Classici

Esponenti di quella corrente di pensiero economico che si è sviluppata verso la fine del XVIII secolo ed i primi anni del XIX e a cui fanno capo autori come Smith, Ricardo, Malthus, Mill e, con le dovute differenze, Marx.
Nella visione degli economisti classici, il sistema economico è retto da leggi naturali che, se non intervengono fattori perturbatori esterni, ne garantiscono l’armonioso sviluppo.
L’opera che pone le basi dell’economia classica fu pubblicata da Adam Smith (v.) nel 1776 con il titolo Indagine sulla natura e sulle cause della ricchezza delle Nazioni. Tutta l’opera di Smith è tesa a rilevare le cause del progresso economico delle nazioni. L’ipotesi sviluppata dall’autore è che l’arricchimento di un paese dipende dall’accumulazione (v.) del capitale, la quale è a sua volta condizionata dalla preferenza per il risparmio che contraddistingue le classi ricche. Il capitale, infatti, non solo permette di accrescere la produttività (v.) del lavoro, ma anche di aumentare il numero di lavoratori produttivi facilitando il progresso e la crescita della produzione nazionale.
Tutta l’argomentazione smithiana è, tuttavia, legata ad un presupposto fondamentale ed indiscusso: il salario percepito dai lavoratori è fissato ad un livello di sussistenza che garantisce soltanto la soddisfazione dei bisogni primari dei salariati; date queste premesse l’unica classe in grado di assicurare una reale accumulazione del capitale è quella dei redditieri e degli imprenditori.
La contraddizione interna all’analisi di Smith risulta però, evidente, quando viene affrontato il problema della determinazione del prezzo di un bene, attraverso la teoria del valore-lavoro (v.).
Secondo tale teoria poiché il costo di un bene è determinato dal lavoro impiegato per produrlo, il suo prezzo è maggiore o minore a seconda del tempo e della fatica impiegati; ma se il prezzo di un bene coincide con il suo tempo di lavorazione, il profitto dell’imprenditore non trova alcuna giustificazione logica.
L’analisi degli aspetti trascurati da Smith sarà successivamente ripresa da Ricardo (v.) che pone la sua attenzione soprattutto sul problema della distribuzione delle risorse; dopo aver posto in evidenza come il prezzo di un bene non sia dato soltanto dal lavoro in esso incorporato, ma includa anche una quota di profitti e rendite, egli si sofferma sull’analisi della distribuzione della ricchezza tra le varie categorie sociali.
Ricardo distingue tre categorie che partecipano alla distribuzione del reddito: i lavoratori, gli imprenditori ed i redditieri. Se la parte del reddito nazionale spettante al primo gruppo è fissata al salario di sussistenza, la quota spettante alle altre due categorie è variabile.
Nell’analisi ricardiana il ruolo di queste due classi sociali è nettamente diverso; i redditieri spendono completamente quello che percepiscono in consumi improduttivi, mentre gli imprenditori sono il motore dell’economia in quanto reinvestono i loro profitti per creare ulteriore ricchezza.
Tenendo presente che, in pratica, la ricchezza prodotta da una nazione viene suddivisa tra queste due categorie, dopo aver dedotto la quota di sussistenza spettante ai lavoratori, ogni aumento dei redditi dei proprietari terrieri non favorisce in alcun modo l’aumento della ricchezza nazionale in quanto i maggiori guadagni non verranno destinati ad investimenti produttivi.
Un altro campo in cui l’economista inglese ha dato un fondamentale contributo è stato quello dell’elaborazione di un modello per il commercio internazionale (v.). Il modello ricardiano ipotizza che ciascun paese esporterà il bene che è in grado di produrre ad un costo medio del lavoro relativamente inferiore. In particolare, in presenza di mercati perfettamente concorrenziali, le differenze internazionali nella produttività media del lavoro finiscono per essere la causa principale delle divergenze nei costi e nei prezzi.
Tra gli economisti classici una figura di rilievo è quella di Malthus (v.), del quale si ricorda soprattutto il Saggio sul principio della popolazione, che fu spesso in contrasto con Ricardo ma ne influenzò profondamente l’opera, fornendo la base logica dell’idea del salario di sussistenza. Malthus fondò la sua teoria, nota come trappola malthusiana (v.), sul contrasto tra due progressioni: quella della popolazione che aumenta secondo una progressione geometrica, cioè tende a raddoppiare ogni venticinque anni, e la produzione alimentare che invece cresce secondo una progressione aritmetica. Pertanto, anche se all’inizio di un dato periodo la popolazione fosse ben rifornita di scorte alimentari, l’operare di queste due progressioni produrrebbe ben presto una situazione insostenibile.
