’utente come “professionista”.

Resta da dire del caso in cui abbia corso l’espletamento di una prestazione sanitaria direttamente da parte di un’azienda sanitaria privata non convenzionata e, quindi, sulla base di un normale rapporto privatistico con l’utente che abbia scelto di non rivolgersi al Servizio Sanitario Nazionale.

In questo caso l’azienda si pone senza dubbio come “professionista” ed il foro del consumatore e’ applicabile, senza che ne derivi alcuna incoerenza con il collocarsi di detta azienda nell’ambito dello stesso pubblico servizio inerente la sanita’. Ne’ l’applicabilita’ del detto foro in questo caso comporta una disparita’ di trattamento ai sensi dell’art. 3 tra l’utente che scelga di rivolgersi al Servizio Sanitario Nazionale e quello che si rivolge alla struttura sanitaria privata la disparita’ e’ insussistente, perche’ quest’ultimo, che gia’ come cittadino subisce sul piano fiscale l’incidenza del costo del detto servizio, se ne accolla direttamente un altro, di modo che le due situazioni sono diverse fra loro.

4- Rimane a questo punto da considerare un argomento svolto nell’ambito del seconde motivo e che la relazione, postasi nell’ottica da cui il Collegio ha parzialmente dissentito a proposito della non ricorrenza del “contratto” nel rapporto fra l’utente e la struttura pubblica convenzionata, non ha considerato perche’ sostanzialmente assorbito.

L’argomento e’ quello desunto da Cass. n. 369 del 2007 in ordine al riconoscimento della posizione di consumatore del terzo beneficiario della polizza assicurativa, nonche’ dalla pregressa ordinanza 235 del 2004 della Corte costituzionale sulla stessa questione. Di tale principio si invoca l’estensione analogica alla posizione dell’utente del servizio Sanitario nazionale, perche’ anche costui, come il detto beneficiario, non sopporta il costo del servizio, ma e’ beneficiario pur sempre di un costo, quello necessario per il funzionamento diretto od indiretto del Servizio Sanitario Nazionale, sopportato da altri, cioe’ nella sostanza da tutti i consociati che adempiono agli obblighi fiscali e cosi’ consentono il finanziamento del Servizio, e, sul piano formale, dal soggetto che sul piano pubblicistico opera, ai vari livelli, la destinazione delle somme alle varia strutture sanitarie o le impiega per il c.d. convenzionamento.

L’invocazione del principio stabilito da Cass. n. 369 del 2007 non e’, tuttavia, pertinente, perche’, come ad altri effetti ha evidenziato questa Corte (si veda Cass. (ord.) n. 29:2.76 del 2007), esso trova spiegazione nell’essere il beneficiario della polizza assicurativa direttamente titolare del diritto previsto dal contratto e, quindi, partecipe del regolamento contrattuale che gli attribuisce il diritto. Sicche’ quello che viene in rilievo e’ il rapporto fra il “professionista” ed il consumatore che ha stipulato la polizza, in quanto esso stesso ha attribuito un diritto al beneficiario, che lo esercita sulla base del contratto. L’utente che si avvale del Servizio Sanitario Nazionale, viceversa non esercita un diritto che nasce dal rapporto fra la struttura pubblica che stipula la convenzioni con un’azienda sanitaria privata o un diritto che trae titolo dal rapporto in forza del quale l’azienda sanitaria pubblica – tra l’altro certamente non riconducibile alla figura del contratto – agisce nell’ambito del Servizio Sanitario Nazionale ricevendo le erogazioni di pubblico danaro occorrente all’espletamento del servizio.

5- Deve, dunque, dichiararsi la competenza del Tribunale di Perugia, avanti al quale le parti vanno rimesse, con termine per la riassunzione di mesi tre dalla comunicazione del deposito della presente.

Le spese del procedimento possono essere compensate per giusti motivi ravvisabili nella delicatezza e novita’ della questione di diritto esaminata.

P. Q. M.

La Corte dichiara la competenza del Tribunale di Perugia, avanti al quale rimette le parti, a termine per la riassunzione di mesi tre dalla comunicazione del deposito della presente. Compensa le spese del giudizio di regolamento di competenza.

