Il caso in esame ci vede assumere le vesti del difensore di Tizio, imputato del delitto di pornografia minorile (ex art. 600 ter c.p.), di produzione e distribuzione di materiale osceno (ex art. 528c.p.), e di diffamazione (ex art 595 c.p.).
Infatti Tizio non accettando la rottura di una relazione sentimentale con Caia, aveva divulgato in rete un filmato che li vedeva ripresi durante un rapporto sessuale, che egli stesso aveva registrato.
Il suo gesto aveva fini vendicativi e diffamatori della giovane Caia, che all’epoca dei fatti aveva anni 14, mentre lo stesso Tizio aveva già raggiunto la maggiore età.
Premesso che è punito con la reclusione, chiunque offende l’altrui reputazione, tale gesto risulta ancor più offensivo se, per raggiungere tale scopo, ovvero l’offesa altrui, venga usato un materiale osceno.
Quindi entrambe le condotte di Tizio, fin qui descritte sono punite dagli art 595 c.p. e 528 c.p..
Ancor più sanzionata è la condotta di chi anche se a fini semplicemente vendicativi, pubblichi in rete scene di un rapporto sessuale, quale è la condotta di Tizio.
Questa condotta, qualora vede interessata una minore, è disciplinata dall’art 600 ter c.p..
La condotta di Tizio rientra certamente in quella descritta e sanzionata nel terzo comma dell’art 600ter, per aver divulgato in rete il video registrato.
Il terzo comma dell’art. 600 ter c.p. prevede l’ ipotesi di reato:“ la divulgazione, la diffusione del materiale pornografico.
La disposizione contiene una clausola di riserva.
Secondo detta clausola le fattispecie previste dal terzo comma dell’art.600ter delittuose da essa hanno, carattere sussidiario e residuale rispetto a quelle delineate dai primi due commi del medesimo articolo.
Conseguenza è che il terzo comma sanzionda l’autore delle condotte diffusive quando è persona diversa da colui che ha prodotto o commercializzato il materiale pornografico.
Il produttore che si occupa anche di divulgare o diffondere il materiale pedopornografico risponde unicamente dei più gravi reati di cui all’art. 600ter primo e secondo comma c.p., rispetto al quale la successiva immissione del materiale nella sfera di disponibilità di terzi fruitori rimane assorbita come post factum non punibile.
Quindi nei confronti di Tizio l’attenzione si pone sulla necessità di un accertamento delle forme delle condotte di produzione, di distribuzione, di divulgazione, pubblicazione in rete del materiale pedopornografico in questione.
Le condotta certamente implicano tutte, una reale capacità diffusiva e di propagazione del materiale fra i destinatari della comunicazione.
Debba escludersi l’idoneità della condotta solo quando questa non raggiunge una cerchia indefinita di soggetti, ovvero un gruppo determinato o determinabile di persone.
Solo in questa ipotesi non si perfezionata la fattispecie oggettiva di cui all’art. 600 ter terzo comma c.p..
Così non è stato per Tizio.
Infatti Tizio divulgando il materiale in rete ha messo a disposizione ed ha reso accessibile a un numero indeterminato di persone il materiale pornografico ottenuto mediante l’utilizzazione della minore Caia.
È indispensabile che questa attività sia rivolta a più di una persona, per perfezionarsi la fattispecie.
Infatti così è stato nella condotta di Tizio, quando ha pubblicato il materiale pedopornografico mettendolo a disposizione ed a conoscenza del pubblico, ossia di una pluralità, più o meno vasta, di persone.
La fattispecie delittuosa del terzo comma si consuma nel momento in cui l’agente pone in essere, anche una sola volta, una delle quattro forme alternative della condotta tipica., e quindi nel momento in cui il materiale oggetto di essa è immesso nella rete, stante nella possibilità di accesso ad un numero indeterminato di persone ( Cass. Pen. n. 25232/05).
Nel senso che il delitto di distribuzione, divulgazione o pubblicizzazione di materiale pedo-pornografico non è un reato abituale e può concretizzarsi anche in un solo atto( Cass., n. 236073/06).
Quindi nel caso di specie in esame, a parere di chi scrive nei confronti di Tizio potrà ascriversi il delitto previsto all’art 600ter terzo comma, per l’aver riversato in rete il filmato pornografico relativo alla ex ragazza minorenne, sfruttando le immagini della stessa al fine di diffamarla.
Detto intento, ovvero diffamare l’ex ragazza minorenne, era l’utilità che Tizio voleva ricavare dal filmato, infatti la Cass. n. 698/06 definisce "sfruttamento" in una qualsiasi utilità, non necessariamente economica, e quindi nel caso in specie l’utilità è consistita nella diffamazione della ragazza minorenne.
Specifica la stessa cass. che l’elemento soggettivo non implica uno scopo di lucro, ma è sufficiente il fine di trarre un vantaggio dall’attività di "sfruttamento" della ragazza minorenne.
Nel caso in specie il fine "vendicativo" di Tizo integra l’elemento soggettivo del reato, ovvero la volontarietà di divulgare e pubblicare il filmato in un ambito potelziamente illimitato come è quello internet.
Inoltre a parere di chi scrive sembra potersi applicare anche il primo comma dell’art. 600 ter.
Il legislatore con detta norma ha inteso punire, con la reclusione da sei a dodici anni, chiunque sfrutti i minori degli anni diciotto al fine di produrre materiale pornografico.
Per "produzione di materiale pornografico" si intende, la trasposizione di detto materiale su supporti di varia natura.
Si tratta di una nuova ipotesi di reato, introdotta dalla legge n. 38/2006.
Per materiale pornografico deve intendersi, invece, qualsivoglia supporto (come ad esempio, floppy disk, cd rom, videocassette), anche di natura informatica, rappresentante immagini o esibizioni di carattere pornografico, alle quale partecipi una persona minore di età.
In altre parole, nel primo comma dell’art. 600 ter c.p. il legislatore vuole sanzionare il momento della realizzazione dello sfruttamento, che consiste sia nell’esibizione fine a se stessa, sia nella riproduzione su supporti di varia natura, condizione per la creazione del materiale che poi potrà essere, diffuso o detenuto.
La condotta di questa fattispecie è stata indicata in termini ampi e generici, in modo da poter ricondurre una vasta gamma di comportamenti che vengono socialmente percepiti come fortemente negativi.
Il delitto previsto dal primo comma dell’art. 600 ter c.p., è volto a sanzionare qualsiasi impiego di persone minori di età per la produzione di materiale pornografico, ancorché funzionale esclusivamente all’appagamento di personali istinti sessuali, indipendentemente da qualsivoglia finalizzazione commerciale.
