Parere legale motivato di diritto penale .Intervista di giornalista, quotidiano nazionale,dichiarazioni diffamatorie, pubblicate omettendo le verifiche di attendibilità, al quale non è applicabile la scriminante del diritto di cronoaca

a cura del dott. Domenico CIRASOLE

Il caso in esame vede interessato il sig. TIZIO, quale giornalista di un noto quotidiano a livello nazionale.
TIZIO pubblicava sul quotidiano l’intervista rilasciata da CAIA.
CAIA non risultava essere personaggio pubblico, o ricoprente particolare carica istituzionale, ma una privata cittadina, quindi presumibilmente poco affidabile.
CAIA definiva SEMPRONIO (all’epoca dei fatti era direttore generale dell’Azienda Municipale Igiene urbana di Milano) un “faccendiere ed un opportunista che pensa soltanto ai suoi interessi” asserendo anche che era condizionato dalla mafia nelle assunzioni e nelle promozioni dei dipendenti della stessa azienda.
TIZIO pubblicava sul quotidiano l’intervista senza effettuare alcun controllo in ordine alla veridicità delle notizie, ed ometteva di contenere le espressioni riferite da CAIA.
Tutte le affermazioni di CAIA erano riportate tra virgolette, ed il giornalista prendeva le distanze dalle stesse affermazioni assumendo la posizione di terzo osservatore.
E’ doveroso in questa sede riferire della scriminante del diritto di cronaca.

Il diritto di cronaca presuppone la fedeltà dell’informazione, cioè l’esatta rappresentazione del fatto percepito dal cronista.

La scriminante interviene quando la notizia riportata viene seriamente accertata e corrisponde alla verità dei fatti senza alterazioni o travisamenti del contenuto (criterio della verità dell’informazione).

La scriminante dell’esercizio del diritto di cronaca non è invocabile quando le affermazioni dell’intervistato sono palesemente false o, comunque, il giornalista non le abbia in alcun modo controllate , e quando l’intervistato esprima valutazioni critiche gratuitamente offensive, perché in questo caso l’illiceità delle dichiarazioni riferite è immediatamente rilevabile dal giornalista, senza neppure l‘esigenza di indagini tese a verificare la corrispondenza ai fatti.

In altri termini, se è discutibile la punibilità del giornalista che riporti asserzioni dell’intervistato risultate poi non vere, non è certamente discutibile la punibilità del giornalista che riporti valutazioni gratuitamente e palesemente offensive dell’altrui reputazione (Cass. pen., 25 gennaio 1999, n. 935).

Altra scriminante è data dal diritto di critica, che rientra tra i diritti pubblici soggettivi inerenti alla libertà di pensiero e di stampa, e si estrinseca “nella libertà di esprimere opinioni e valutazioni su fatti e situazioni nonché dissensi o consensi rispetto ad opinioni altrui” (Trib. Milano, 08.04.2003, n. 1430).

La critica consiste in un dissenso motivato, espresso in termini corretti e misurati e non deve assumere toni gravemente lesivi dell’altrui dignità morale e professionale.

E’ necessario che il fatto su cui la critica viene esercitata, sia vero, mentre ne rimane libera la valutazione.

La critica è soggetta ai parametri della rilevanza sociale dell’argomento e della correttezza dell’espressione.

La cronaca è soggetta anche alla verità dei fatti.

L’esimente putativa nel caso d’intervista è configurabile nei confronti del giornalista tutte le volte in cui la notizia è costituita da un contenuto di
pubblico interesse e sono rese da un soggetto idoneo a creare particolare affidamento sulla veridicità delle sue affermazioni.

La Suprema Corte ritiene che il giornalista risponda del reato di diffamazione commesso dal terzo intervistato qualora non ricorrano i requisiti della pertinenza, della verità dei fatti narrati e della continenza verbale, poiché chi da diffusione alla dichiarazione di altri commette diffamazione a sua volta (Cass. 17.03.1980, n.516).

Le Sezioni Unite con la sentenza n. 37140/2001 affermano che in presenza, di un giornalista che pubblichi dichiarazioni espresse da un personaggio noto con contenuto diffamatorio nei confronti di terzi, deve essere sicuro della posizione di alto rilievo dell’intervistato.

Inoltre è ancora affermato che il giornalista deve sempre mantenere una posizione neutra e imparziale perché diversamente risponde a titolo di concorso nel reato di diffamazione.

In definitiva la cassazione afferma che l’intervista deve rispettare il criterio della continenza.
Cosi facendo è facile verificare “se il giornalista abbia assunto la posizione di terzo osservatore dei fatti o non abbia piuttosto, provocato o sollecitato le dichiarazioni diffamatorie.

Il giornalista non è esente da responsabilità in merito a quanto riportato, se ha omesso le necessarie verifiche di attendibilità, ma anche quando le dichiarazioni siano diffamatorie in sé, per le espressioni adoperate o per la palese falsità delle accuse.

Il giornalista non può limitare il suo intervento a riprodurre esattamente e diligentemente quanto riferito dall’intervistato e deve accertare
che non difetti il requisito della continenza, e cioè che esse non consistano in insulti ovvero in espressioni gratuite, non necessarie, volgari, umilianti o dileggianti, ovvero siano affermazioni in sé diffamatorie.

In tal caso il giornalista si rende responsabile, a titolo di concorso, del delitto di diffamazione, aggravata con il mezzo della stampa, perché, con la sua condotta, funge da “cassa di risonanza” delle frasi lesive dell’altrui onore .

Il giornalista diviene sostanziale coautore e quindi consapevole strumento di diffamazione conferendo il suo contributo causale
alla diffusione dell’offesa all’altrui reputazione, di talchè la sua
condotta non può non essere sussumibile nell’ambito della previsione
normativa dell’art. 110 c.p., rispondendo secondo lo schema del concorso di persone nel reato, ove il fatto non sia giustificato dallo "ius narrandi"
(Cass. pen., sez. V, sent. n. 5313 del 26 aprile 1999); né ha rilievo che il giornalista non sia d’accordo con le opinioni manifestate dall’intervistato, essendo all’uopo sufficiente la volontaria diffusione della dichiarazione diffamatoria (Cass. pen., sez. V, sent. n. 480 del 19 gennaio 1984).

La diffamazione è un reato a forma libera dove la condotta materiale
si estrinseca nell’offesa all’onore e al decoro della persona.

L’art. 595 c.p., “tutela la reputazione, l’onore, inteso come opinione e valutazione dei consociati rispetto alla personalità morale e sociale di un individuo”.