Depositata in Cancelleria il 02.04.2009

Cass. civ., sez. I 08-11-2006, n. 23798 Opere private di pubblica utilità – Occupazione appropriativa

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Il Tribunale di Genova, con sentenza del 6 febbraio 1996, rigettava (per quanto qui interessa) la domanda con cui Lu. e Ve.La., nonché Fo.Ga. avevano chiesto che venisse dichiarato il loro diritto di proprietà su alcuni beni immobili riportati in catasto all’art. 8256, fg. 83, mappa li 491 e 595 che il comune di Ge. aveva occupato con decreto del 18 agosto 1973 onde attuare il piano particolareggiato di via Ma. di Di., e sui quali il condominio "Ce.dei Li." aveva realizzato una serie di serbatoi nonché altri locali ed apparecchiature di sua pertinenza; rigettava altresì le richieste degli attori di declaratoria di illegittimità e di rimozione ‘di queste opere, dichiarando sia il difetto di legittimazione attiva dei La.Ga., che il difetto di legittimazione passiva del Condominio.

L’impugnazione dei proprietari è stata respinta dalla Corte di appello di Genova con sentenza del 19 marzo 2003, in quanto: a) nel caso era stata realizzata un’opera pubblica costituita dall’attuazione del piano particolareggiato di via Ma. di. Di. ;per cui l’irreversibile trasformazione dei terreni La.Ga., aveva dato luogo, in mancanza del decreto ablativo, alla loro occupazione espropriativa; b) non era, d’altra parte, possibile scindere l’opera nelle sue singole parti, sia perché il piano aveva avuto realizzazione unitaria, ed equivaleva a dichiarazione di p. u., sia perché con la previsione di questo ne era stata automaticamente decretata anche la funzione di interesse pubblico; c) conseguentemente il diritto al risarcimento del danno andava fatto valere nei confronti dell’amministrazione comunale che aveva provveduto all’occupazione d’urgenza degli immobili.

Per la cassazione della sentenza Lu.Gi. e Si.La., quali eredi di Lu.La., Ve.La. e Fo.Ga. hanno proposto ricorso per un motivo;cui resiste con controricorso il Condominio "Ce. de.Li." il quale ha proposto a sua volta ricorso incidentale per due motivi, con il primo dei quali è stata riproposta l’eccezione di difetto di giurisdizione del giudice ordinario, già disattesa da entrambi i giudici di merito.

Le Sezioni Unite con sentenza 15 maggio 2006, con la quale sono stati riuniti i ricorsi, l’hanno dichiarata inammissibile.

Motivi della decisione

2. Con il ricorso i La., i Ra. e Fo.Ga., deducendo violazione degli art. 2043 cod. civ., nonché 922 e 936 cod. civ. e 3 della legge 458 del 1988 censurano la sentenza impugnata per aver ritenuto che anche le opere ed i manufatti costruiti sul loro fondo ed ora costituenti pertinenze dell’edificio condominiale di via Fi. di Genova, possano essere stati acqusiti dal comune per effetto della cd. occupazione espropriativa, senza considerare: a) che l’istituto è applicabile esclusivamente allorquando viene realizzata un’opera pubblica:invece confusa dai giudici di merito con l’attuazione di un piano particolareggiato, che invece prevede la realizzazione anche di opere private ed appartenenti a privati; b) che non rilevano in contrario le disposizioni sulla retrocessione applicabili soltanto a seguito di regolare espropriazione degli immobili, né il carattere inscindibile del piano:una volta che gli stessi giudici di merito avevano escluso che i manufatti costruiti sul loro terreno facessero parte di alcuna opera pubblica, ma avevano funzione pertinen-ziale nei confronti del caseggiato condominiale; c) che d’altra parte tali opere non potevano essere qualificate "pubbliche" per il solo fatto di essere state oggetto di dichiarazione di p. u. o di rispondere ad un interesse pubblico;per cui le aree su cui insistevano avevano continuato ad appartenere ad essi ricorrenti, legittimati a chiedere la tutela del loro diritto reale nei confronti dell’ente occupante.

