Parere legale motivato di diritto penale – Reato di molestia, ovvero di atti persecutori, per mezzo di una chat (internet), con disturbo della quiete privata, e diffusione dei dati personali senza il realtivo consenso.

a cura del Domenico Cirasole

Tizio a seguito di disputa avuta con Caia, volendo vendicarsi del comportamento di quest’ultimo, crea un account di posta elettronica, intestato a costei.
Tizio usando la rete internet allaccia rapporti con utenti, della stessa a nome di Caia.
Infatti Tizio usando il falso nome di Caia, frequentando una chat, forniva a numerosi uomini i recapiti di Caia.
Tizio, inoltre, spacciandosi per Caia, nelle conversazioni in chat, dichiara di essere disponibile ad incontri anche sessuali.
Alcuni utenti della chat, contattano Caia, facendo avances, e chiedendo appuntamenti.
La questione appena descritta ci permette di affrontare alcuni istituti, che risultano ad essa collegata.
In nostro ordinamento, dichiara che ogni persona ha diritto al nome (art. 6 cc ), tutelata costituzionale ( art. 22 cost ).
La persona che possa risentire pregiudizio dall’uso che altri indebitamente ne faccia, ( art. 7 cc ) può chiedere giudizialmente, la cessazione del fatto, salvo il risarcimento dei danni.
Il nostro ordinamento tutelando la persona, statuisce che “ chiunque al fine di recare ad altri un danno, induce taluno in errore, sostituendo illegittimamente la propria all’altrui persona, attribuendo a se un falso nome, è punito con la reclusione ( art. 494 cp ).
Detto delitto è precedibile d’ufficio, e l’autorità competente è il tribunale monocratico.
Tutelando la persona, il legislatore ha voluto tutelare anche, la reputazione, e l’onore, della stessa, punendo con la reclusione…” chiunque offende l’altrui reputazione….” ( art. 595 cp ).
La pena è aumentata, se si riferisce ad un determinato fatto, ed vi è aumento anche, se l’offesa è recata con mezzo stampa, o altro mezzo di pubblicità.
In quest’ultimo caso, il legislatore, sanziona anche il direttore, l’editore e lo stampatore ( art. 596 bis ).
Non è sanzionabile chi nello stato d’ira, determinato da un fatto ingiusto, da altri causato, e subito dopo detto fatto, ha offeso l’altrui reputazione ( art. 599 cp ).
L’offeso può tutelare la propria reputazione, querelando l’autore.
Lo stato d’ira, quale causa di non punibilità, del reato di diffamazione, può ravvisarsi in quella situazione psicologica complessa, prodotta da una violenta, alterazione dell’emozione.
Detta alterazione è capace di durare anche per un apprezzabile periodo di tempo.
Infatti in riferimento alla reazione, non può pretendersi una contemporaneità delle azioni.
L’accecamento dello stato d’ira provocato dal far insorgere una reazione, senza che essa si esaurisca in un’azione istantanea ( art. 599 cp ).
( Cass. Pen. V 11-1-07 ).
Il legislatore ha previsto che la circostanza dell’aver reagito in stato d’ira, per un fatto ingiusto altrui ( art. 62 comma 2 ), attenua il reato.
Detta attenuante sussiste anche quando la reazione, non immediatamente seguente al fatto ingiusto, sia conseguente ad un accumulo di rancore, per effetto di reiterati comportamenti ingiusti esplodendo anche a distanza di tempo ( Cass. Pen. 232106/05 ).
Ai fini della configurabilità della attenuante della provocazione è necessario che:
a) il fatto ingiusto altrui, sia costituito da un comportamento inosservante norme sociali di costume, oggettivamente ingiusto, tenendo conto della situazione psicologica che si è venuta a creare per colui che ha reagito ( Cass. Pen. n. 175/93 );
b) da tale fatto consegue una reazione incontenibile della persona offesa.