Per quanto concerne l’elemento oggettivo del reato, si rileva che l’intento diffamatorio può essere raggiunto con valutazioni o giudizi offensivi dell’altrui reputazione, con espressioni insinuanti e suggestionanti.

Quanto, invece, all’elemento soggettivo, è sufficiente il dolo generico, inteso come consapevolezza che le espressioni volontariamente utilizzate sono lesive dell’altrui reputazione o possono porla a rischio.
Non si richiede il dolo specifico, nel senso che non occorre “l’animus nocendi” .

A parere dello scrivente TIZIO ben può essere accusato di concorso nel delitto di diffamazione, aggravata con il mezzo della stampa, perché, con la sua condotta, ha dato risonanza alle frasi lesive dell’onore di SEMPRONIO.

TIZIO non è esente da responsabilità per il fatto di non aver, provocato o sollecitato le dichiarazioni diffamatori; non per aver mantenuto una posizione di terzo osservatore dei fatti; ne di meno per non esser d’accordo con le opinioni manifestate dall’intervistato.

TIZIO risponde del reato di diffamazione commesso da CAIA, dallo stesso intervistata, perché ha omesso le necessarie verifiche di attendibilità; ma anche perché le espressioni volontariamente utilizzate sono lesive della reputazione di SEMPRONIO, e quindi la scriminante dell’esercizio del diritto di cronaca non è invocabile.

Parere legale motivato di diritto civile – separazione personale dei coniugi – crisi matrimonio, handicap (sindrome down). Affrontate le questioni delll’affido condiviso, congiunto, esclusivo e dell’ascolto del minore infra dodicenne.

a cura del dott. Domenico Cirasole direttore del sito http://www.gadit.it/

La questione giuridica in esame vede interessatii signori TIZIO e CAIA.
Detti signori sono sposati da otto anni, e a completamento del loro amore hanno avuto un figlio, sette anni fa.
Detto figlio di nome ANDREA è affetto da lieve sindrome di down.
Purtroppo oggi dopo circa 8 anni di matrimonio, interviene una crisi coniugale, che spinge CAIA a chiedere la separazione da TIZIO. Inoltre CAIA chiede l’affidamento esclusivo del figlio ANDREA, motivando la sua scelta (a suo dire), con il fatto che il rapporto tra padre e figlio non è armonioso e a conferma di ciò chiede che ANDREA venga ascoltato dal Giudice.
Orbene la famiglia è una formazione sociale fondata sul matrimonio, con i caratteri della esclusività, della stabilità e della responsabilità.

Tra i coniugi vi sono una serie di diritti e doveri reciproci quali la coabitazione, la fedeltà, l’assistenza, la collaborazione, la contribuzione ai bisogni della famiglia.

La presenza di figli in una famiglia, impone ulteriori obblighi, quali appunto l’educare, l’istruire, il mantenere, e curare i figli.
Si conferma quindi l’importanza della crescita del minore nell’ambito della famiglia, con l’obiettivo di garantire l’equilibrio dei bambini e dei ragazzi, creando o valorizzando, i rapporti della famiglia e del sociale.

La Consulta già nel 1980, aveva già avuto modo di affermare che:<>.

Detti obblighi da parte dei genitori (assistenza morale e materiale nell’ambito della propria famiglia) sono in realtà un diritto di entrambi i genitori, ma anche un diritto dei figli (il diritto del minore alla bi genitorialità).

La bigenitorialità, altro non è che l’effettiva presenza di entrambi i genitori accanto al figlio, ossia « mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, per ricevere dagli stessi cura, educazione e istruzione» art. 155, comma 1, c.c. novellato nell’art. 1, comma 1, legge n. 54/2006.

Concretamente significa che la figura del minore va tutelata e protetta nella misura più ampia possibile.
Detto principio è già formalizzato a livello costituzionale (art. 30 Cost) prima ancora che ordinario (art. 155 c.c.).

In particolare quindi i figli minori sono soggetti di diritto meritevoli di protezione e protagonisti delle proprie scelte, soggetti dotati di un potere di autodeterminazione, che hanno diritto all’ascolto, e che l’adulto valuti in modo adeguato le dichiarazioni che vengono rese dallo stesso.

Naturalmente parlare di centralità del minore significa considerarlo nel suo essere in formazione, e dunque richiede con riferimento alla dimensione dell’ascolto, l’assunzione di tecniche di tutela particolari (circostanze ambientali, lessico, tono, e quant’altro faciliti l’esposizione del minore).

L’ascolto del minore capace di discernimento (art. 12 Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia del 2 novembre 1989; art. 3 Convenzione europea di Strasburgo sull’esercizio dei diritti del fanciullo del 5 gennaio 1996; art. 155 sexies c.c.) è la nuova chiave interpretativa e di tutela, per garantire la crescita del minore, un normale sviluppo della sua personalità, delle sue reali esigenze in modo indipendente e responsabile, tenendo conto delle sue capacità, delle sue inclinazioni naturali e delle sue aspirazioni (art.147 c.c), e ciò si realizza non solo e non tanto per mero effetto del benessere economico, ma attraverso “assistenza personale ed aiuto psico-affettivo” (Cass. civ., 1° febbraio 2005, n. 1996; Cass. civ., 10 agosto 2006, n. 18113) che solo la famiglia e la presenza di entrambi i genitori può garantire.

La Giurisprudenza pronunciandosi nel tempo ha affermato che «Il minore ha diritto alla prestazione di cure idonee a garantirgli uno sviluppo ottimale (vale a dire armonioso ed equilibrato sotto ogni punto di vista) a vivere in un ambiente familiare moralmente sano e materialmente confortevole, che lo sottragga a influenze deleterie, che possano incidere negativamente sul suo processo di maturazione» (Trib. min. Roma, 6 febbraio 1984).

Quindi possiamo affermare che libertà di espressione, salute, educazione, formazione, socializzazione, gioco, ascolto, dignità, riservatezza, sicurezza, sono tutti diritti del minore.
Ma alcune patologie (handicap) aumentando da un lato la sensibilità dell’adulto, e dall’altro la fragilità del minore, impongono all’adulto, un incremento delle attenzioni, per garantire allo stesso i diritti di cui vanta; quando questo accade, vi è perfetta simbiosi tra adulto e minore, tanto da creare una perfetta armonia tra il genitore e il figlio.
Cosa non semplice e non frequente.
Tra i vari handicap dei minori, la sindrome di Down, crea un particolarissimo rapporto tra genitore e figlio.