Le due fattispecie delittuose, si assorbono, così che il soggetto che diffonde il prodotto pedopornografico, da lui stesso realizzato tramite l’impiego di persone minori di età, risponderà del delitto più grave, quello appunto previsto al primo comma.
In sostanza il primo comma vieta, come per la condotta di Tizio, la semplice utilizzazione di persone minori di età, nella produzione di materiale pornografico, sanziona qualsivoglia impiego sessuale di una persona minore degli anni diciotto, a prescindere dall’eventuale ritorno economico che possa derivarne al soggetto agente e dal carattere occasionale o meno di questo impiego.
Anche la produzione casalinga e artigianale di materiale pornografico, effettuata al di fuori di qualsiasi contesto organizzativo di tipo imprenditoriale e al solo scopo di soddisfare propri istinti libidinosi, quindi, può integrare il reato, qualora comporti il coinvolgimento di persone minori degli anni diciotto in attività di natura sessuale.
Il primo comma, quindi, attribuisce rilievo anche al singolo e isolato episodio di utilizzazione di uno o più minori per scopi pornografici.
La Cass., n. 237204/07, afferma che “ai fini della configurabilità del delitto di cui all’art. 600 ter, comma primo, c.p., il concetto di "utilizzazione" comporta la degradazione del minore ad oggetto di manipolazioni, non assumendo valore esimente il relativo consenso del minore.
Quindi il consenso data da Caia, minorenne all’epoca dei fatti, e legata a Tizio da un legame sentimentale, non esclude l’applicabilità della norma (Cass n 27252/07 )
Spetterà anzi al giudice di merito verificare quali margini di libera determinazione abbia potuto conoscere una giovane di neppure quattordici anni, ridotta a mero strumento di piacere, esibito e condiviso.
Sarà, dunque, compito del giudizio di merito verificare quale apporto di consapevole volontà (alla luce del livello di maturità personale che sarà accertato) la giovane abbia dato al verificarsi della volontà di Tizio di riprendere il singolo episodi sessuale in questione.
Il concetto di "produzione" richiede l’inserimento delle condotte in un contesto di organizzazione e di destinazione alla successiva fruizione anche potenziale da parte di terzi.
Il reato di pornografia minorile delineato dal primo comma dell’art. 600 ter c.p., infatti, si consuma con il confezionamento del materiale di natura pornografica, realizzato tramite l’impiego di persone minori degli anni diciotto.
Quindi la condotta di Tizio a parere di chi scrive è certamente sovrapponibile alla fattispecie descritta la primo comma, che assorbe la condotta sanzionata nel terzo comma.
Autore: Admin
Parere legale motivato di diritto penale – peculato- confisca per equivalente-
Il caso in esame vede interessato il sig. TIZIO.
Tizio è un dirigente regionale responsabile della concessione ai privati di contributi regionali per attività professionali svolte dagli stessi privati.
Tizio è responsabile con potere istruttorio e decisorio ed ha il compito di erogare i contributi, solo dopo aver verificato le spese effettivamente sostenute dai privati per attività professionali.
Dette spese sono documentate a mezzo di fatture, nella misura del 100 % degli esborsi.
Tizio viene sottoposto ad indagini preliminare per delitto di peculato.
Il P.M. procedente gli contesta di aver partecipato ad un accordo criminoso con i rappresentanti legali di due società ammesse ai contributi a fondo perduto.
Secondo le accuse del P.M. procedente, Tizio preventivamente accordatosi con i legali delle società, avrebbe erogato, ovvero concesso contributi agli stessi, rimborsando fatture gonfiate.
I legali delle società come prova dei corsi svolti, emettevano fatture con importi superiori.
Su dette fatture false Tizio si basava per l’erogazione dei finanziamenti.
Le stesse fatture contenevano indicazioni d’importo maggiore alle spese effettivamente sostenute.
Secondo l’accordo criminoso le società ricevuto il rimborso delle fatture, consegnavano a Tizio la maggiore differenza delle spese realmente sostenute.
I fatti risalivano all’agosto 2000 e novembre 2006.
A Tizio viene applicata dal G.I.P. la custodia cautelare in carcere, ed il sequestro per equivalente, finalizzato alla confisca delle somme lucrate, quale prezzo del reato.
La confisca viene eseguita su beni immobili di proprietà di Tizio.
Numerosi e complessi sono i temi connessi ai delitti contro la pubblica amministrazione.
I reati di corruzione interessano sia le imprese direttamente coinvolte sia le persone fisiche, i pubblici ufficiali, ovvero la persona incaricata di pubblico servizio.
Le norme in esame hanno trovato larga applicazione nella pratica a causa dell’interpretazione estensiva che è stata data al concetto di funzionario pubblico.
L’art. 357 c.p definisce come pubblico ufficiale chi esercita una pubblica funzione legislativa, giudiziaria o amministrativa disciplinata da norme di diritto pubblico, caratterizzata dalla formazione e dalla manifestazione della volontà della pubblica amministrazione o dal suo svolgersi per mezzo di poteri autoritativi o certificativi.
Al Titolo II del codice penale, sono descritti e sanzionati i reati contro la pubblica amministrazione.
Il peculato è sanzionato dall’art. 314 c.p. il quale stabilisce che “il pubblico ufficiale, che avendo per ragione del suo ufficio o servizio il possesso o comunque la disponibilità di denaro o di altra cosa mobile altrui, se ne appropria, è punito con la reclusione da tre a dieci anni”.
L’attuale art. 314 pone l’accento sul disvalore di particolari abusi qualificati del possesso conseguenti all’attività prestata.
La norma, tutela il buon andamento e l’imparzialità della pubblica amministrazione sotto il profilo del doveroso rispetto della destinazione dei beni di cui i soggetti pubblici abbiano il possesso per ragione dell’ufficio o del servizio.
Il bene sottratto può essere fungibile o infungibile.
La locuzione “ragione dell’ufficio o del servizio” esprime una caratterizzazione giuridica del potere che deve sussistere in capo al soggetto.
Così a chi avesse sulla cosa un potere di mero fatto, ossia fosse in grado di disporne solamente per motivi contingenti senza una situazione di potere/dovere funzionale, non potrebbe configurarsi il presupposto normativo de quo.
Quindi sussiste la figura delittuosa anche quando il soggetto pubblico, sebbene non detenga materialmente la cosa, ne possa ugualmente disporre mediante ordini o istruzioni.
Si avrà possesso e disponibilità anche qualora il possesso si poggi su gerarchie o prassi amministrative e non anche quando il dominio non è legato ad una competenza del p.u. .
Il bene protetto, dell’art. 314 c.p. è il bene-patrimonio della pubblica amministrazione, il buon andamento e l’imparzialità della stessa attività amministrativa.