Il legislatore ha voluto aggravare il reato, quando, lo stesso è commesso, per motivi obietti e futili. ( art. 61 cp )
La pena è aumentata se l’autore con più azioni, esecutive di un medesimo disegno criminoso, commette anche in tempi diversi più violazioni di diversi disposizioni di legge ( art. 81 cp).
Osservando l’art. 43 del codice penale ricaviamo l’elemento psicologico del reato.
E’ definito doloso, o secondo l’intenzione, l’evento che è il risultato dell’azione dall’agente preveduto e voluto come conseguenza della propria azione ( art. 43 cp ).
Dalle proprie azioni, possono conseguire reati della stessa indole ( art. 101 cp ), quando si violino disposizioni diverse, ma che per la natura dei fatti, presentano caratteri comuni.
Dalle proprie azioni, può inoltre derivare un fatto, determinato da altri indotti in errore, da inganno.
Quindi chi ha determinato l’inganno, e dallo stesso è sorto un fatto previsto come reato, di detto reato risponde chi induce in errore (art. 48 cp ).
Dalle proprie azioni può conseguire, induzione di altri a commettere singolarmente delle azioni, ma che da sole non costituiscono reato.

La stessa azione può essere ripetuta, moltiplicata, da più soggetti, tutti indotti in errore da un terzo.

Detti comportamenti, frutto di uno stesso disegno criminoso, possono essere configurate come, molestia o disturbo alle persone ( art. 660 cp ).

Infatti anche inducendo numerosi singoli soggetti in errore, è possibile arrecare disturbo alla persona.

Detto disturbo può essere arrecato anche con semplice uso del telefono, che offende la quiete privata ( cass. 12303/02).

Detta condotta reiterata, può cagionare uno stato d’ansia, o di paura, o timore, prevedendo anche un’ipotesi di reato, previsto all’art. 612-bis. ( Atti persecutori ).

Ritornando alla fattispecie concreta in esame a parere dello scrivente, a Tizio può essere imputato il reato di sostituzione di persona ( art. 494 ), in concorso con il reato di Diffamazione ( art. 595 ).

Inoltre sembra che possa essere ascrivibile sempre a Tizio i reati di molestia ( 660 cp ), ovvero di atti persecutori ( art. 612 bis ), avendo indotto terzi in errore.

In tal caso Tizio risponderebbe del fatto commesso dalla persona ingannata ( art. 48 cp ).

A ben vedere Caia è certamente disturbata dalle continue telefonate ricevute da alcuni uomini, invogliati da incontri, anche amorosi, Tizio infatti sostituendosi a Caia nelle conversazioni in chat, e fornendo i recapiti di Caia, ha certamente fatto intuire una disponibilità ad essere contattata in modalità diverse dalla chat.

Quindi Tizio ha certamente, previsto, e voluto disturbare la quiete privata di Caia ( art. 660 cp ) quindi ha voluto intenzionalmente ( 43 cp comma 1 ) cagionare in Caia uno stato d’ansia, di paura, e timore così come previsto dall’art. 612-bis.

Quindi a parere della scrivente Tizio ha violato diverse disposizioni, commettendo più violazioni, esecutive di un medesimo disegno criminoso ( art. 81 cp ).

A parere di chi scrive sembra anche ravvisabile, una lesione dei dati personali ( art. 1 D. Lgs. 196/03 ).

Infatti all’art. 2 è ammonito che il trattamento dei dati personali, avvenga nel rispetto della dignità dell’interessato, con riferimento alla riservatezza ( intesa come protezione ).

Per dato personale ( a norma dell’art. 4 ), si intende a qualunque informazione relativa a persona fisica, identificati o identificabili.

Il trattamento o la diffusione dei dati personali da parte di privati è ammesso solo con il consenso espresso dell’interessato ( art. 23 ).

Chi al fine di recare ad altri un danno, proceda al trattamento ( operazioni,
quale la diffusione e la comunicazione ), ( art. 4 ) di dati personali, è punito, se dal fatto deriva nocumento, con la reclusione ( art. 167 ).

Infatti commenta la cassazione penale ( sent. 28680/05 ) che commette il reato, di trattamento illecito, dei dati personali, chi diffonde, attraverso internet, senza il consenso dell’interessata , dei dati personali, dal quale deriva nocumento per la persona offesa.