La sindrome di Down è nota per la presenza di un ritardo mentale, e il futuro di queste persone non è prevedibile e la sua crescita dipenderà da una serie di aspetti costituzionali, famigliari e ambientali insieme.
Queste differenze dipendono soprattutto dalle capacità individuali delle persone con sindrome Down, dagli atteggiamenti educativi della loro famiglia e dalla disponibilità o meno di strutture socio-sanitarie adeguate.
In Italia un bambino su 1000 nasce con la sindrome Down. Il grado di ritardo mentale non è assolutamente prevedibile e varia molto da una persona all’altra.
Quello che è certo è che il bambino sarà in grado di capire, di imparare e di ricordare quello che ha imparato e il grado di autonomia e responsabilità datogli.
Spesso non viene permesso loro di fare delle scelte, né di sfruttare le proprie capacità relazionali, né di inserirsi in un contesto sociale adeguato.
Comunque si può dire che, data una situazione familiare, educativa e sociale adeguata, una persona con sindrome Down può imparare tutto quello che è necessario per avere una vita relativamente autonoma e soddisfacente, esprimendosi con un linguaggio verbale adeguato.
I genitori per aiutare il loro bambino a parlare, devono stimolarlo, conversando con lui, ascoltarlo, fare attenzione a quello che il bambino cerca di dire, rispondergli nel modo giusto, essere pazienti, concedendo al bambino lo spazio e il tempo per agire o per rispondere.
In altre parole bisogna farsi guidare dal bambino, rispettare il suo interesse del momento, mantenendo il passo del bambino, valorizzando il bambino, imparando a pensare come il bambino, considerando il suo punto di vista secondo il suo sviluppo cognitivo e, la sua diversa prospettiva sulle azioni, sul tempo e sullo spazio.

L’accettazione delle persone con ritardo mentale da parte della società è fortemente collegata al loro comportamento sociale, in altre parole un bambino con sindrome Down sarà accettato se si comportano in modo accettabile e adeguato socialmente.

Una persona con sindrome Down potrà quindi avere una vita sociale soddisfacente se i suoi genitori cureranno fin dai primi anni di vita lo sviluppo delle capacità autonome e le regole di un comportamento sociale maturo.
Queste competenze sono indispensabili per un reale inserimento nella scuola e nel mondo del lavoro, ma soprattutto per favorire una sicurezza e una stima di sé e delle proprie capacità senza le quali una vita insieme agli altri può essere difficile e improbabile.

Ecco, quindi, che i genitori devono essere gentili, devono curare al massimo gli aspetti legati all’insegnamento dell’autonomia e delle buone maniere, devono fare gli opportuni complimenti se ha imparato bene qualcosa o se si è comportato bene.

In altre parole il genitore deve creare un rapporto unico, ed armonioso con il figlio affetto da sindrome down, e come già detto cosa non semplice e facile, quando questo non accade, per i casi molto gravi il legislatore ha creato una figura particolare, ovvero l’amministratore di sostegno provvisorio o definitivo.

Il ricorso per la richiesta di detta figura è frutto di una azione coordinata dei servizi sociali e sanitari, del medico psichiatra, e dell’assistente sociale.
Anche in questo caso il Giudice può non ritenere, sufficiente la documentazione fornita, richiedendo solo ove vi siano delle ombre ulteriori informazioni al medico curante, e per le informazioni patrimoniali, interpellando direttamente gli istituti di credito interessati.

L’audizione dei parenti, del PM, non è sempre necessaria, nel senso che se non compaiono dopo la convocazione il giudice provvede ugualmente, ma l’audizione dell’interessato è un passaggio non solo dovuto ex art. 407 c.c. (il giudice sente l’interessato dovunque si trovi) ma anche essenziale per l’acquisizione delle informazioni utili a elaborare il decreto di nomina.

Va sottolineato che l’audizione è diretta a conoscere il beneficiario, a raccogliere i suoi desideri e le sue aspirazioni, a verificare anche le sue relazioni con l’ambiente, con i famigliari, con i parenti, con i vicini, conoscenti, ad accertare il suo grado di abilità, la sua tensione verso l’autonomia, la sua suggestionabilità, i rischi a cui è esposto se lasciato solo, i rapporti di forza presenti nelle dinamiche famigliari, le sue preferenze elettive e affettive, la sua fragilità, le sue abitudini di vita, “i riti” a cui non può rinunciare.
In altre parole l’audizione è sempre diretta a conoscerlo, a raccogliere elementi utili per la scelta dell’amministratore di sostegno da farsi avendo unicamente riguardo all’interesse del beneficiario.

Orbene osservando questo istituto possiamo comprendere quanto importante sia l’audizione allorquando il minore si affetto da handicap, ovvero da sindrome di Down, e in un procedimento di separazione dei coniugi, che il più delle volte avviene dopo un periodo alquanto lungo di crisi famigliare, dove il minore è stato spettatore e vittima di scontri, conflitti, ma soprattutto di disattenzioni da parte dei/del genitori, vedendo modificare, crollare, scomparire, quel particolarissimo rapporto di armonia, che come abbiamo già appreso risulta imprescindibile per la (futura) vita sociale dello stesso.

La Suprema Corte (22238/09), ha cambiato le regole "del gioco" nei processi di separazione e divorzio ove vengano in rilievo provvedimenti destinati ad incidere sulle situazioni giuridiche soggettive dei figli minori, non ultimo, l’affidamento.

Le Sezioni Unite, con la sentenza 22238/09 ha introdotto uno specifico onere motivazionale che non provvede all’audizione del minore.

Il giudicante dovrà espressamente riferire per quale motivo non ha inteso sentire il minore, motivo che può attenere o alla capacità di discernimento del minore stesso o all’eventualità di pregiudizi ai suoi interessi superiori.

Con la sentenza n. 22238/09 viene inoltre asserito l’obbligatorietà dell’audizione dei figli minori nei procedimenti di separazione attinente l’affidamento.

La Cassazione sostiene che non si può ignorare l’opinione del minorenne nel caso in cui si debba decidere a quale genitore dovrà essere affidato, in quanto il minore è parte sostanziale del procedimento e portatore di interessi contrapposti o diversi da quelli dei genitori.

Si asserisce, quindi, che il mancato ascolto dei minori costituisce una violazione dei due principi cardini dell’ordinamento italiano, precisamente il principio del contradditorio e quello del giusto processo.

L’audizione del minore è prevista e riconosciuta dall’art. 12 della Convenzione ONU sui diritti del fanciullo, fatta a New York nel 1989, nella quale è previsto che «Gli Stati parti garantiscono al fanciullo capace di discernimento il diritto di esprimere liberamente la sua opinione su ogni questione che lo interessa, le opinioni del fanciullo essendo debitamente prese in considerazione tenendo conto della sua età e del suo grado di maturità.