In particolare, si è sostenuto che il buon andamento sarebbe leso perché il pubblico funzionario, disponendo arbitrariamente del denaro della pubblica amministrazione, svolge un’attività amministrativa non rispondente alle finalità proprie dell’ente pubblico, e che l’imparzialità sarebbe lesa perché l’agente, sfruttando la sua posizione, avvantaggia illecitamente se stesso o altro privato.
La giurisprudenza ha confermato la natura “plurioffensiva” del reato di peculato, affermando la teoria della “doppia” tutela: da un lato, la legalità, l’efficienza, la probità e l’imparzialità dell’attività della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.), e dall’altro, il patrimonio della stessa pubblica amministrazione o di terzi (Cass. pen. n. 8009/93).
La norma in esame (art. 314 c.p) ha trovato larga applicazione nella pratica a causa dei fondi relativi al finanziamento dei corsi di formazione.
E’ doverosa la distinzione tra peculato e truffa.
Il peculato ricorre quando il possesso del denaro sia stato conseguito legittimamente per ragioni di ufficio, mentre vi è truffa quando il responsabile si sia procurato il possesso mediante artifici e raggiri (Cass.pen. n°179604/88; Cass.pen. n°183538/89).
Di frequente la magistratura ha riconosciuto accanto alla responsabilità penale degli operatori del settore della formazione professionale anche quella dei funzionari che non hanno provveduto ai necessari controlli.
Le ipotesi più frequenti di frodi sono costituite principalmente dai seguenti abusi: a) presentazione di falsi preventivi recanti l’indicazione di attività formative per le quali l’ente aveva già ottenuto il finanziamento; b) presentazione di false fatturazioni per attività formative diverse da quelle effettivamente effettuate; c) informazioni non veritiere relative al numero degli allievi, alla prestazione di docenze etc.
In questa sede è opportuno premettere alcune considerazioni generali atte ad inquadrare la fattispecie in esame.
La formazione professionale può essere affidata ad un ente privato.
Detti corsi di formazione professionale, sono disciplinati e finanziati dalla PA.
Lo strumento operativo usato è la concessione amministrativa (concessione-contratto) come risulta dalla “legge in materia di formazione professionale” n° 845 del 21 dicembre 1978 e dalle varie leggi regionali emanate ai sensi dell’art. 117, comma primo, della Costituzione.
All’art.2 della L. n° 845 è esplicitamente dichiarato che “le iniziative di formazione professionale costituiscono un servizio di interesse pubblico” (comma 1).
E’ pertanto logico e doveroso, oltre che legittimo, che i soggetti gestori-beneficiari del finanziamento siano in qualche modo assoggettati a poteri di valutazione, controllo e verifica da parte dell’Amministrazione nel corso dell’intero rapporto instaurato.
Ed anzi, a ben vedere, l’attività di istruttoria e di verifica amministrativa, viene a rispondere innanzi tutto a regole di garanzia e di controllo che se correttamente esercitate, prevengono l’insorgenza di possibili irregolarità della gestione o danni all’amministrazione.
Le amministrazioni sono tenute quindi a compiere attività di vigilanza (art.12 della legge 241/90).
Questi atti di vigilanza, e di controllo, precedono gli atti decisori e la stessa erogazione dei contributi.
Detti atti sono svolti da pubblici ufficiali, a ciò preposti.
Qualora mancando un’adeguata vigilanza e controllo, venissero concessi contributi inappropriati, ed si avvantaggia illecitamente se stesso o altro privato, ricorre il delitto di peculato.
Il peculato lo ricordiamo ricorre quando il possesso del denaro sia stato conseguito per ragioni di ufficio.
Il peculato si consuma nel momento in cui ha luogo l’appropriazione del danaro da parte dell’agente, la quale, anche quando non arreca, per qualsiasi motivo, danno patrimoniale alla P.A., è comunque lesiva dell’ulteriore interesse tutelato dall’art. 314 cod. pen. che si identifica nella legalità, imparzialità e buon andamento del suo operato (Cass. pen., sez. Unite n. 38691/09)
In presenza di un indiziato di delitto, per i quali la legge stabilisce la pena dell’ergastolo o della reclusione superiore nel massimo a tre anni, l’articolo 280 c.p.p. consente l’applicazione di una misura cautelare.
La custodia cautelare in carcere può essere disposta solo per delitti, per i quali sia prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni.
La custodia cautelare in carcere è la forma più intensa di privazione della libertà personale.
L’art. 275 c.p.p. prevede che si possa applicare la custodia cautelare in carcere solamente quando ogni altra misura risulti inadeguata (principio di extrema ratio della custodia cautelare).
In Italia è consentita la carcerazione preventiva solo in tre casi (ex art 274 cpp), cioè a) pericolo di fuga e conseguente sottrazione al processo ed alla eventuale pena, b) pericolo di reiterazione del reato e c) pericolo di turbamento delle indagini.
La custodia in carcere viene disposta dal giudice che procede.
Nella fase delle indagini preliminari la custodia in carcere viene disposta dal gip, su richiesta del pm che “presenta al giudice competente gli elementi su cui la richiesta si fonda”.
Il provvedimento entro 10 giorni dalla esecuzione o dalla notificazione, può essere riesaminato (art. 309 cpp), appellato (art.310. cpp), su richiesta dell’imputato.
In entrambi i casi il giudice del riesame e dell’appello deve provvedere, entro 10 giorni dalla ricezione degli atti.
Infine l’articolo 311 prevede che contro le decisioni emesse ex artt. 309 e 310 le parti possono proporre ricorso per cassazione entro 10 giorni dalla comunicazione o dalla notificazione dell’avviso di deposito del provvedimento.
A differenza dell’articolo 280 c.p.p, a norma dell’art. 236 cp, è prevista un’ulteriore misura di sicurezza, non personale ma patrimoniale: la confisca ex art. 240 cp.
Le Sezioni Unite del 22 gennaio 1983, hanno affermato che “la confisca prevista dall’art. 240 c.p. è una misura di sicurezza patrimoniale, tendente a prevenire la commissione di nuovi reati.
Essa quindi ha carattere cautelare e non punitivo.
L’art. 240 cod. pen., utilizza al I comma la locuzione “in caso di condanna”, quindi individua nell’esistenza di una sentenza di accertamento della responsabilità penale dell’imputato il primo dei presupposti per l’applicazione della confisca facoltativa.
La confisca facoltativa (1° comma dell’art. 240 cod. pen.) si applica al prodotto ed al profitto del reato, ossia ai producta sceleris, risultati immediati del reato, ovvero di diretta ed immediata derivazione causale rispetto al reato.