In ultima istanza a favore di Tizio, sembra venire in soccorso una sentenza del 2007 ( cass. Pen. 46674/07 ). Detta sentenza, pronunciata a seguito di un caso analogo, prevede che si applichi l’art. 494 anche se a seguito di corrispondenza ( chat ) venga lesa l’immagine e la dignità di terzo.
Nello stesso caso, al fine di arrecare danno, al terzo soggetto, vengono usate abusivamente, le generalità del soggetto leso, e i recapiti della stessa.
Recita la sentenza”….Integra il reato di sostituzione di persona ( art. 494 cp ), la condotta di colui che crei ed utilizzi un account di posta elettronica, attribuendosi falsamente le generalità di un diverso soggetto inducendo in errore gli utenti della sete internet, nei confronti dei quali le false generalità siano declinate, e con il fine di arrecare danno al soggetto le cui generalità siano state abusivamente spese, subdolamente incluso in una corrispondenza idonea a ledere l’immagine e la dignità…” ( cass. Pen. 46674/07 ).

Parere legale motivato di diritto penale – concorso di persone nel reato di omicidio in un contesto di rivalità di cosche mafiose.

a cura del dott. Domenico Cirasole

Il caso propone una fattispecie di concorso di persona.

Analizzando il caso vediamo che tizio, decide di vendicare, l’affronto subito dalla compagna, che intraprende una relazione con Caio.

Tizio e Caio, sono entrambi esponenti di spicco di cosche criminali rivali. Tizio incarica tre sottoposti di “gambizzare“ Caio, per vendicare il comportamento della compagna, ma anche per riparare alla grave lesione del suo prestigio criminoso, che ne è conseguito.

Dei tre sottoposti uno svolge il compito di vedetta in auto. Gli altri due in motocicletta usano le armi, che la cosca criminale aveva in dotazione, e colpiscono Caio, alle gambe, torace, addome, causandone la morte.

I tre sottoposti prima di dare atto all’esecuzione, studiano i movimenti di Caio, per mettere in atto il mandato criminoso ricevuto da Tizio, referente locale di spicco della cosca criminale.

Il giorno fissato i due sottoposti, nonostante fossero a distanza ravvicinata, e usando anche armi automatiche, sparano più proiettili all’impazzata uccidendo Caio, ma compiendo un atto diverso da quello commissionato da Tizio, che voleva semplicemente gambizzare Caio.

Dall’art. 18 della nostra Costituzione, ricaviamo che tutti i cittadini hanno diritto di associassi liberamente, per fini che non sono vietati dalla legge penale.

Inoltre tutti hanno diritto di propagandare la propria associazione. Le associazioni formate da tre o più persone, con lo scopo di commettere dei delitti, sono vietate e punite dal nostro ordinamento ( art. 416 cp ).

Lo stesso, il nostro ordinamento, vieta le associazioni formate da tre o più persone, che avvalendosi della forza d’intimidazione del vincolo associativo, e della condizione di assoggettamento, commette delitti, per acquistare, in modo diretto, o indiretto la gestione, il controllo dell’attività lecita e non lecite, di una determinata località ( art. 416 bis ).

Ulteriormente è vietato ed punita l’associazione armata (art. 416 bis ).

È definita associazione armata quando i partecipanti hanno la disponibilità, di armi, anche se occultate in luogo di deposito.

Il bene giuridico leso in dette associazioni, è il controllo di una zona, commettendo delitti, creando pericolo per l’ordine pubblico ed economico.

L’associazione si caratterizza dalla stabilità, e intensità del vincolo solidale. Detto vincolo, determina un’azione intimidatrice, nell’ambiente circostante.

Il metodo mafioso ( art. 416 bis ), si connota dal lato attivo, per l’utilizzazione da parte degli associati della carica intimidatrice, che nasce dal vincolo associativo, e dal lato passivo, per la situazione che tale forza intimidatrice sprigiona verso l’esterno dell’associazione (cass. Pen. 70/200).

L’avvalersi della forza intimidatrice può esplicarsi nei modi più disparati, anche ponendo in essere atti di violenza, che di per sé soli, sono irrilevanti, ma se vista in una condotta ampia del sodalizio, da essa deriva, ed esprima una forza associativa ed intimidatrice ( cass. Pen. 648/93 ).

L’aggravante della disponibilità di armi, per le finalità dell’associazione, ben può ritenersi finalizzata al conseguimento degli scopi propri dell’associazione ( cass. Pen. 9958/97 ).

In dette associazioni vi è la presenza di un responsabile ( capo mandamento della provincia ), organizzatori ( promotori ), e partecipi ( partecipazione al tessuto organizzativo del sodalizio ).