La Suprema corte rileva ulteriormente che l’audizione del minore è divenuta obbligatoria con l’art. 6 della Convenzione di Strasburgo sull’esercizio dei diritti del fanciullo del 1996, ratificata con la legge n. 77/2003, in quanto si dispone che «nei procedimenti che riguardano un minore, l’autorità giudiziaria, prima di giungere a qualunque decisione, deve: a) esaminare le informazioni che dispone, al fine di prendere una decisione nell’interesse superiore del minore e, se necessario, ottenere informazioni supplementari, in particolare da parte dei detentori delle responsabilità genitoriali; b) quando il diritto interno ritiene che il minore abbia una capacità di discernimento sufficiente (assicurandosi che il minore abbia ricevuto tutte le informazioni pertinenti) nei casi che lo richiedono, consultare il minore personalmente, se necessario in privato, direttamente o tramite altre persone od organi, con una forma adeguata alla sua maturità, a meno che ciò non sia manifestamente contrario agli interessi superiori del minore, permettendo al minore di esprimere la propria opinione; c) tenere in debito conto l’opinione da lui espressa».

Pertanto la Suprema corte deducendo la violazione della Convenzione di Strasburgo, la Convenzione ONU, l’art. 155 sexies del codice civile (che dispone l’audizione del figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici o anche di età inferiore ove capace di discernimento), ritiene necessaria ed obbligatoria l’audizione del minore nel procedimento di separazione.

Quindi, in presenza di una richiesta di audizione avanzata da uno dei genitori o dal Pubblico Ministero, il Giudice della separazione o del divorzio (anche nella fase presidenziale) dovrà procedere all’ascolto dei minori, a meno che, come già detto, non fornisca idonea motivazione in ordine al fatto che a)tale ascolto si ponga in contrasto con gli interessi fondamentali dei figli; b) manchi il necessario discernimento dei minori infradodicenni, che può giustificarne l’omesso ascolto.

L’audizione dei figli minori ha quindi un’indubbia valenza probatoria, quale fonte di preziose informazioni sulla vita familiare, al fine di realizzare l’affidamento più conveniente nel preminente interesse del minore.

La materia dell’affidamento è molto è cambiato rispetto al secolo scorso che stabiliva il principio dell’indissolubilità del matrimonio,e ammetteva la separazione solo in caso di colpa di uno dei coniugi, e disciplinava i provvedimenti riguardanti i figli, stabilendo che i medesimi fossero affidati al coniuge
"senza colpa".
Certamente 898/70, che ha introdotto il divorzio nel nostro ordinamento, per la prima volta ha fissato all’art. 6 un criterio guida per il giudice in tema di affidamento dei figli cioè quello della preminenza del loro interesse morale e materiale.
Detto principio viene introdotto nella successiva legge di riforma del diritto di famiglia (legge 21 maggio 1975 n.151), in materia di separazione.

La separazione non viene più pronunciata solo per colpa di uno dei coniugi, ma viene intesa come rimedio ad una situazione di fallimento della vita coniugale, e il giudice nello scegliere il genitore al quale affidare i figli deve tener presente solo ed esclusivamente la posizione dei figli, il loro interesse, le condizioni migliori per lo sviluppo della loro personalità.

In particolare, oggi il criterio unico che disciplina l’affidamento in caso di separazione è quello del superiore interesse della prole, inteso quale riorganizzazione di un modello di comunità familiare in cui il minore possa venire educato e realizzare il proprio diritto alla formazione ed alla crescita della sua personalità.

La separazione, tanto consensuale quanto giudiziale, determina lo scioglimento dell’eventuale regime di comunione legale dei beni e non solo, creando una rottura emotivo, economica, genitoriale, comunità, psichico.

In caso di separazione consensuale, i coniugi regolamentano i loro rapporti con un accordo che verrà poi omologato dall’autorità giudiziaria.

Il contenuto dell’accordo potrà avere ad oggetto la divisione di beni comuni, l’assegnazione ad uno dei coniugi di beni di proprietà comune o esclusiva dell’altro coniuge, il
riconoscimento di un assegno di mantenimento a favore del coniuge debole.

In ogni caso sono fatti salvi tutti i provvedimenti indispensabili all’interesse della prole, quali ad esempio l’assegnazione della casa coniugale al coniuge affidatario, l’obbligo di corrispondere un assegno di mantenimento per i figli o per il coniuge economicamente più debole.

Sempre nell’interesse della prole, vi è stato un ripetuto cambiamento di rotta nell’affidamento che ha visto concludere il percorso grazie alla Legge 8 febbraio 2006, n. 54.

In passato frequenti erano la svalutazione dell’altro genitore, manipolazione dei fatti o anche alla costruzione di false denunce di abuso, di violenza e inidoneità genitoriale con il solo scopo di allontanare un genitore escludendolo dalla funzione di genitore condizionando il minore a schierarsi a sua volta contro il genitore allontanato.
I danni che queste forme di comportamento arreca ai figli sono enormi creando nel minore un senso di perdita e di abbandono che potrà influenzarlo per tutta la vita. Questa sintomatologia si chiama Sindrome da alienazione genitoriale o PAS, provocando una regressione, una limitazione, un blocco delle capacità di pensiero. L’esperienza dimostra che, qualora venga meno l’influenzamento dei figli da parte del genitore alienante, i sintomi della PAS svaniscono. Consentire ai figli di maturare esperienze dirette e complete di vita con ciascun genitore separatamente dal genitore alienante è il modo migliore per prevenire la PAS, mitigando l’influenza delle azioni denigratorie.
Inoltre, la convivenza equilibrata con ciascun genitore senza la presenza dell’altro, in modo alternato, favorisce la
creazione di una relazione diretta e autentica.
Prima della legge 54/06, i figli in caso di separazione
legale dovevano essere affidati al padre e solo in casi gravi alla madre, con la L.151/75 i diritti del padre e della madre vengono parificati prevedendo l’affidamento monogenitoriale esclusivo ai sensi del disposto dell’art. 155 c.c. (il modello di affidamento più applicato sino ad oggi in caso di separazione).
Tale modello prevedeva l’affidamento dei minori ad un genitore mentre l’altro conservava un generico diritto di visita, di vigilanza sulla istruzione ed educazione. In ogni caso le decisioni di maggiore interesse dovevano essere adottate di comune accordo tra i genitori.
Mentre con l’affido congiunto come modalità alternativa di custodia dei figli minori previsto dall’art. 6 Legge 878/70 veniva superata il contrasto tra genitori, garantendo al minore, una continuità affettiva e di intervento di
entrambi i genitori.
Ne discende che tale soluzione dovesse essere esclusa laddove uno solo dei coniugi reclamasse l’affidamento per sé, sul presupposto che l’altro genitore non fosse in grado di assumersi il compito educativo con pienezza di poteri, e nei caso di conflittualità della coppia genitoriale.
Oggi con legge 8 febbraio 2006, n. 54, l’art. 155 c.c., così come riformato, prevede che <>.
Ecco quindi sorgere il principio della bi genitorialità.
Qualora il giudice ritenga che i genitori non siano in grado di comporre la loro conflittualità nell’interesse dei figli minori, permane l’alternativa dell’affidamento ad uno soltanto di essi. Un aspetto degno di nota della riforma in oggetto è l’introduzione all’art. 155 sexies c.c. (obbligo di ascolto del minore e l’attivazione dei percorsi di mediazione dei genitori).