Ciò premesso, è possibile definire il prodotto come il risultato materiale dell’esecuzione del fatto criminoso e risultano esclusi dall’ambito di applicabilità della misura i beni di legittima appartenenza del reo.
Per profitto si intende il risultato economico positivo tratto dal reo.
Il legislatore, in relazione al profitto , precisa che nel caso di condanna, la confisca va estesa alle cose che sono il prodotto del reato.
Le trasformazioni del prodotto del reato, non debbono né possono impedire che al colpevole venga sottratto ciò che era il disegno criminoso e che egli sperava di convertire in mezzo di maggior lucro e di illeciti guadagni .
Mentre a norma dei commi II dell’art. 240 cod. pen., il giudice deve sempre ordinare la confisca delle cose che costituiscono il prezzo del reato.
Al prezzo del reato, il legislatore ha disposto la confisca obbligatoria.
Ulteriormente dal 3° comma dell’art. 240 cod. pen., ricaviamo che “se la cosa appartiene a persona estranea al reato”, non si applica la confisca.
Ma va altresì precisato che colui che paga all’autore materiale del reato il prezzo per determinarlo a commetterlo non può mai considerarsi terzo estraneo, essendo egli sempre concorrente ex art. 110 cod. pen. ove non addirittura autore esclusivo ex art. 111 cod. pen., salvo che le cose non gli siano state carpite, estorte sottratte.
La definizione di prezzo del reato è da individuarsi in tutti i beni che sono stati dati per indurre, istigare o determinare un altro soggetto a commettere il reato.
Esso si differenzia dal provento del reato che deve ritenersi rientrante nella più ampia nozione di prodotto o profitto del reato e, pertanto, oggetto di confisca facoltativa (art. 240 cp 1° comma).
A ben vedere quindi la confisca prevista dall’art. 240 codice penale è di due tipi: facoltativa e obbligatoria.
Quella facoltativa può essere ordinata dal giudice, nel caso di condanna, per le cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e per le cose che costituiscono il prodotto o il profitto del reato (art. 240 cp 1° comma).
Quella obbligatoria è sempre ordinata dal giudice per le cose che costituiscono il prezzo del reato, anche se non è stata pronunciata condanna.
Nel tempo, però, il legislatore ha previsto numerose ipotesi di confisca penale.
Si tratta di confische obbligatorie che conseguono alla condanna dell’imputato per delitti determinati.
Oggetto di esse sono normalmente dei beni legati al delitto da un vincolo di pertinenzialità.
Per superare detto vincolo di pertinenzialità, negli ultimi anni, sono stati introdotti nell’ordinamento penale numerosi casi di confisca per equivalente o di valore.
Infatti in alcuni casi in cui, nell’impossibilità di confiscare il bene-pertinenza del reato, vengono confiscati altri beni di eguale valore o delle somme di denaro per il valore corrispondente al bene da confiscare.
Ricordiamo che la legge 29 settembre 2000, n. 300, ha introdotto delle ipotesi speciale di confisca di cui all’art. 322 ter. operante nell’ambito dei delitti contro la pubblica amministrazione.
Detta confisca è cosa diversa dalla confisca prevista nell’art. 240 cp. essendo quest’ultima sempre una misura di sicurezza patrimoniale applicabile anche se non è stata pronunciata condanna, ed è applicabile anche nella fase delle indagini preliminari disposta dal gip.
Mentre la confisca ex. art. 322 ter e applicabile solo nel caso di condanna, per uno dei delitti previsti dagli articoli da 314 a 320.
In detti casi è sempre ordinata la confisca dei beni che ne costituiscono il profitto o il prezzo, ovvero, quando essa non è possibile, vi è la confisca di beni, di cui il reo ha la disponibilità, per un valore corrispondente a tale prezzo o profitto, comunque, non inferiore a quello del denaro o delle altre utilità date o promesse al pubblico ufficiale o all’incaricato di pubblico servizio.
Infatti il giudice, con la sentenza di condanna, determina le somme di denaro o individua i beni assoggettati a confisca in quanto costituenti il profitto o il prezzo del reato ovvero in quanto di valore corrispondente al profitto o al prezzo del reato.
Quindi l’art. 322ter è sì applicabile ai reati di peculato (art 314 cod. pen.), ma solo con sentenza di condanna e giammai durante la fase delle indagini preliminari.
L’irrogazione della confisca ex art. 322 ter cod. pen. è subordinata alla pronuncia di una sentenza di condanna, e colpisce i beni di appartenenza del condannato.
La misura colpisce le cose che costituiscono il prezzo o il profitto del reato.
Occorre, segnalare i problemi interpretativi sorti in ragione della formulazione dell’art. 322 ter cod. pen..
Infatti, il disposto del I comma, equipara il profitto al prezzo.
La confisca di valore è prevista esclusivamente con riguardo a beni corrispondenti a tale prezzo.
Diversamente, nel II comma, che estende al corruttore l’operatività della norma, questo elemento non appare.
L’intervento delle Sezioni Unite della Corte di cassazione ha chiarito la questione.
Infatti le Sezioni Unite hanno stabilito che il testo dell’art. 322 ter cod.
pen. risulta chiaro nell’escludere la confiscabilità per equivalente del profitto
del reato.
E’ ribadito dalla cassazione che “ chi è responsabile del delitto di peculato può si subire la confisca per equivalente, prevista dall’articolo 322ter, comma primo, ultima parte, ma del solo prezzo e non anche del profitto del reato.
La norma limita quindi la confisca per equivalente al solo «prezzo» del reato (Cassazione penale , SS.UU., sentenza 06.10.2009 n° 38691).
Quindi in tema di peculato, il sequestro preventivo, funzionale alla confisca "per equivalente" disciplinata dall’art.322 ter, comma primo cod. pen., può essere disposto, soltanto per il prezzo e non anche per il profitto del reato (Cassazione penale , SS.UU., sentenza 06.10.2009 n° 38691).
In altre parole qualora il profitto dei reati per i quali, ai sensi dell’art. 322 ter c.p., è prevista la confisca per equivalente, sia costituito da denaro l’adozione del sequestro preventivo in vista dell’applicazione di detta misura non può essere subordinata alla verifica che il denaro sia confluito nella effettiva disponibilità dell’indagato giacché, altrimenti, si verrebbe a ristabilire la necessità di un nesso pertinenziale tra la “res” ed il reato, che la legge, con l’introduzione della confisca “per equivalente”, ha escluso.
Il primo comma dell’art. 322 ter cod. pen. consentirebbe, invero, la confisca per equivalente, per il reato di peculato, solo in relazione al “prezzo” del reato.