3. Il ricorso è fondato.

La Corte di appello ha accertato, e le parti hanno confermato, che il comune di Genova, onde realizzare un piano particolareggiato per il comprensorio della locale via Ma. di Di., a seguito di decreto n. 411/7 del 18 agosto 1973 aveva provveduto all’occupazione temporanea di alcuni terreni di cui i La. e la Ga. erano comproprietari, e che, malgrado non fosse mai intervenuto il decreto di espropriazione, aveva autorizzato la costruzione di opere ed impianti di proprietà privata (pag. 19 controric.), fra cui alcuni serbatoi per combustibile ed altri manufatti a servizio del Condominio denominato "Ce. dei Li.", del cui fabbricato, realizzato nella via Fi., costituiscono pertinenze.

Non ha invece accertato l’esatta ubicazione di queste opere, né quella di una porzione dello stesso edificio condominiale, che gli attori assumevano insistere anche sui loro terreni, per aver ritenuto, da un lato, che detti manufatti facessero comunque parte di un’opera pubblica unitaria ed inscindibile, quale andava considerata l’attuazione del piano particolareggiato; e dall’altro che l’approvazione di esso, aveva comportato la dichiarazione di p.u. di tutte le opere previste, ed aveva quindi decretato la funzione di interesse pubblico pur di quelle private, dando luogo al verificarsi della ed. espropriazione sostanziale o accessione invertita in capo al comune di Genova

Ma così argomentando, la sentenza impugnata non ha considerato che nel vigente ordinamento la realizzazione senza titolo di opere e manufatti (di natura privata) su terreno altrui, pur se conformi agli strumenti urbanistici ed autorizzati dall’autorità comunale, è disciplinata, quanto all’assetto reale, non dalla regola della espropriazione di fatto e neppure dall’interpretazione giurisprudenziale circa l’estensione ed i limiti della stessa, ma dalla specifica disposizione dell’art. 934 cod. civ. che, ribadendo il principio dell’accessione risalente al diritto romano e già recepito dall’art. 446 del codice del 1865, stabilisce che la costruzione si ‘incorpora al suolo ed appartiene immediatamente al proprietario di questo:senza attribuire rilevanza alcuna alla sua consistenza o alla sua destinazione né alla coincidenza o meno degli interessi dell’esecutore con quelli della collettività.

Gli unici temperamenti a questo effetto traslativo, operante peraltro ipso iure, sono dati dalla facoltà dello ius tollendi concessa al proprietario dei manufatti alle condizioni previste dal 1° comma degli art. 935 e 937 cod. civ., nonché dall’ipotesi eccezionale della cd. accessione invertita di cui al successivo art. 938 che nessuna delle parti ha invocato in questo giudizio. Per cui, pur dopo l’affermarsi della ed. occupazione espropriativa o acquisitiva, la giurisprudenza di questa Corte ha ripetutamente ribadito che al di fuori di tale speciale (e perciò non estensibile) previsione, l’acquisto coattivo di un immobile altrui non è certamente attuabile attraverso la costruzione su di esso di un’opera di interesse generale onde conseguire un inesistente ius retinendi, contraddetto dalle menzionate norme, necessitando al riguardo il procedimento- di espropriazione per p. u. che si concluda regolarmente con l’adozione del decreto ablativo (da ultimo, Cass. 8777/2004) : pur esso esperibile non da qualsiasi soggetto portatore di interessi riconosciuti meritevoli di tutela come interessi pubblicistici (pag. 17 e segg. controrìc.), ma per cause di pubblica utilità specificamente individuate dalla legge (art. 42 Costit. ed 1 Convenzione dir. dell’uomo), fra le quali l’art. 16 della legge 1150 del 1942 modificato dall’art. 5 della legge 765 del 1967 include anche l’attuazione di piani particolareggiati (ovvero di piani dì lottizzazione) di esecuzione del piano regolatore generale.