L’affido condiviso è dunque oggi l’unica forma di affidamento dei figli includendo l’eccezione dell’affido a un solo genitore quando il comportamento dell’altro genitore nei confronti del figlio sia contrario all’interesse del minore stesso. Solo in tal caso potrà essere limitata la frequentazione ma non la potestà di quel genitore.
A differenza del passato non sono considerati validi motivi per l’affidamento a un solo genitore il conflitto tra i genitori.
L’affido condiviso consente l’esercizio della potestà anche in modo disgiunto (in caso di conflitto) cosicché ciascun genitore è responsabile in toto quando i figli sono con lui mantenendo inalterata la genitorialità di entrambi.
La permanenza del minore presso ciascun genitore viene ripartita in un progetto educativo genitoriale da presentare in allegato all’istanza di separazione, con la ripartizione dei compiti e dei capitoli di spesa assegnati a ciascun genitore.

L’affidamento condiviso costringe i genitori a distinguere la relazione di coppia dalla loro relazione genitoriale.

Le azioni che un genitore dovesse compiere, volte a ostacolare la frequentazione dell’altro genitore o a gettare
discredito sull’altra figura genitoriale, verranno considerate un valido motivo di esclusione.

Resta però la differenza fra amministrazione ordinaria e amministrazione straordinaria.
L’art. 155 c.c., aggiunge che limitatamente alle decisioni su questioni di ordinaria amministrazione, il giudice può stabilire che i genitori esercitino la potestà separatamente.

Concludendo a parere dello scrivente CAIA può si proporre l’affidamento esclusivo, ma questo difficilmente potrà essere accolto, qualora non fossero presenti comportamenti di TIZIO contrari all’interesse di ANDREA.

Anzi ben può il giudice ritenere la sua richiesta volta ad ostacolare la frequentazione dell’altro genitore, escludendogli l’affido.

CAIA può, invece proporre un esercizio separato della potestà.

In merito all’ascolto di ANDREA, il giudice per quanto obbligato all’ascolto, può ritenerlo incapace di discernimento sia a causa della patologia di cui è affetto che per la sua tenera età (non avendo compiuto gli anni dodici).

Parere legale motivato di diritto civile. Mediazione immobiliare, società franchising non iscritta, esercizio abusivo della professione. Obbligo alla restituzione della provvigione venditore/acquirente