Ciò comporta che la stessa confisca per equivalente , può trovare applicazione anticipata nel sequestro preventivo di ciò che può essere soggetto all’esito del procedimento.
Il sequestro preventivo in esame ex art 322 ter 1° co ultima parte può riguardare beni che, oltre a non avere alcun rapporto con la pericolosità individuale del reo, neppure ha alcun collegamento diretto con il singolo reato.
Quindi questa è la sostanziale differenza della confisca preventiva ex. art 322 ter, con l’ordinaria confisca prevista dall’rt. 240 cod. pen., che può avere ad oggetto soltanto cose direttamente riferibili al reato (Cass., Sez. Unite n. 41936/05).
La ratio del’art 322 ter è quella di privare il reo di un qualunque beneficio economico derivante dall’attività criminosa, nella convinzione della capacità dissuasiva e disincentivante di tale strumento, (Cass., Sez. Unite n. 26654/08)
Nell’interpretazione dell’art. 322 ter cod. pen., la giurisprudenza è orientata nel senso che la previsione della confiscabilità (e quindi del prodromico sequestro) per equivalente non è applicabile in relazione al “profitto” del delitto di cui all’art. 314 cod. pen., dovendo ritenersi limitata, invece, al solo prezzo del reato (Cass., Sez. n. 12852/06; Cass.: Sez. n. 19586/07).
Ciò in quanto nella formulazione dell’art. 322 ter cod. pen., le nozioni di “prezzo” e di “profitto” risultano nettamente distinte come già nell’art. 240 cod. pen..
Risulterebbe chiara la volontà del legislatore nel senso di escludere, al di fuori delle ipotesi di cui al secondo comma dell’art. 322 ter cod. pen., il profitto del reato da tale ipotesi di confisca.
Le Sezioni Unite hanno rilevato che non è rinvenibile una definizione della nozione di “profitto del reato” e che in via interpretativa “il profitto a cui fa riferimento l’art. 240, comma 1, cod. pen., deve essere identificato col vantaggio economico ricavato in via immediata e diretta dal reato e si contrappone al “prodotto” e al “prezzo” del reato.
Il prodotto è il risultato dell’illecito, cioè le cose create, trasformate, adulterate o acquisite mediante il reato.
Il prezzo va individuato nel compenso dato o promesso ad una determinata persona, come corrispettivo dell’esecuzione dell’illecito.
Il profitto del reato presuppone l’accertamento della sua diretta derivazione causale dalla condotta dell’agente.
Il parametro della pertinenzialità al reato del profitto rappresenta l’effettivo criterio di ciò che può essere confiscato a tale titolo.
Occorre cioè una correlazione diretta del profitto con il reato ed una stretta affinità con l’oggetto.
Le Sez. Unite n. 10280/08 con riferimento alla confisca “diretta” del profitto, ha ricompreso anche il bene acquistato con il denaro illecitamente conseguito attraverso il reato.
Il “prezzo del reato”, invece è il compenso dato o promesso ad una determinata persona, come corrispettivo dell’esecuzione dell’illecito.
Ad esso non può essere attribuita la definizione di “utilità economica”.
A fronte della netta distinzione tra le nozioni di “prezzo” e di “profitto” del reato deve convenirsi, dunque, che nell’art. 322 ter cod. pen. appare inoperante la confisca per equivalente per i profitti derivanti dalle fattispecie di reato previste al primo comma, diverse dalla corruzione attiva, nelle quali il vantaggio ottenuto dal reato non è qualificabile come “prezzo”.
In conclusione al delitto di peculato, può disporsi la confisca per equivalente, prevista dall’art. 322 ter, comma 1, ultima parte, cod. pen., soltanto del prezzo e non anche il profitto del reato”.
A parere di chi scrive e per quanto sopra ampiamente descritto in merito al prezzo del reato, ed alla relativa confisca per equivalente, con applicazione anticipata (sequestro preventivo) TIZIO potrebbe impugnare il decreto di sequestro del G.I.P. al fine di ottenere la restituzione dei beni immobili di proprietà dello stesso sequestrati.
Mentre in merito alla misura cautelare in carcere sempre a parere di chi scrive vi è insussistenza delle esigenze cautelari, poichè e escluso la possibilità di un inquinamento delle prove, ed non esiste il rischio di reiterazione, e quindi è auspicabile che il provvedimento possa essere riesaminato (art. 309 cpp) o appellato (art.310. cpp).
Parere legale motivato di diritto penale- Reato di stalking ( atti persecutori ). Elementi costitutivi ( minaccia molestia, lesioni personali, reiterazione delle minacce e delle molestie )
Il caso in questione vede TIZIA di 12 anni vittima di strane attenzioni rivolti da CAIO.
TIZIA riferisce alla nonna ed alla madre che mentre la stessa era in attesa dell’autobus di linea, alla fermata posta nei pressi della propria abitazione, era stata avvicinata, più volte, da CAIO, che era alla guida di un furgone, e che gli aveva rivolto apprezzamenti, mandandole dei baci e invitandola a salire sul veicolo. Questi atteggiamenti erano accaduti tra il 5 e 20 Febbraio 2009.
La piccola TIZIA riferisce alla nonna ed alla madre anche che il 27 febbraio CAIO si era recato alla scuola, rivolgendole sguardi insistenti.
La piccola TIZIA fortemente turbata, ed intimorita dagli strani atteggiamenti di CAIO chiede di non recarsi più a scuola.
Con il decreto legge 23 febbraio 2009 n.11 “Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori” convertito dalla legge 23 aprile 2009 n.38, è stata, introdotta all’interno del codice penale il reato di “stalking”.
Lo stalking, richiama condotte che già di per sé costituiscono reato (minaccia molestia, lesioni personali, omicidio), ma proprio al fine di reprimere il particolare fine criminologico dello stalker, il legislatore ha voluto prevedere una norma e soprattutto delle sanzioni ad hoc.
La norma prevede che chiunque con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura, ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria tale da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita, è punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni.
Elemento cardine della condotta punita dall’articolo 612 bis c.p. è la reiterazione delle minacce e delle molestie nei confronti della vittima.
La reiterazione di tale condotta ci conduce al secondo elemento costitutivo della norma, ovvero l’insorgere di un particolare stato d’animo di ansia e di paura nei confronti della vittima.
La condotta reiterata deve creare un disagio psichico, un «timore» che può benissimo tramutarsi in uno stato patologico di ansia, tale da determinare un decadimento del vivere quotidiano.
Infatti, tra i vari eventi che la condotta tipica può causare vi è l’alterazione delle proprie abitudini di vita, la quale può essere vista come una particolare ipotesi di violenza privata.