L’elemento soggettivo della condotta di tutti i soggetti dell’associazione è, la consapevole volontà di far parte della compagine criminosa, per condividerne le finalità e l’attività svolta ( cass. Pen. 592/01 ).

I capi, localmente hanno ruolo direttivo, e decisionale ( cass. Pen. 206/97 ).

Sussiste la responsabilità del “ capo “ a titolo di concorso nel reato, anche se da lui non commesso materialmente.

Nel caso in esame Tizio è capo, referente locale, di una cosca criminale. Tizio intende “ gambizzare “ Caio, prevalentemente per non perdere un prestigio criminale, che a parere dello scrivente, è tipica della condotta mafiosa, che pur di non perdere il controllo di una determinata località, compie atti che di per sé sono irrilevanti, ma vista con ottica ampia, aumentano la forza intimidatrice dell’associazione.

Che Tizio fosse capo referente locale, lo si denota dal fatto che ha potere decisionale, dispone di armi dell’organizzazione, e usando il vincolo solidale organizzativo, può usare, per commettere il reato prefisso, anche degli affiliati ( partecipi ).

L’elemento psicologico di Tizio è a parere dello scrivente, la volontà di aumentare in maniera incontrastata il controllo criminale. Infatti sempre a parere di chi scrive l’aver agito per motivi abietti ( quale è vendicare l’affronto subito a seguito della relazione sentimentale della ex compagna di Tizio ), fa ipotizzare che la reale motivazione del reato voluto, sia da ascrivere al reato previsto ex art. 416 bis.

Infatti voler gambizzare Caio, perché scelto come nuovo compagno della sua ex, può risultare un semplice pretesto.

La morte di Caio a seguito dell’uso delle armi da fuoco, fa ascrivere nella condotta di Tizio, quale mandante, a capo locale dell’associazione, anche il reato d’omicidio ( art. 584 cp ), anche, se non voluto.

L’art. 586 cp prevede un aumento delle pene se da un fatto deriva, quale conseguenza non voluta dal colpevole, la morte di una persona. Infatti i concorrenti hanno accettato consapevolmente il rischio che le gravi lesioni programmate ( gambizzazione ), potessero trasmodare in omicidio.

Ne consegue che ricorre un’ipotesi di concorso ordinario ( art. 110 ), e non anomalo ( art. 116 cp ), nell’uso d’armi, in relazione al verificarsi di qualsiasi evento lesivo del bene vita ( cass. Sez. unite 337/09 ).

Tizio risponderà di omicidio preterintenzionale ( art. 584 cp. ) e non di omicidio volontario ( art. 575 cp ), per la diversità dell’elemento psicologico.

Infatti Tizio ha voluto l’evento minore ( gambizzazione ), e non la morte, anche se facilmente ipotizzabile ( dolo diretto eventuale ) ( cass. Pen. 169259/85 ).

Tizio in concorso con gli esecutori, partecipa moralmente all’evento morte di Caio, essendovi un rapporto di causalità tra la volontà di gambizzare, e l’evento morte (cass. Pen. 230836/04 ).

Purtroppo per Tizio, aggrava la sua situazione, l’aver cagionato la morte con l’uso delle armi, ( art. 585 cp ).

Ancora a Tizio può applicarsi l’aggravante 112 punto 2, per aver promosso, e organizzato l’attività dei tre sicari ( art. 112 punto 2 ).

In conclusione a parere dello scrivente per la morte di Caio, può essere imputato, anche a Tizio, il reato di Omicidio preterintenzionale ( 584 cp ), anche se non voluto, ma previsto, quale conseguenza del suo mandato ( art. 110 cp ).

Aggrava la situazione di Tizio l’aver promosso l’azione ( art. 112 punto 2 ), e l’aver cagionato la morte con l’uso delle armi ( 585 cp ).

Tutta la condotta di Tizio è conseguenza dell’appartenenza ad un’associazione di tipo mafioso ( art. 416 bis ), e la spedizione punitiva ( gambizzazione ) è il modus operandi delle associazioni mafiose ( Metodo mafioso ).

Ne consegue l’applicazione dell’art. 81 cp nei confronti di Tizio perché la gambizzazione di Caio, è reato facente parte del medesimo disegno criminoso dell’associazione mafiosa ( art. 416 bis ), prevedendo una pena aumentata fino al triplo. ( concorso formale 81 cp comma 2 ).