Un altro punto di contrasto tra Malthus e Ricardo è dato dal problema della domanda effettiva che avrà, poi, un suo sviluppo nell’analisi di Keynes (v.). Ricardo, infatti, partiva dall’ipotesi che tutta la produzione trovasse un suo mercato di sbocco (v. Legge degli sbocchi), mentre Malthus, rifiutando quest’ipotesi, avanzò l’idea che l’accumulazione ininterrotta da parte dei capitalisti poteva risultare controproducente, in quanto avrebbe determinato un eccesso di produzione. Ne sarebbe conseguita una saturazione, cioè una generale sovrapproduzione di merci senza un’adeguata offerta di moneta per acquistarle. Contraddicendo Ricardo, Malthus affermava che il rimedio consisteva nel sostenere il reddito dei proprietari terrieri che svolgevano la funzione socialmente utile di impiegare le loro rendite in spese di lusso mantenendo in tal modo elevato il livello della domanda effettiva.
L’analisi dei classici trova necessariamente dei limiti nel contesto storico in cui essa opera; alcune delle ipotesi fondamentali degli economisti classici (salario di sussistenza, legge degli sbocchi ecc.) furono ben presto smentite dallo sviluppo del sistema economico.
Il punto debole doveva però rivelarsi la teoria del valore-lavoro, avendo questa il grande limite di non spiegare la formazione del profitto imprenditoriale poiché se il prezzo di un bene è dato dal tempo impiegato per produrlo, la quota di cui si appropria l’imprenditore non è giustificata.
Sarà Marx (v.) a trarre le logiche conseguenze dall’analisi classica e sarà proprio la teoria del valore-lavoro a costituire il nodo centrale di tutto il dibattito economico degli anni successivi, in quanto essa, com’è facilmente comprensibile, tocca anche questioni politiche, sociali ed etiche.
Nell’analisi di Marx, infatti, il salario costituisce solo una parte del valore totale del prodotto, in quanto il resto viene percepito dal capitalista, come profitto. Se, dunque, il valore della merce è determinato dal lavoro, la differenza tra il salario e il prezzo della merce, che Marx chiama plusvalore (v.), è lucrata dall’imprenditore. Il sistema è dunque basato sullo sfruttamento dei lavoratori, che avviene in virtù della proprietà privata dei mezzi di produzione. Il rapporto tra salario e plusvalore, cioè tra salario e profitto, è inversamente proporzionale: all’aumentare dell’uno diminuisce l’altro. Per tutte queste ragioni, le conclusioni che Marx trae rispetto al futuro del regime capitalistico sono fortemente critiche e nelle sue riflessioni politiche non c’è spazio per iniziative di riforma, in quanto esse sono incentrate su una prospettiva di tipo rivoluzionario, che profetizza il crollo del sistema capitalistico, a causa dello sviluppo delle sue dinamiche interne e all’azione organizzata del proletariato.
Rispetto al pensiero marxiano, le conclusioni che J. Stuart Mill (v.) trae, invece, dalle sue riflessioni economiche sono di orientamento decisamente riformista.
Ispirandosi anch’egli alla scuola classica, Mill basa la sua riflessione sulla distinzione tra produzione e distribuzione. L’ineguaglianza tra le classi sociali, secondo Mill, nasce dalla ineguale distribuzione della ricchezza. Sono necessari, perciò, dei correttivi allo status quo. Mill, tuttavia, non giunge alle conclusioni rivoluzionarie a cui era giunta l’analisi marxiana; egli, piuttosto, è favorevole all’introduzione di norme che regolino certe situazioni in modo da garantire il massimo beneficio per la maggior parte della popolazione.
Si può, comunque, affermare che l’analisi di J.S. Mill appariva decisamente in contrasto con la situazione storico-sociale del momento, che vedeva affermarsi lo sviluppo industriale attraverso lo sfruttamento sempre più marcato delle masse operaie. In tale contesto, la prospettiva di assicurare il massimo benessere per il maggior numero di persone era utopistica; molto più aderente alla realtà appariva invece l’analisi di Marx, che prendeva atto della conflittualità sociale generata dalla situazione economica in tutta la sua drammatica portata.
A dispetto del suo apparente maggior realismo, la prospettiva marxiana dell’inevitabile crollo del sistema capitalistico non si è realizzata, mentre la situazione economico-sociale, nel lungo periodo, si è evoluta in senso riformista, secondo le previsioni di J.S. Mill.

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