Consuetùdo [Consuetudine; cfr. artt. 1, 8 disp. prel. c.c.]

La consuetudine consiste nella uniforme ripetizione di un dato comportamento da parte della generalità dei consociati, con la convinzione della sua giuridica necessità (c.d. opìnio iùris et necessitàtis).
Anticamente tutto il diritto era consuetudinario, risiedendo l’origine degli istituti giuridici nei mòres maiòrum [vedi].
In diritto classico, la consuetudine si contrappose alle fonti legislative: la prima rientrava, con terminologia postclassica, nell’ambito del ius ex non scripto, le seconde nell’ambito del ius scriptum.
I Romani ponevano il fondamento della consuetudine nel tacito consenso del popolo (tacitus consensus populi), non ravvisando differenza tra il suo manifestarsi esplicitamente nella legge o implicitamente nella consuetudine.
Il tempo era il fattore essenziale della consuetudine, ma non era stabilito il minimo necessario per la sua formazione, essendo lasciato all’apprezzamento del magistrato verificare se, caso per caso, fosse passato un periodo di tempo congruo ad evincere l’obbligatorietà del comportamento.
Quanto al rapporto tra consuetudine e legge, si ammetteva senz’altro che la consuetudine non avesse efficacia minore di quella della legge, potendo supplire alle lacune dell’ordinamento giuridico: incerto era se la consuetudine poteva abrogare la legge. Se precedentemente ciò fu ammesso, Costantino, allo scopo di porre riparo alla confusione dilagante, ristabilì l’autorità della legge, sancendo il principio che questa non potesse essere abrogata dalla consuetudine

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