Tizio può proporre il giudizio abbreviato ( 438 cpp ), definendo il tutto allo stato degli atti all’udienza preliminare, ottenendo una diminuzione di pena di un terzo.

Poco probabile può realizzarsi una difesa di Tizio che partendo dall’art. 83 cp, preveda un errore nell’uso dei mezzi di esecuzione ( uso delle armi sproporzionato da parte dei due sicari, nonostante usino armi automatiche, e si trovano a distanza ravvicinata) per derubricare il reato di omicidio da preterintenzionale a colposo ( perché l’evento morte non era voluto ) ( art. 589 ).

Infatti dice la cassazione che ai sensi dell’art. 83, è addebitabile all’agente a titolo di colpa, soltanto se è assolutamente diverso.
Così non è quando l’evento è più grave di quello previsto ( cass. Pen. 1240/88 ).

Parere legale motivato di diritto civile – contratto preliminare di vendita, stipulato dal coniuge (marito), in regime di separazione legale dei beni, di un immobile acquistato dai coniugi in comune e pro-indiviso (comunione ordinaria).

a cura del dott. Domenico CIRASOLE

Il caso in esame vede interessati due coniugi che al momento del loro matrimonio (20 aprile 2000) non stipulavano convenzione di separazione legale dei beni. Questa veniva stipulata solo in seguito il 2 gennaio 2007.
In seguito alla separazione legale anzidetta, entrambi i coniugi acquistavano un immobile in comune e pro-indiviso.
Tizio (uno dei coniugi), in data 15 dicembre 2008 stipulava con Sempronio, un preliminare d vendita, avente ad oggetto l’intero immobile acquistato dai coniugi, fissando il 20 dicembre 2009 la data della stipula del contratto definitivo di compravendita. Detto preliminare veniva regolarmente trascritto in data 16 dicembre 2008.
Caia, moglie di Tizio, invitata alla stipula del contratto definitivo, rifiuta la vendita.
Il contratto stipulato tra le parti è un contratto preliminare di cosa altrui.
La fattispecie è perfettamente lecita ed è disciplinata dall’articolo 1478 c.c. in combinato disposto con l’articolo 1351.
L’articolo 1479 c.c. disciplina in modo specifico l’ipotesi della vendita di cosa altrui venduta come propria.

Il compratore, che ignorava la proprietà della cosa, può chiedere la risoluzione del contratto, se nel frattempo il venditore non ha fatto acquistare la proprietà al compratore.

Tale norma però disciplina l’ipotesi del contratto di vendita “definitivo”, non già del contratto preliminare di cosa altrui.