a cura del dott. Domenico Cirasole direttore del sito http://www.gadit.it/

La questione giuridica in rilievo vede interessati TIZIO e CAIO in merito alla mediazione di vendita di immobile.
Infatti TIZIO proprietario di un appartamento si rivolge dall’agenzia immobiliare SENSALE srl per conferirgli mandato di vendita dell’appartamento in questione.
L’amministratore della Agenzia SENSALE srl, il sig. CAIO per l’appunto fa sottoscrivere a TIZIO, un modulo prestampato contenente mandato, ovvero incarico, di proporre in vendita l’appartamento in questione.
TIZIO aggiunge di proprio pugno, sul prestampato proposto da CAIO che in nessun caso sarà tenuto al pagamento di provvigione o compenso, che saranno a carico del solo compratore.
CAIO, per rigor di completezza, alla data della sottoscrizione del mandato, era in attesa di ottenere l’iscrizione prevista presso la Camera di Commercio, e non aveva adempiuto al deposito dei moduli prestampati in uso, presso la Commissione della stessa Camera di Commercio.
CAIO quale amministratore unico della SENSALE srl a seguito di ricerche propone a TIZIO un compratore, SEMPRONIO per l’appunto.
SEMPRONIO, ritenendo che l’immobile soddisfacesse le proprie necessità, sottoscrive una proposta d’acquisto, anch’essa redatta su predisposto modulo offerto da CAIO, nel quale è previsto che lo stesso assumeva valore di contratto preliminare di compravendita immobiliare, qual’ora l’offerta fosse stata accolta da TIZIO.
TIZIO ricevuta la notizia dell’offerta, che accetta senza condizione, si vede costretto da CAIO a sottoscrivere una promessa di pagamento, ovvero impegno di corrispondere, un compenso, la cui somma non viene riportata nello stesso atto, nonostante inizialmente fosse stato appositamente sottoscritto, che nulla era dovuto per l’affare da TIZIO.
TIZIO sottoscrive, suo malgrado la promessa di pagamento, e solo in seguito, controfirma per accettazione, la proposta ricevuta da SEMPRONIO.
TIZIO dopo aver stipulato il contratto notarile definitivo, ed ottenuto da SEMPRONIO il corrispettivo pattuito, riceve dall’agenzia immobiliare SENSALE srl, una richiesta di pagamento a titolo di provvigione per la mediazione, ritenuta esorbitante, e comunque mai pattuita, in sede di contrattazione iniziale.
Infatti TIZIO accetta e sottoscrive in buona fede di corrispondere un compenso a CAIO, solo quando ha notizia dell’offerta, senza che quest’ ultimo specificasse l’ammontare, ovvero la percentuale.
La compravendita immobiliare nella storia ha visto da sempre l’interessamento di soggetti terzi, nella stipula dell’atto finale.
Questi terzi nel Codice Civile, emanato nel 1942, venivano definiti mediatori ovvero sensali.
Detta figura è oggi definita del codice civile, ma anche da norme successive speciali nonché di giurisprudenza, osservando che nell’intermediazione nel mercato immobiliare vi è la presenza crescente di società di intermediazione diffuse su tutto il territorio articolate con concessionari in franchising.
Questa circostanza non può restare ininfluente nel momento della formazione del contratto, ora organicamente ricompresa nel Codice del consumo (D.lgs. 6 settembre 2005 n. 206).
Un primo esempio di adattamento dell’art.1754 è dato dalla stesso riconoscimento della natura contrattuale dell’attività di mediazione, posto che in precedenza, per oltre cinquant’anni, la mediazione si riteneva avesse solamente natura negoziale.
Se infatti la mediazione non poteva qualificarsi come contratto alla stessa non potevano essere applicate le norme, anche a carattere generale, riferibili ai contratti.
L’iniziale riconoscimento della natura meramente negoziale dell’istituto in esame era dovuto al fatto che la disciplina sulla Mediazione, non contemplava una definizione di contratto di mediazione, ma prevedeva unicamente la descrizione della figura del mediatore.
Infatti la definizione di mediatore è prevista all’art. 1754: “E’ mediatore colui che mette in relazione due o più parti per la conclusione di un affare, senza essere legato ad alcuna di esse da rapporti di collaborazione, di dipendenza o di rappresentanza”.
In seguito all’entrata in vigore della legge 3 febbraio 1989, n. 39 che ha istituito la figura del mediatore professionale prevedendo l’incompatibilità tra l’esercizio dell’attività di mediazione ed ogni altra attività, si è incominciato a sostenere che, nonostante non se ne rinvenisse una definizione precisa all’interno del Codice Civile, la mediazione fosse un contratto in tutto e per tutto e ciò in ragione delle modalità concrete con le quali veniva esercitata la relativa attività (cfr. Cass. civ. 7 agosto 1990, n. 7985; Cass. civ., sez. II, 26 settembre 2005, n. 18748; Cass. civ., sez. III, 14 aprile 2005, n. 7759).
La mediazione differisce da altre fattispecie contrattuali, che potrebbero sembrare ad essa assimilabili.
In particolare, la mediazione differisce dal contratto di agenzia, in quanto l’agente è legato stabilmente ad una delle parti, nel cui esclusivo interesse agisce per la promozione e la conclusione di determinati contratti. Ne deriva che la provvigione gli sarà dovuta solamente da tale parte.
Quanto al mandato tale contratto, diversamente dalla mediazione, prevede che il mandatario agisca nell’interesse del mandante e per suo conto per la conclusione di un contratto. Egli percepirà pertanto il compenso per l’attività svolta anche a prescindere dal risultato raggiunto, e solamente dal mandante.
Notevoli divergenze disciplinari si riscontrano poi anche con riferimento al procacciamento oneroso d’affari. Il procacciatore è, infatti, un collaboratore che pone in essere la propria attività promozionale nell’ambito del rapporto intercorrente con una delle parti, dalla quale sola può pretendere la provvigione.
La mediazione tipica, è disciplinata come detto dagli art. 1754 ss. c.c., ed è soltanto quella svolta dal mediatore in modo autonomo, senza essere legato alle parti da alcun vincolo di mandato o di altro tipo, e non costituisce un negozio giuridico, ma un’attività materiale dalla quale la legge fa scaturire il diritto alla provvigione.
Tuttavia, in virtù del "contatto sociale" che si crea tra il mediatore professionale e le parti, il mediatore, per andare esente da responsabilità, deve dimostrare di aver fatto tutto il possibile nell’adempimento degli obblighi di correttezza ed informazione a suo carico, ai sensi dell’art. 1176, comma 2, c.c., e di non aver agito in posizione di mandatario.
Dall’art. 1754 c.c., ricaviamo inoltre alcuni requisiti del mediatore, ovvero l’imparzialità e l’indipendenza, precisando che il mediatore non deve avere con le parti “rapporti di collaborazione, di dipendenza o di rappresentanza”, a pena di nullità del contratto stesso.
L’attività di mediazione, infatti, ravvisa nel mediatore colui che, mettendo in contatto due o più soggetti attua un’interposizione neutrale ed imparziale tra le stesse, favorendone l’accordo al fine di pervenire alla conclusione di un affare (Cass. civ., sez. II, 27 giugno 2002, n. 9380).
Orbene il mediatore per assolvere a tale compito dovrà essere privo di qualsivoglia interesse nella conclusione – o non conclusione – dell’affare, diversamente da quanto si verificherebbe se egli fosse, per esempio, il rappresentante di una delle parti intermediate.
Nella mediazione tipica la responsabilità del mediatore, con specifico riferimento agli obblighi di correttezza e di informazione, si configura come responsabilità da contatto sociale.
La stessa è incompatibile con un sottostante rapporto di mandato tra il cosiddetto mediatore e una delle parti che ha interesse alla conclusione dell’affare stesso, nel qual caso il cosiddetto mediatore-mandatario non ha più diritto alla provvigione da ciascuna delle parti ma solo dal mandante.
Nel caso in cui il mediatore agisca, invece, come mandatario, assume su di sé i relativi obblighi e, qualora si comporti illecitamente recando danni a terzi, è tenuto a favore di questi ultimi al risarcimento dei danni ex art. 2043 del c.c. (non escludendosi in proposito un’eventuale corresponsabilità del mandante).
A tale impostazione aderisce la Suprema Corte che distingue tra una mediazione tipica, ed una mediazione atipica contrattuale fondata sul conferimento di uno specifico incarico.
Il conferimento ad un mediatore professionale dell’incarico di reperire un acquirente od un venditore di un immobile dà vita ad un contratto di mandato e non di mediazione.
Da ciò consegue che nell’ipotesi suddetta che il mandatario: (a) ha l’obbligo, e non la facoltà, di attivarsi per la conclusione dell’affare; (b) può pretendere la provvigione dalla sola parte che gli ha conferito l’incarico; (c) è tenuto, quando il mandante sia un consumatore, al rispetto della normativa sui contratti di consumo di cui al d.lg. n. 206 del 2005; (d) nel caso di inadempimento dei propri obblighi, risponde a titolo contrattuale nei confronti della parte dalla quale ha ricevuto l’incarico, ed a titolo aquiliano nei confronti dell’altra parte.
Il mediatore tanto nell’ipotesi tipica in cui abbia agito in modo autonomo, quanto nell’ipotesi in cui si sia attivato su incarico di una delle parti (c.d. mediazione atipica, la quale costituisce in realtà un mandato), ha l’obbligo di comportarsi con correttezza e buona fede, e di riferire alle parti le circostanze dell’affare a sua conoscenza, ovvero che avrebbe dovuto conoscere con l’uso della diligenza da lui esigibile.
La Cassazione con la sentenza n. 16382 del 14 luglio 2009 precisa in tema di responsabilità del mediatore (nella fattispecie immobiliare) che la responsabilità, in assenza di mandato, è di matrice extracontrattuale e va qualificata da“contatto sociale” poiché “tale situazione è riscontrabile nei comportamenti dell’operatore di una professione sottoposta a specifici requisiti formali abilitativi” (iscrizione albo mediatori ex l. 39/89) “ed a favore di quanti, utenti-consumatori, fanno particolare affidamento nella stessa per le sue caratteristiche”, mentre nel caso vi sia un mandato, il mediatore risponderà in base alle norme ex art. 1703 e ss.cc verso la parte che lo ha incaricato di acquistare/vendere l’immobile e risponderà per responsabilità da “contatto sociale” nei confronti del terzo acquirente/venditore, verso il quale non è legato da rapporto di mandato, eventualmente in solido ex art. 2055 cc con il mandante, ricorrendone i presupposti (anche Cass. 16470/02 ).
Orbene il mandato è il contratto col quale una parte si obbliga a compiere atti per conto di un’altra, con o senza poteri di rappresentanza, si presume oneroso, nella misura stabilita dalle parti, dalle tariffe professionali, dagli usi, ovvero dal giudice, ma le parti possono concordarne la gratuitià; può essere revocato, ma anche semplicemente modificato dalle stesse parti. Il mandatario, è tenuto nell’esecuzione del mandato, ad usare la diligenza del buon padre di famiglia, ossia quella diligenza media, ispirata sempre al principio della buona fede. Se il mandato è a titolo gratuito, la responsabilità per colpa è valutata con minor rigore, mentre il mandante, salvo diversa pattuizione tra le parti, è tenuto a fornire al mandatario i mezzi necessari per l’esecuzione del mandato rimborsandogli le stesse somme comprensive degli interessi legali.
Sia i mediatori immobiliari a titolo oneroso che i mandatari, sono entrambi obbligati all’iscrizione nel degli Agenti di Affari in
Mediazione. Ciò è stato pensato dal legislatore al fine di accorpare e disciplinare (per alcuni aspetti) in modo uniforme le due figure, solo perché operanti entrambi nel campo immobiliare.
A norma dell’art. 2, comma 4, della legge n. 39/1989, "l’iscrizione al ruolo deve essere richiesta anche se l’attività viene esercitata in modo occasionale o discontinuo, da coloro che svolgono, su mandato a titolo oneroso, attività per la conclusione di affari relativi ad immobili od aziende"; mentre ai sensi dell’art. 11, comma 1, del d.m. n. 452/1990, "quando l’attività di mediazione sia esercitata da una società, i requisiti per l’iscrizione nel ruolo devono essere posseduti dai legali o dal legale rappresentante della società stessa ovvero da colui che è preposto dalla società a tale ramo d’attività".
In caso di assenza dell’iscrizione al ruolo di agenti di affari in mediazione ai sensi della legge 3 febbraio 1989 n. 39, e successive modificazioni, il notaio è obbligato ad effettuare specifica segnalazione all’Agenzia delle entrate di competenza.
In merito alla provvigione ai sensi dell’art. 6, comma 1, della legge n. 39/1989, "hanno diritto alla provvigione soltanto coloro che sono iscritti nei ruoli" ed ai sensi del successivo art. 8, come modificato dall’art. 1, comma 47, della legge n. 296/2006, "chiunque esercita l’attività di mediazione senza essere iscritto nel ruolo è punito con la sanzione amministrativa, ed è tenuto alla restituzione alle parti contraenti delle provvigioni percepite.
A coloro che siano incorsi per tre volte in quest’ultima sanzione, si applicano le pene previste dall’articolo 348 del codice penale, nonché l’articolo 2231 del codice civile, in merito all’esercizio abusivo della professione punita con multa, reclusione, e la prestazione eseguita da chi non è iscritto non da azione per il pagamento della provvigione.
Dalla vigente normativa si ricava anche che il mediatore che opera usando una propria modulistica sia tenuto all’osservanza di alcune norme a tutela del consumatore, quale il deposito preventivo degli stessi presso la competente Camera di Commercio delle scritture denominate “incarico di mediazione”, “proposta di acquisto”e “proposta di locazione”. L’art.21 del Regolamento prevede che: “ Fatte salve le sanzioni disciplinari, l’agente che si avvale di moduli o formulari per l’esercizio della propria attività senza ottemperare al deposito di cui all’art.5 della legge, è punito con la sanzione di tre milioni.
Ulteriore prescrizione per il mediatore è il divieto di prevedere l’obbligo di pagamento da parte del cliente di spese indicate in modo forfetario e non supportato quindi da specifiche ricevute o fatture, ovvero indeterminate nell’indicazione del prezzo, delle modalità, dei termini di pagamento.
Si può ritenere che il legislatore abbia risolto una delle ipotesi di esercizio abusivo dell’attività, privando l’operatore non iscritto al ruolo dei mediatori della possibilità di percepire una provvigione, pertanto attualmente chiunque operi nel settore immobiliare come mediatore, come mandatario, come procacciatore, etc. è tenuto all’iscrizione al ruolo degli agenti di affari ed in difetto sarà considerato come esercente l’attività in modo abusivo.
Ulteriore obblighi in capo ai mediatori immobiliari iscritti è quello di richiedere la registrazione per le scritture private non
autenticate di natura negoziale, stipulate a seguito della loro attività per la conclusione degli affari (nuovo art. 10, lett. d-bis), del d.p.r. n. 131/1986). A tal proposito è necessario precisare che il suddetto obbligo di registrazione vale per qualsiasi scrittura privata avente contenuto negoziale, sia che la stessa documenti un contratto (preliminare o definitivo), sia che si tratti di un atto unilaterale (es., proposta irrevocabile di acquisto per la quale è espressamente esclusa, nell’atto, la necessità l’accettazione). La proposta di acquisto destinata ad essere accettata, in quanto mero atto "prenegoziale", non è invece soggetta all’obbligo di registrazione come tale, ma solo dopo la sua accettazione. Quindi il mediatore immobiliare che rediga prima una proposta di acquisto (accettata), e successivamente un "preliminare formale", deve adempiere all’obbligo di richiesta di registrazione per entrambi.