4. Proprio quest’ultima norma è invocata dalla sentenza impugnata e dal Condominio per superare il sistema normativo appena evidenziato ed estendere l’applicazione dell’occupazione acquisitiva alle espropriazioni al riguardo necessarie, per il fatto che l’approvazione del piano implica "dichiarazione di p.u. per tutte le opere dallo stesso previste"; dal quale viene tratta la duplice conseguenza che la declaratoria suddetta comporta necessariamente anche il riconoscimento della funzione di interesse pubblico alle opere in questione, conferendo loro altresì carattere unitario ed inscindibile. E perciò comportandone secondo la prospettazione del Condominio la trasformazione in una sorta di anomala ed abnorme opera pubblica, da considerare globalmente, in cui perderebbero rilievo la natura sia dei singoli manufatti che la compongono sia dei soggetti che ne acquistano la titolarità in quanto ciascuno di essi risponde allo stesso interesse pubblico dì attuazione del piano particolareggiato.

Ma una tale conclusione è contraddetta dalla giurisprudenza ordinaria e da quella amministrativa, fermissime nel riservare la qualifica di opera pubblica soltanto a quelle, con determinate caratteristiche strutturali e tipologiche (qui non ricorrenti), destinate, sotto il profilo funzionale, a soddisfare un’esigenza di pubblico interesse; e, sotto il profilo soggettivo alle opere che rientrino "ab origine" in proprietà di un soggetto pubblico, (o a quelle che, pur se realizzate da un soggetto privato concessionario anche della gestione, passino in proprietà del soggetto pubblico alla scadenza della concessione stessa). E perciò nel non consentire la distinzione, del tutto irrilevante al riguardo, prospettata dal Condominio tra pubblicità degli interessi, pubblicità dei destinatari e pubblicità dell’opera, questa comunque escludendo quando manchi almeno una delle indicate condizioni/per appartenere l’opera ad un soggetto privato (Cons St. V, 3860/2000; 1280/1995; 1000/1994; Ad. pl. 1/1990).

Per converso, la sentenza impugnata e l’ente controricorrente hanno confuso la realizzazione di questa categoria di opere (e le conseguenti problematiche per l’acquisizione delle aree necessarie) con quella dei piani particolareggiati e la relativa funzione che non è quella di pubblicizzare tutte le strutture che ne individuano il contenuto, bensì, come si evince dall’art. 13 della stessa legge urbanistica, quella di attuare gradatamente e razionalmente per singole porzioni del territorio comunale le sistemazioni urbanistiche previste dal P.R.G.: e quindi di disciplinare l’assetto delle singole zone e dei singoli lotti con ulteriori determinazioni che contemperino l’attività edificatoria privata (spazi, volumi, altezze, ecc.) con gli interessi collettivi (rete viaria, aree destinate ad impianti pubblici). sì da corrispondere alla specifica esigenza di inquadrare armonicamente in un determinato comprensorio edifici privati ed impianti di carattere collettivo e sociale, allo scopo di garantire il conseguimento di interessi pubblici concernenti l’igiene, il traffico, la funzionalità delle attrezzature sociali progettate, nonché aspetti estetico-ambientali ed architettonici della porzione di territorio oggetto della sistemazione:perciò da non confondere con quelli sottesi alla destinazione dell’opera pubblica.

Ciò rende ragione della disposizione del ricordato art. 16, la quale: A) intende stabilire soltanto che non sono necessarie tante dichiarazioni di p. u. quante siano le opere -private o pubbliche- da eseguire, essendo sufficiente al riguardo l’approvazione del piano regolatore particolareggiato che investe unitariamente tutte quelle in esso previste per la trasformazione urbanistica della zona; B) si rivolge esclusivamente alla dichiarazione dì p., retrocessione di cui agli art. 60 e segg. della leggeu. delle opere comprese nel piano ed alle sue conseguenze (contenuto, termini di cui all’art. 13 della legge 2359 del 1865), che attribuisce automaticamente a tutte per l’approvazione del piano urbanistico di terzo livello, in conseguenza della ricordata visione unitaria e globale dell’intervento composito di assetto del territorio con esso individuato: nell’ambito del quale l’autonomia delle singole opere si dissolve, dunque, limitatamente agli effetti ed alla finalità suddetti(Cass. 5214/1989; 6222/1983); C) non consente di confondere, come ha fatto il Condominio, tale fenomeno circoscritto alla fase dì approvazione del piano, con la mancanza di autonomia peculiare delle diverse componenti strutturali e funzionali di un’opera pubblica, inerente al regime interno dell’opera stessa, che, costituendo una individualità ontologica unica, si propaga su ogni parte di essa, persino con riguardo alle porzioni di suolo non interessate da costruzioni, o interessate da manufatti di contorno, di completamento o di servizio, che hanno definitivamente perduto rispetto al tutto la loro autonomia (Cass. 2897/1997;3723/1995). Ed influisce conseguentemente anche sull’applicazione degli istituti attraverso i quali è consentita l’acquisizione autoritativa degli immobili privati per realizzarla; D) si coniuga perfettamente con la funzione propria della dichiarazione di p.u. che, seppure costituisce il primo e fondamentale presupposto per procedere alla loro espropriazione -rappresentando nel contempo, la guarentigia prima e fondamentale dell’espropriando nonché la ragione giustificatrice del sacrificio richiesto a quest’ultimo- non permette ancora a1l’espropriante l’apprensione ed il godimento dell’immobile altrui onde realizzarvi l’opera programmata nella dichiarazione. Laddove a tale funzione rispondono esclusivamente altri istituti (Cass. fin da 2854/1964), di carattere temporaneo, quale l’occupazione d’urgenza, o definitivo che per le opere di cui sia destinatario un privato quale che ne sia l’interesse che consente il ricorso al trasferimento autoritativo, sono necessariamente il decreto di esproprio ovvero il contratto dì cessione volontaria.