L’acquirente può, chiedere in primo luogo l’annullamento per errore e, in subordine, la risoluzione del contratto.
L’azione di annullamento per errore può essere intentata ai sensi dell’articolo 1428, quando l’errore è essenziale o può essere considerato essenziale, (quando cade sull’identità dell’oggetto della prestazione; quando cade sull’identità del contraente).
La risoluzione per inadempimento ai sensi dell’articolo 1453 c.c., può chiedersi quando l’altro contraente non adempie in tutto o in parte la sua prestazione.
Nella fattispecie trattandosi di un preliminare di cosa altrui, (obbligo di stipulare un successivo contratto definitivo) il venditore non può essere considerato inadempiente fino al momento della stipula del definitivo.
Non essendo possibile risolvere il contratto o annullarlo, non può chiedersi altresì il risarcimento dei danni e la restituzione della somma versata.
L’azione di annullamento per dolo, con richiesta di risarcimento del danno e, restituzione di quanto pagato, può essere applicata qualora si riesca a dimostrare che il venditore era in male fede, (aver venduto un bene altrui ricevendo in anticipo il prezzo)
In teoria poi, potrebbe prospettarsi anche un’azione di nullità per violazione delle norme imperative che prevedono obblighi di correttezza e buona fede (articoli 1175 e 1375 c.c.).
In costanza di matrimonio, salvo diverso accordo tra i coniugi, il regime patrimoniale stabilito dalla legge è quello della comunione legale dei beni.
Tuttavia, il regime della comunione legale, per volontà concorde degli sposi, può essere opportunamente derogato al momento della celebrazione del matrimonio, con conseguente annotazione a margine dello stato civile che i coniugi hanno scelto il regime della separazione patrimoniale.
Una scelta analoga può essere fatta anche successivamente alla celebrazione del matrimonio, con atto avente la forma di atto pubblico (redatto cioè dinanzi ad un notaio).
Fanno parte della comunione tutti quei beni che sono stati acquistati congiuntamente o separatamente dai coniugi dopo il matrimonio. Essi appartengono in parti uguali al marito ed alla moglie.
I coniugi in regime di comunione legale dei beni possono agire con poteri disgiunti per il compimento di atti di ordinaria amministrazione, per quelli di straordinaria amministrazione devono, invece, agire congiuntamente.
Alternativamente al regime di comunione legale dei beni, la legge permette l’applicazione del regime patrimoniale di separazione.
Nel caso di separazione legale dei beni, ciascun coniuge rimane titolare esclusivo, non solo dei beni acquistati antecedentemente al matrimonio, ma anche di quelli conseguiti successivamente.
Al coniuge proprietario dei beni spettano, in via esclusiva, il godimento e l’amministrazione degli stessi, egli ha quindi tutto il diritto di goderli o amministrarli, in via esclusiva. I patrimoni di marito e moglie restano quindi separati durante il matrimonio.
Per ottenere la cointestazione di un bene, una volta optato per il regime di separazione, occorrerà esplicitamente dichiarare all’atto dell’acquisto tale volontà, specificando anche la quota di comproprietà da assegnare.
Nel regime di separazione dei beni vigono particolari regole in materia di "onere della prova". Con ciò si intende che, in caso di contenzioso giudiziale fra i coniugi, questi, ai sensi dell’art. 219 del Codice civile, potranno provare con ogni mezzo, nei loro rispettivi confronti, la proprietà esclusiva del bene mobile acquistato, non applicandosi i limiti di ammissione della prova testimoniale di cui agli artt. 2721 e seguenti codice civile.
Nel caso in cui nessuno dei due coniugi riesca a provare la proprietà esclusiva del bene, questo è attribuito in proprietà di entrambi di coniugi, per pari quota (art. 219 c.c. 2°comma).
Se uno dei coniugi, nonostante l’opposizione dell’altro, amministra i beni di questo o comunque compie atti relativi a detti beni risponde dei danni (art. 217 c.c).
La Corte costituzionale con la sentenza 17.3.88 n. 311, ha evidenziato la netta distinzione tra comunione ordinaria e comunione legale tra coniugi.
La comunione ordinaria detta pro- indiviso, e qualificata anche come proprietà plurima parziaria .
Il diritto di proprietà è unico ed attiene al bene nella sua interezza.
Il diritto dei comproprietari, sarà rivolto al bene unico nella sua pienezza (quota ideale).
La giurisprudenza in tema di preliminare di vendita di bene in comunione ordinaria, con la sentenza delle SS.UU n. 7481/93 ha definito il contrasto esistente affermando che “nella communio pro-indiviso, la promessa di vendita di un bene in comunione è di norma considerata dalle parti attinente al bene inteso come un unicum inscindibile.
Se detto negozio venga redatto in modo tale da farne risultare la volontà di scomposizione in più contratti preliminari, nel quale ognuno dei comproprietari si impegna esclusivamente a vendere la propria quota, l’assenza di una di tali dichiarazioni, non operando la fusione delle singole volizioni dei comproprietari, comporta la assoluta impossibilità, da parte del promissario acquirente di ottenere la pronuncia ex art. 2932 c.c..
La comunione legale è quella particolare situazione dominicale nota come comunione legale tra i coniugi.
Ciascun coniuge è titolare del bene per intero.
Questa fattispecie si riconduce alla classica figura della comunione senza quote, in quanto i coniugi-comunisti vantano un diritto avente per oggetto i beni della comunione stessa (fondamentale la ricostruzione data da C.C. 17.3.88 N.311).
Vi è pertanto da considerare la disciplina codicistica dettata dagli artt. 180 e ss. cc..
Il codice civile, infatti, stabilisce il modello dell’amministrazione disgiuntiva per tutto ciò che concerne gli atti di ordinaria amministrazione.
Viceversa gli atti che eccedono l’ordinaria amministrazione dovranno essere compiuti dai coniugi congiuntamente.
Qualora, si ravvisi la vendita (o la promessa di vendita) di un bene immobile al coniuge pretermesso ed escluso, che non convalidi l’atto, non resterà che proporre l’azione di annullamento entro il ristretto termine di cui all’art. 184 secondo co. c.c., ovvero un anno dalla data in cui ha avuto conoscenza dell’atto ed in ogni caso entro un anno dalla data di trascrizione o, comunque, non oltre l’anno dallo scioglimento della comunione quando l’atto non sia stato trascritto ed il coniuge non ne abbia avuto conoscenza prima dello scioglimento della comunione.