In virtù di quanto affermato, un’eventuale, promessa di pagamento o ricognizione di debito "condizionata" dal rapporto sottostante estorta dal mediatore lede il rapporto di fiducia e di buona fede, dello stesso. Se l’obbligato, su cui grava l’onere della prova, dimostra l’inesistenza o l’invalidità o l’estinzione del rapporto fondamentale viene
meno ogni effetto vincolante dell’eventuale promessa o della ricognizione di debito. La ricognizione di debito, così come la promessa di pagamento, fonte autonoma di obbligazione comportando solamente l’inversione dell’onere della prova.
Vale a dire che il destinatario della promessa o della ricognizione è esonerato dal provare la causa o il rapporto fondamentale; grava, invece, sul dichiarante l’onere di provare l’inesistenza o l’invalidità o l’estinzione del rapporto, sia esso menzionato o non nella ricognizione di debito.
Da ciò deriva, che “dall’esistenza o validità del rapporto fondamentale non può prescindersi sotto il profilo sostanziale, con il conseguente venir meno di ogni effetto vincolante della promessa o della ricognizione, ove rimanga giudizialemente provato che, detto rapporto fondamentale non è mai sorto, o è invalido, o si è estinto, ovvero che esiste una condizione ovvero un altro elemento attinente al rapporto medesimo che possa comunque incidere sull’obbligazione derivante dal riconoscimento”.
In buona sostanza, se l’“onerato” prova che il debito non è mai sorto, o è invalido, o si è estinto, il precedente riconoscimento non ha più effetto (Tribunale ROMA, Sentenza 04/09/2009, n. 18009).
In conclusione a parere di chi scrive il sig. TIZIO ha validi motivi per opporsi alla richiesta di pagamento avanzata da CAIO rappresentante legale della SENSALE srl.
Infatti considerando l’aspetto contrattuale delle parti, sin dal principio tra le parti, vi era l’accordo che nulla era dovuto per la mediazione in questione, e certamente una ricognizione di debito, ovvero promessa di pagamento, successiva si fonda su un rapporto sottostante nullo, infondato, ancor più se si considera che l’assenza dell’iscrizione del mediatore e della stessa società di mediazione, determina una sanzione, quella appunto della mancata provvigione, e di ogni altra spesa sostenuta da CAIO.
In secondo luogo un’eventuale compenso per spese sostenute, ovvero provvigione, devono essere decise dal giudice secondo equità, e secondo i tarifari in uso.
Al sig. CAIO è quindi consigliato intraprendere un giudizio, al fine di provare il rapporto sottostante dell’obbligazione, e quindi l’assenza di qualsivoglia somma richiesta.