L’ulteriore bene giuridico tutelato è l’incolumità individuale, quando le minacce o le molestie provochino il “perdurante e grave stato di ansia o di paura”, che comporta la lesione del bene salute.
La norma si espone a critiche per la mancata indicazione del numero di episodi necessario per integrare la serie minima, arrecando a tali figure un indubbia indeterminatezza.
Ulteriore problema danno le restanti due forme di evento: il “fondato timore per l’incolumità” e, soprattutto, il “perdurante e grave stato di ansia e di paura”.
Ma in ogni caso è ipotizzabile la figura del tentativo, purché possa dimostrarsi che gli atti diretti in modo non equivoco a cagionare il delitto si siano verificati in numero tale da soddisfare il requisito della reiterazione richiesto per la configurazione dello stesso.
La condotta del responsabile, per integrare il reato, non necessita dell’elemento psichico del dolo specifico essendo sufficiente il reato di dolo generico.
Dolo generico che deve manifestarsi nella volontà e consapevolezza di porre in essere condotte persecutorie, con la volontà di disturbare la normale serenità d’animo della vittima.
Non è quindi necessario agire con azioni specifiche per turbare lo stato d’animo, visto che il semplice pedinamento insistente può causare un timore per la propria sicurezza personale o di una persona vicina tale da pregiudicare in maniera rilevante il modo di vivere, e causare l’insorgere di uno stato d’ansia e di disturbo alla vita di relazione della vittima.
Le condotte più diffuse sono i pedinamenti, il presentarsi alla porta dell’abitazione, gli appostamenti sotto casa, il recarsi negli stessi luoghi frequentati dalla vittima o lo svolgere le stesse attività.
Mentre le comunicazioni indesiderate sono rivolte direttamente alla vittima, ovvero alla famiglia, agli amici o ai colleghi della vittima stessa.
Le conseguenze per chi e` vittima del fenomeno dello stalking sono gravissime.
La vittima, per timore di ricevere nuove molestie, ha paura di uscire di casa, non è in grado di instaurare nuove relazioni e, quindi, è incapace di salvaguardare la propria quotidianità.
Molte vittime, in seguito a tali esperienze, soffrono di ansia, depressione o disturbo post-traumatico da stress.
Il delitto di stalking è punito a querela della persona offesa.
Il termine per la proposizione della querela è sei mesi.
Si procede d’ufficio, se il fatto è commesso nei confronti di una persona minore o diversamente abile.
La pena è fissata nella reclusione da sei mesi a quattro anni.
La pena è aumentata fino alla metà se il fatto è commesso nei confronti di un minore.
Ulteriore rimedio per la vittima, oltre alla querela, è l’istituto della diffida al molestatore.
La persona che si ritiene offesa dai fatti che possono preludere alla fattispecie prevista dall’articolo 612 bis c.p., fino a quando non presenta formale atto di querela, può avanzare richiesta di ammonimento nei confronti del responsabile delle molestie.
La richiesta di ammonimento deve essere trasmessa al Questore competente per territorio, in base al luogo di residenza del presunto persecutore.
Il Questore deve esperire tutte le opportune indagini sia in ordine alla fondatezza dell’istanza di ammonimento, sia in ordine alla personalità del presunto responsabile, acquisendo anche i precedenti di polizia sullo stesso.
L’Autorità di polizia, accertata sia la fondatezza dei fatti, sia la necessità di intervenire, convoca il presunto molestatore e procede ad ammonire il responsabile, identificandolo con apposito processo verbale.
Nell’ipotesi in cui il soggetto, già ammonito, protragga ulteriormente i propri comportamenti di molestia, si procede d’ufficio contro di lui e la pena è aggravata di almeno un terzo.
Quando sussistono specifici elementi che fanno ritenere fondato il pericolo di reiterazione del reato di cui all’articolo 612 bis c.p., il Questore, su autorizzazione questa volta del pubblico ministero che procede, diffida formalmente il responsabile degli atti di molestia, preventivamente iscritto nel registro degli indagati, a compiere altri atti persecutori.
L’introduzione del reato di atti persecutori porta ad analizzare i rapporti con i reati che con esso possono concorrere.
L’attenzione va innanzitutto al reato di minaccia di cui all’art. 612 c.p., il quale deve considerarsi assorbito in quello di atti persecutori, venendo a configurare una delle condotte incriminate.
In relazione a quello di violenza privata di cui all’art. 610 c.p., il concorso va risolto in base al criterio di specialità, infatti l’alterazione delle abitudini di vita può considerarsi una peculiare ipotesi di violenza privata.
Discorso più complesso è la contravvenzione di cui all’art. 660 c.p..
Lo stesso articolo punisce con l’arresto chiunque reca a taluno molestia o disturbo.
Le molestie individuate nell’art 612 bis costituiscono il genus rispetto a quelle del 660 c.p., per l’integrazione del quale sono richiesti ulteriori requisiti che vengono a restringerne l’ambito applicativo.
Deve tuttavia precisarsi che, affinché sia integrato il delitto di atti persecutori, è necessaria una reiterazione delle condotte tale da produrre effetti perduranti nel tempo.
Questo porta a ritenere che le incriminazioni di minaccia, molestia e violenza privata continueranno a sussistere quale autonome ipotesi di incriminazione nel caso di singolo episodio oppure di più episodi che non diano luogo ad effetti che si protraggono nel tempo, essendo proprio il carattere della serialità, e delle annesse e perduranti condizioni psico-fisiche della vittima, gli elementi fondamentali della fattispecie in esame.
Qualora la condotta è posta in essere antecedentemente all’entrata in vigore della norma, ed è proseguita nel periodo seguente è comunque configurabile “Il reato di stalking”.
Infatti lo stesso ha natura abituale, e deve ritenersi commesso dopo l’entrata in vigore del D.L. medesimo qualora anche un solo atto di minaccia o molestia sia compiuto dopo quel momento, e sempre che vi siano tutti gli elementi costitutivi previsti, anche grazie ad atti precedenti all’ultimo, ad essi legato da un vincolo di abitualità.
Ne consegue che il nuovo reato, senza alcuna violazione del principio di irretroattività della legge penale, può applicarsi in relazione a condotte poste in essere reiteratamente in parte prima e in parte dopo la sua introduzione.
Il principio di irretroattività della legge, è codificato nell’art. 11 disp. Prel. c.c., nell’art. 25, comma 2, Cost, e nell’art. 2 c.p.
L’art.2 c.p. sancisce il principio di irretroattività della legge penale , che opera in funzione di garanzia, a favore del reo.
Si ha irretroattività della legge penale nelle ipotesi di nuova incriminazione e nelle ipotesi in cui la legge è più sfavorevole al reo.