5. A queste considerazioni si deve aggiungere l’impossibilità giuridica di estendere comunque alle opere private di interesse pubblico, l’ambito di applicazione dell’occupazione espropriativa, di cui i giudici di merito hanno mostrato di non intendere né la ragion d’essere, né la funzione.

La giurisprudenza di questa Corte ha infatti ripetutamente osservato al riguardo: a) che lo stesso art. 834 pone un preciso limite al principio "superficies solo cedit" escludendone l’applicazione (per quanto qui interessa) tutte le volte in cui "dalla legge risulti diversamente": come semplìficativamente accade per le vie ferrate pubbliche per le quali l’art. 225 della legge 2248 del 1865 All. F addirittura capovolge la regola dell’accessione, disponendo che di esse entrano necessariamente a far parte "i terreni da occuparsi con le siepi ? muri ? i terreni necessari per la creazione di stazioni? "; b) che, più in generale, gli art. 822 e segg. cod.civ. stabiliscono che ove l’opera realizzata costituisca un bene demaniale, essa diviene inalienabile e non può formare oggetto di diritti a favore dei terzi se non nei modi stabiliti dalla legge che la riguardano;mentre ove essa dia luogo ad un bene patrimoniale indisponibile, questo non può più essere sottratto alla sua destinazione se non nei modi stabiliti dalle leggi che lo riguardano (art. 828 cod. civ.); c) che conseguentemente, allorquando un’opera rientrante nell’una o nell’altra categoria di beni viene realizzata utilizzando un fondo privato senza completare i normali canali espropriativi, il legislatore per un verso imprime al nuovo bene detto regime giuridico diverso da quello relativo ai beni privati/ perciò escludendo l’operatività dell’accessione;e d’altra parte, non consente la prospettiva di mantenere divise la proprietà del suolo e quella dell’opera pubblica (autorizzata nei soli limiti di cui all’art. 952 cod. civ.), il più delle volte inattuabile anche fisicamente per la irreversibilità della trasformazione eseguita e l’inscindibilità del nuovo contesto non più corrispondente al "suolo" originario.

Ed allora è limitatamente ad entrambe le categorie di opere pubbliche -e per esse soltanto – che può porsi (e si è in effetti posto) il problema dì definirne il regime dominicale, risolto da questa Corte con il noto principio dell’occupazione espropriativa a favore dell’amministrazione che le ha realizzata; e giustificato dalla Corte costituzionale proprio con il precetto dell’art. 42 Costit. che, nel conflitto tra l’interesse del proprietario del suolo ad ottenerne la (peraltro solo ipotetica) restituzione e quello della p.a. alla conservazione dell’opera pubblica, attribuisce prevalenza a quest’ultimo, realizzando sul versante pubblicistico un modo di acquisto della proprietà allo scopo precipuo di assicurarne la funzione sociale (Corte Cost. l88/1995; 384/1990).