Parere legale motivato di diritto civile. Responsabilità amministratore di condominio e della ditta esecutrice dei lavori, lesioni a terzi passanti.

a cura del dott. Domenico Cirasole direttore del sito http://www.gadit.it/

Nel caso in esame, l’amministratore del condominio “Bella Residenza” da incarico verbale alla società “Parco Blu” di sostituire alcuni lucernari di pertinenza del condominio siti su un marciapiede pubblico, verso un corrispettivo di euro 35.000.00.
L’opera invece viene stimata di 12.000.00 da un Tecnico Terzo incaricato.
L’opera manca di progetto e autorizzazione amministrativa.
A causa dei nuovi lucernari alcuni passanti, cadendo riportano delle lesioni e ne chiedono al condominio il risarcimento.
Premesso che un condominio ha come organi l’assemblea dei condomini e l’amministratore , e che l’assemblea ha funzioni deliberative, e l’amministratore funzione esecutiva e di rappresentanza.
L’elencazione non tassativa delle parti comuni di un edificio è presente nell’art. 1117 c.c.
Premesso che il condomino, non può rinunziare al diritto delle cose comuni sottraendosi al contributo nelle spese per la loro conservazione ( art. 118 c.c.)
Ricordiamo che sorge l’obbligo di nominare un amministratore di condominio, quando i condomini sono più di 4.
L’amministratore è nominato dalla maggioranza, e può essere revocato.
La nomina e la cessazione devono essere annotate in apposito registro ( art. 1129 cc ).
La procura che conferisce il potere all’amministratore può essere tacitao per fatti concludenti .
La revoca dell’amministratore può essere chiesta al tribunale e all’assemblea, in casi determinati, quale la presenza di gravi irregolarità.
L’assemblea provvede all’approvazione delle spese occorse durante l’anno e autorizza eventuali opere di manutenzioni straordinarie.
In mancanza di preventiva autorizzazione successivamente all’esecuzione, solo in presenza del carattere dell’urgenza. ( 6896/96 Cass. Civ. ).
Nel condominio degli edifici anche le spese di manutenzione ordinaria e fisse, richiedono la preventiva approvazione dell’assemblea.( Cass. Civ. 4831/94 ).
L’amministratore ha il compito, di eseguire le deliberazioni dell’assemblea, oltre ad averne la rappresentanza.
Gli atti con i quali l’amministratore disponga opere sulla cosa comune in eccesso ai propri poteri sono affetti da nullità assoluta ( Cass. Civ. 1285/91).
Contro detti provvedimenti è ammesso ricorso all’assemblea e all’autorità giudiziaria.
La nullità del contratto può essere fatta valere da chi ha interesse ( art. 1421 cc ) e non è soggetta a prescrizione ( art. 1422 cc ).
Gli amministratori sono responsabili secondo le norme del mandato.
Il mandatario non può eccedere i limiti del mandato ( art. 1711 coma 1 ).
In caso di eccesso di mandato, l’atto resta a carico del mandatario.
Il negozio è inefficace nei confronti del mandante ed i suoi effetti si producono solo nel patrimonio del mandatario.
Il condominio, quale custode dei beni comuni, è obbligato ad adottare tutte le misure necessarie, affinché le cose non rechino pregiudizio ad alcuno.
Il condominio risponde dei danni da queste cagionati ( art. 1669 cc ).
L’unica causa di esonero del custode dalla responsabilità è il caso fortuito.
Inoltre il condominio è obbligato a rimuovere le cause del danno.
L’art. 1669 prevede l’eventuale concorrente responsabilità del costruttore venditore e del condominio.
Nella fattispecie in esame presumendo che l’amministratore sia fornito di regolare mandato da parte dell’assemblea, non evidenziando il carattere dell’urgenza, l’amministratore aveva l’obbligo di chiedere la preventiva autorizzazione dei lavori, sia che vengano considerati di ordinanza, che straordinaria manutenzione.
L’amministratore quindi ha superato i limiti del suo mandato e deve quindi tenere indenne il condominio di tutti gli effetti che si producono nel patrimonio delle stesso.
Quindi a parer dello scrivente il condominio deve:
1) Pagare l’impresa Parco Blu srl l’importo di euro 12.000.00, salvo in seguito far rivalsa verso l’amministratore ( 1421 cc );
2) Risarcire i danni dei passanti salvo accertare la corresponsabilità della ditta esecutrice dell’opera ( art. 1669 );
3) Rimuovere a sue spese le cause del danno ( i lucernari ), salvo in caso di corresponsabilità della ditta esecutrice, rivalersi nei suoi confronti ( art. 2051 cc );
4) Rivalersi nei confronti dell’amministratore di eventuali sanzioni amministratore per la mancanza della giusta autorizzazione ( art. 1669 );
5) Responsabilità dell’ amministratore.