Dinanzi una nuova incriminazione (art. 2, comma 1, cp), e rispetto a determinati fatti si è puniti in base alla nuova fattispecie penale.
Il reato di stalking – art. 612 bis c.p.,deve ritenersi commesso dopo l’entrata in vigore del D.L, qualora vi siano atti di minaccia o molestia compiuti prima dell’entrata in vigore, ed altri atti commessi dopo quel momento, legati da un vincolo di abitualità, senza alcuna violazione del principio di irretroattività della legge penale (Trib. Milano, 17-04-2009).
La Corte di Cassazione n°11945/2010 analizzando un caso analogo alla fattispecie in esame ha valutato reiterato nel tempo le illecite condotte a danno di TIZIA.
Infatti a parere di chi scrive, le condotte si sono succedute per un ampio arco di tempo, e con cadenza, tanto da causare e giustificare, lo stato patologico da esse causato nella vittima.
A parere di chi scrive dette condotte possono definirsi atti molesti, idonei ad alterare la serenità e l’equilibrio della minore.
Infatti dette condotte erano dirette a forzare la sua attenzione e a stringere con lei un rapporto, percepito evidentemente come anomalo e pericoloso dalla destinataria (Cassazione n°11945/2010).
La condotta ha realizzato uno dei tre tipici eventi, delineati dalla norma in esame e cioè il perdurante e grave stato di ansia e di paura.
Vi è stato certamente una destabilizzazione psicologica della minore, che ha manifestato le sue paure e i suoi stati d’animo alla nonna e alla madre.
Dette paure sono giunte fino a esprimere l’intento di rinunciare a recarsi a scuola.
Solo il racconto fatto alla nonna ed alla madre, e la prontezza dei genitori (che in data 31 maggio 2009 hanno chiesto l’intervento di un legale), che non si è compiuto, ovvero realizzato l’intento della piccola di non recarsi a scuola, evitando che le condotte dello stalker determinassero anche un altro evento previsto dalla norma, ovvero l’alterazione delle proprie abitudini di vita.
E’ ravvisabile, nell’elemento psicologico dello stalker, e nelle sue condotte seriali, il dolo generico.
Infatti lo stesso con i suoi comportamenti seriali si è certamente rappresentato gli effetti psicologici che nella piccola TIZIA si stavano creando.
Dalle dichiarazioni di TIZIA ricaviamo che i comportamenti criminosi sono accaduti tra il 5 e 27 febbraio 2009, quindi a parere di chi scrive si ritiene che le molestie e la violenza privata non sussistono quale autonome ipotesi di incriminazione, essendosi, le stesse protratti nel tempo, ed avendo causato un grave stato d’ansia in TIZIA.
Inoltre la condotta è stata posta in essere in parte antecedentemente all’entrata in vigore della norma (tra il 5 ed il 20 febbraio 2009), ed è proseguita dopo l’entrata in vigore della norma, precisamente il 27 febbraio 2009.
Ne consegue che il reato, è da ritenersi applicabile in relazione alle condotte poste in essere reiteratamente in parte prima e in parte dopo la sua introduzione.
La condotta reiterata ha certamente creato un disagio psichico, un timore, un ansia nella piccola TIZIA.
A parere di chi scrive i genitori (non essendo trascorsi i sei mesi previsti dalla norma) possono certamente procedere a querela dello stalker, ovvero possono denunciare il reato alle forze dell’ordine, essendo lo stesso procedibile d’ufficio, ma possono anche semplicemente avanzare richiesta di ammonimento al Questore del luogo di residenza del presunto persecutore.
Il Questore esperite le indagini, accertata la fondatezza dei fatti, e la necessità di intervenire, può convocare il presunto molestatore e procede ad ammonirlo.
Qualora il soggetto, già ammonito, continui i propri comportamenti si procederà d’ufficio contro di lui e la pena sarà aggravata di un terzo.
Parere legale motivato di diritto penale – concorso di persone nel reato, concorso eventuale, concorso anomalo, aberratio delicti concorsuale,- OMICIDIO-
TIZIO legato a CAIO da un rapporto di amicizia, gli riferisce l’intenzione di punire SEMPRONIO, a causa di un torto ricevuto dallo stesso, quindi prende una pistola carica, chiede a CAIO di accompagnarlo a casa di SEMPRONIO, incaricandolo di controllare la zona.
TIZIO precisa a CAIO l’intenzione di volerlo ferire ad una gamba.
Giunti in prossimità dell’abitazione di SEMPRONIO, incontrano MEVIO giovane fratello di CAIO.
Allo stesso riferiscono genericamente che si recavano a casa di un conoscente per affari.
MEVIO si offre di accompagnarli.
Allo stesso gli è ordinato attendere per strada e di avvisarli se qualcuno fosse salito le scale del palazzo.
Quindi TIZIO entra in casa di SEMPRONIO, CAIO attende fuori dal pianerottolo, e MEVIO attende per strada nei pressi del portone dell’abitazione di SEMPRONIO.
Tra TIZIO e SEMPRONIO segue una accesa discussione.
TIZIO esplode tre colpi di arma da fuoco, verso SEMPRONIO ferendolo agli arti inferiori, e all’addome.
La ferita dell’addome risulta essere mortale, tanto da causarne il decesso.
Per omicidio s’intende la morte di una persona causata da un’altra persona fisica con dolo, colpa o preterintenzione.
L’interesse tutelato è la vita umana.
L’elemento oggettivo della fattispecie e che un uomo provochi in qualsiasi modo la morte di un altro uomo.
Il Codice prevede diverse specie di omicidio .
Nel caso vi sia un omicidio volontario, allo stesso possono contribuire, e partecipare più persone.
Il reato può essere commesso o da una sola persona o da due o più persone: in tale ultimo caso ricorre l’ipotesi del concorso di persone nel reato.
Le condotte “tipiche” integrano la fattispecie di concorso.
Le condotte “atipiche”( quelle non conformi alla condotta tipica monosoggettiva), al contrario non integrano la fattispecie di concorso.
Il concorso può essere a) concorso necessario (reati che non possono che essere commessi da più persone); b) concorso eventuale (reati che possono essere commessi da una o più persone).
Il concorso eventuale è disciplinato dall’art. 110 C.P., che stabilisce che il reato, anche se commesso da più persone, rimane unico ed indivisibile in quanto l’azione posta in essere da ciascuno dei concorrenti perde la sua individualità e confluisce nel risultato finale, per cui viene applicata la stessa pena per tutti i concorrenti.
Il concorso può essere a) materiale (tutti i concorrenti pongono in essere la fase ideativi e quella esecutiva); b) morale, (istigatore o determinatore del reato).