ÿ significativo al riguardo che fin dalle note decisioni che hanno definito presupposti e confini dell’istituto, le Sezioni unite della Corte (cfr. sent. 3940/1988; 3963/1989; 4619/1989) ne abbiano evidenziato la distinzione dal fenomeno, indiscriminato e generico, dell’apprensione sine titulo per qualsivoglia ragione e fine (pur se di interesse collettivo) di un bene immobile altrui, affermando che lo stesso è necessariamente caratterizzato "quale suo indefettibile punto di partenza" da una dichiarazione di p. u. dell’opera e "quale suo indefettibile punto di arrivo" dalla realizzazione dell’opera pubblica medesima:perciò necessariamente appartenente all’una o all’altra delle categorie appena menzionate, e strettamente sottoposta al relativo regime pubblicistico che ne impedisce alla stessa amministrazione la dismissione e la restituzione del suolo all’originario proprietario. Con la conseguenza che esulano necessariamente da tale schema applicativo le costruzioni che pur assolvendo a finalità dì pubblico interesse, restano (come quelle dì cui si discute), di appartenenza privata (Cass. 8777/2004 cit.; 15179/2000; 9585/1997; 4738/1997; sez. un. 9521/1996); e 16 perfino quelle che, pur essendo realizzate dalla p. a., perciò necessariamente per interessi pubblici, sono destinate a restare nell’ambito dei beni patrimoniali disponibili, ovvero non sono precedute dalla prescritta dichiarazione di p. u. (ed, occupazione usurpativa), indispensabile per attribuire loro la qualifica di bene demaniale o patrimoniale indisponibile (da ult. Cass. 7643/2003;17252/2002; 15710/2001; 15687/2001; 4451/2001; 1266/2001).

6. Questa ricostruzione dell’istituto e dei suoi limiti operativi (da ultimo Cass. sez. un. 7504/2003; 6853/2003; 5902/2003) ha trovato riscontro nella legge 458 del 1988 ricordata dalle parti, il cui art. 3 ha esteso la regola dell’occupazione acquisitiva alle costruzioni dì opere di edilizia residenziale pubblica realizzate da soggetti privati (pur se nel quadro del regime concessorio e convenzionale di cui all’art. 35 della legge 865/1971 ovvero nel concorso di elementi agevolativi di altro tipo). Ha rilevato al riguardo la Corte Costituzionale (sent. 486/1991), che la norma dimostra che prima di essa la fattispecie estintivo-acquisitiva nel settore dell’edilizia residenziale poteva verificarsi soltanto per quelle costruzioni realizzate direttamente dalle p.a. (o da loro concessionari) e perciò rientranti nel patrimonio indisponibile delle stesse. E che l’estensione dell’istituto ad interèssi che sono solo indirettamente pubblici, può essere disposto da. una specifica disposizione legislativa ed avere effetto limitato al solo settore dì essi che ne rappresenta l’oggetto:tant’è che avendo il menzionato art. 3 operato l’estensione ai soli terreni acquisiti con "provvedimento espropriativo dichiarato illegittimo con sentenza passata in giudicato", la Consulta per includere nella medesima tutela anche la fattispecie di terreni acquisiti senza l’emissione del provvedimento di esproprio, sostanzialmente identica nella situazione ontologica e negli effetti (per la retroattività della caducazione del provvedimento ablativo) ha dovuto dichiarare costituzionalmente illegittima la norma nella parte in cui era stata omessa quest’ultima previsione: per la quale altrimenti avrebbe continuato ad applicarsi la regola generale dell’art. 934 cod. civ.

Lo stesso legislatore, del resto, non ha mancato nuovamente di dare atto del contenuto e dei limiti dell’occupazione appropriativa, questa volta in una norma di natura fiscale l’art. 5 della legge 413 del 1991- con la quale ha assoggettato al regime delle plusvalenze tutti gli indennizzi dovuti per l’espropriazione di immobili, provenienti dall’art. 42, 3° comma Costit. -. perciò specificando (5 comma) che in essi dovevano comprendersi anche le somme comunque dovute per effetto di occupazioni appropriative "relativamente a terreni destinati ad opere pubbliche, ovvero ad interventi di edilizia residenziale pubblica ed economica e popolare?";ed escludendo la configuarabilità di indennizzi di natura risarcitoria collegati ad asseriti espropri di fatto per la realizzazione di interessi della collettività.

Ed infine per equiparare questi ultimi alle opere pubbliche di cui si è detto, il legislatore ha dovuto "eliminare la figura della occupazione appropriativa o espropriazione sostanziale" (Cons. St. Ad. gen. 4/2001), introducendo nell’art. 43 del T.U. sulle espropriazioni per p.u. appr. con d. p. r. 327/2001 (pacificamente inapplicabile alla fattispecie: cfr. Cass. sez. 5414/2004; 18239/2005; 18218/2003) l’istituto dell’utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di interesse pubblico;il quale consente (3° comma), qualora "sia esercitata una azione volta alla restituzione di un bene utilizzato per scopi di interesse pubblico" sia all’amministrazione che ne ha interesse, sia a "chi utilizza il bene" di chiedere "che il giudice amministrativo, nel caso di fondatezza del ricorso o della domanda, disponga la condanna al risarcimento del danno, con esclusione della restituzione del bene senza limiti di tempo".

E ciò perfino nell’ipotesi, che i ricorrenti assumono essersi verificata per i loro terreni, che sull’immobile sia imposta soltanto "una servitù di diritto privato.. ed il bene continui ad essere utilizzato dal proprietario o dal titolare di un altro diritto reale" (5° comma). Laddove l’occupazione espropriativa non è configurabile nell’ipotesi di asservimento senza titolo del fondo del privato neppure ad un’opera pubblica;nella quale non si determina la costituzione a favore della Pubblica Amministrazione di servitù, secondo lo schema suddetto, in considerazione della non configurabilità dei relativi presupposti (radicale trasformazione ed incorporazione del bene in detta opera) rispetto ai diritti reali "in re aliena", ma soltanto un illecito di tipo permanente, il quale perdura fino a che non venga rimossa la situazione abusiva (Cass. sez. un. 2724/1991;8065/1990;3963 e 4619/1989).

7. Conclusivamente la costruzione sul fondo dei ricorrenti di opere e manufatti appartenenti (o asserviti) al condominio o di pertinenza dì quest’ultimo senza provvedimenti di esproprio e/o di asservimento configura un fatto illecito di natura permanente (anche agli effetti della prescrizione invocata dal ricorrente incidentale), che non ha comportato il trasferimento della sua proprietà o la costituzione di un diritto di servitù in capo all’ente costruttore o a quello che ha detenuto l’immobile senza titolo, ma resta disciplinato in ogni suo profilo dal combinato disposto degli art. 2043 e 2058 cod. civ. I quali attribuiscono proprio agli attuali proprietari La.Ga. la legittimazione ad esercitare le relative azioni a tutela del loro diritto dominicale: da essi correttamente rivolte non nei confronti del soggetto che aveva ottenuto il decreto di occupazione temporanea -il comune dì Genova- ed era obbligato a corrispondere l’indennizzo di cui all’art. 20 della legge 865/1971 (estraneo a questo giudizio), ma nei confronti dell’autore della illegittima detenzione del bene pur dopo la scadenza del periodo autorizzato dal menzionato decreto:tenuto a rispondere, proprio per il carattere personale della responsabilità extracontrattuale invocato dal Condominio, per non aver consentito ai proprietari a decorrere da tale data, il pieno ed esclusivo godimento del fondo loro riconosciuto dall’art. 832 cod. civ.

Pertanto la sentenza impugnata ha errato anche nella individuazione dei soggetti processuali titolari del rapporto obbligatorio fatto valere dai ricorrenti; per cui/dichiarato inammissibile il secondo motivo del ricorso incidentale con cui il Condominio ha riproposto l’eccezione di prescrizione della propria obbligazione risarcitoria, che potrà essere esaminata soltanto dal giudice di rinvio, la decisione suddetta va cassata con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Genova che si atterrà ai principi esposti e provvedere alla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte, accoglie il ricorso principale, dichiara inammissibile il secondo motivo dell’incidentale, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia anche per le spese del giudizio di legittimità ad altra sezione della Corte di appello di Genova.

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