Tra gli elementi del concorso ricordiamo la volontà di cooperare nel reato, ovvero che ciascuno dei concorrenti sia consapevole di cooperare con altri alla realizzazione di un reato, anche se non vi è un previo accordo.
L’elemento soggettivo del concorso consiste nella coscienza e volontà di concorrere con altri alla realizzazione del reato, e richiede innanzi tutto la coscienza e volontà di tutti gli elementi costitutivi di tutta la fattispecie monosoggettiva.
In tema di concorso di persone nel reato, anche la semplice presenza sul luogo dell’esecuzione del reato, purché non meramente casuale, è sufficiente ad integrare gli estremi della partecipazione criminosa, qualora sia servita a fornire all’autore del reato un maggiore senso di sicurezza, rivelando chiara adesione alla condotta delittuosa. (Cass. pen., sez. V 26-06-2009 n.26542).
L’attività costitutiva del concorso può essere rappresentata da qualsiasi comportamento che fornisca un contributo, alla realizzazione dell’altrui proposito criminoso (Cass. pen., sez. V 19-06-2009 n. 25894).
Le sezioni unite della cassazione affermano in merito che è sufficiente che vi sia la coscienza del contributo fornito all’altrui condotta (Cass. pen., sez. Unite 03-05-2001 n. 31).
È statisticamente riscontrabile, e logicamente comprensibile, che la realizzazione plurisoggettiva di un reato aumenta le possibilità che in sede esecutiva si verifichi per taluno dei concorrenti una divergenza fra quanto da lui voluto e quanto oggettivamente realizzato dagli altri.
Quando in sede esecutiva si verifichi un errore che cagiona un evento diverso da quello voluto si verifica il caso del reato aberrante (aberratio delicti).
Si tratta di una sorta di “aberratio delicti concorsuale”.
Detta aberratio trova applicazione solo in presenza dei seguenti presupposti: 1) la sussistenza di un nesso causale fra la condotta, ed il fatto diverso realizzato; 2) l’assenza di dolo, rispetto al fatto diverso; 3)la necessaria presenza di un nesso psichico, individuato nella “prevedibilità” del reato realizzato non voluto, che deve potersi rappresentare come uno “sviluppo logicamente prevedibile” di quello voluto.
Sorge quindi un differente titolo di responsabilità.
In altre parole, del reato diverso risponderanno anche i concorrenti che non l’hanno voluto, a condizione che il reato diverso fosse uno sviluppo logicamente prevedibile dell’azione.
Il concorso eventuale è disciplinato dall’art. 110 C.P., e da luogo ad una forma di responsabilità anomala, perché ad una imputazione di natura sostanzialmente colposa, corrisponde una responsabilità a titolo di dolo.
L’art. 116 c.p. prevede, infatti, che “qualora il reato commesso sia diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti, anche questi ne risponde, se l’evento è conseguenza della sua azione od omissione. Se il reato commesso è più grave di quello voluto, la pena è diminuita riguardo a chi volle il reato meno grave”.
In concreto nel caso il reato diverso è più grave di quello voluto la pena è diminuita riguardo a chi volle il reato meno grave (art. 116 comma 2° c.p.).
Naturalmente, secondo la Cassazione, il concorrente che non voleva il reato diverso più grave, era certo che questo, pur in astratto prevedibile, non si sarebbe verificato; se viceversa egli riteneva probabile il suo verificarsi e se ne assumeva il rischio, egli risponderà di concorso vero e proprio e non avrà diritto a nessuna riduzione della pena applicandosi l’art. 110 C.P. (concorso pieno), senza alcuna riduzione di pena.
Detto principio è affermato anche nella sentenza della Cass. pen., sez. I del 17-11-2006 n. 37940.
Infatti è ribadito che la responsabilità per concorso anomalo è ravvisabile solo quando l’evento diverso più grave di quello voluto dal compartecipe costituisca uno sviluppo logicamente prevedibile quale possibile conseguenza della condotta concordata non interrotta da fattori accidentali e imprevedibili.
Quindi l’evento diverso non deve essere voluto neanche sotto il profilo del dolo alternativo od eventuale, perché altrimenti sussisterebbe la responsabilità di cui all’art. 110 cod. pen..
Infatti se l’evento sia stato previsto come certo o come altamente probabile non può
prospettarsi l’ipotesi di cui all’art. 116 cod. pen..( Cass. pen., sez. I 27-03-2008 n. 12954 ).
A parere di chi scrive CAIO risponderà di concorso pieno applicandosi l’art. 110 C.P., e non potrà vedere diminuita la pena pur volendo il reato meno grave.
Infatti CAIO aveva certamente in astratto previsto il reato diverso più grave, ritenendolo probabile il suo verificarsi e se ne assumeva il rischio.
Egli quindi risponderà di concorso vero e proprio e non avrà diritto a nessuna riduzione della pena (art. 110 C.P.).
Certamente CAIO ha contribuito materialmente all’esecuzione, ed alla programmazione, dell’evento criminoso, cooperando nel reato, consapevolmente, e coscientemente.
Conosceva tutti gli elementi del reato, ovvero a)la volontà di TIZIO di gambizzare SEMPRONIO, b) che TIZIO possedesse un’arma da fuoco; c) che la stessa arma sarebbe stata usata da TIZIO ; d) ed ha accettato di partecipare alla realizzazione del reato, accompagnando TIZIO alla casa di SEMPRONIO; f) ed accettando di controllare la zona, agevolando l’esecuzione del reato da parte di TIZIO, dandogli un maggiore senso di sicurezza, rivelando così una chiara adesione alla condotta delittuosa..
Quindi l’azione posta in essere da CAIO confluisce nel risultato finale dell’omicidio di SEMPRONIO ed è prevedibile l’ applicazione della stessa pena inflitta a TIZIO, ovvero omicidio volontario.
Sempre a parere di chi scrive la responsabilità di MEVIO è diversa da quella del fratello CAIO.
Infatti la condotte di MEVIO è certamente“atipica”, non integrano la fattispecie di concorso, perché priva dell’elemento soggettivo.
MEVIO ha si contribuito materialmente all’esecuzione dell’evento criminoso, attendendo per strada nei pressi del portone dell’abitazione di SEMPRONIO cooperando nel reato, ma non era consapevole e non conosceva la volontà di TIZIO di gambizzare SEMPRONIO, cosi come non conosceva che TIZIO possedesse un’arma da fuoco e che la stessa sarebbe stata usata contro SEMPRONIO.
Nei confronti di MEVIO nessuna responsabilità può essere ascritta, ne di concorso eventuale (art. 110 C.P), ne di concorso anomalo (art. 116 c.p), per mancanza dell’elemento psicologico.