Il potere del coniuge di poter disporre unilateralmente ed autonomamente dei beni coniugali senza il consenso necessario viene ricondotto in un vizio del negozio.
Da tale vizio, consegue che il negozio è quindi annullabile e non inesistente, ovvero nulla, ma solo annullabile.

Di conseguenza come legali potremmo rassicurare Caia sul fatto che il negozio giuridico (preliminare di vendita) se la separazione è pienamente valida ed opponibile ai terzi, non avrà esito positivo, trattandosi quindi di vendita di cosa altrui in comunione ordinaria, affetta da difetto di consenso, per l’appunto di Caia.
Tizio non può vendere, o promettere di vendere ciò che non li appartiene.
Cosa diversa è se la separazione dei beni dei coniugi, non fosse opponibile ai terzi, in tal caso, Caia avrebbe dovuto proporre l’azione di annullamento entro il ristretto termine di cui all’art. 184 secondo co. c.c. ( 1 anno dal preliminare), cosa che non è avvenuta, rendendo il bene aggredibile da Sempronio.

Parere legale motivato di diritto penale Responsabilità oggettiva della P.A., quale gestore e custode di demanio pubblico (responsabile del controllo delle acque portuale), per i danni cagionati dalle cose in custodia (insidia da basso fondale)

a cura del dott. Domenico CIRASOLE

La questione giuridica in esame vede interessato Tizio, che partito a bordo del proprio motoscafo dal porto di Bari, si arenava a breve distanza dal porto di Trani. L’incidente si era verificato a causa di una secca non rilevata sulle carte nautiche ufficiali e comunque non visibile né segnalata.
I porti sono quei tratti di costa, naturali ed artificiali, idonei ad offrire rifugio ed agevolare l’approdo delle navi al riparo dai venti e dalle onde. Nell’impianto codicistico prevale la concezione del porto come infrastruttura, come bene pubblico soggetto alla particolare disciplina dei beni demaniali. L’art. 28 c.n., include i porti tra i beni del demanio marittimo (art. 822 c.c.) e l’art. 35 c.n. ne individua l’elemento di qualificazione nella “utilizzabilità” per i “pubblici usi del mare”(difesa nazionale, navigazione, traffico marittimo, pesca e altre attività connesse). Dal combinato disposto di tali disposizioni discende che è la stessa soggezione ad un pubblico uso che giustifica l’inclusione dei porti nella categoria dei beni demaniali.

Di fronte all’assenza di una definizione giuridica di porto, si è tentato di ricostruirne la nozione ora facendo riferimento al profilo squisitamente fisico (tratto di mare chiuso, atto al rifugio, all’ancoraggio, all’attracco delle imbarcazioni, caratterizzato dalla presenza di elementi naturali e artificiali), ora ponendo sempre più l’accento sull’aspetto funzionale e quindi sulle attività economiche che si svolgono al suo interno, volte alla prestazione di servizi.

La legislazione in materia portuale classifica i porti in due categorie, la prima per i porti militari e la seconda per quelli di rilevanza economica (internazionale,nazionale e regionale, interregionale). La normativa richiamata si limita, tuttavia, a sancire l’appartenenza dei porti al demanio necessario, senza comunque offrire una nozione legislativa di porto. Neppure la legislazione speciale in materia portuale ha contribuito a fornire una definizione giuridica del bene-porto.

Il recente D.Lgs. 6 novembre 2007, n. 2036 (traducendo quasi ad litteram quella contenuta nella Direttiva del 2005/65/CE) ha introdotto una precisa definizione di porto come “specifica area terrestre e marittima, intesa ad agevolare le operazioni commerciali e di trasporto marittimo. Mentre le rade sono zone di mare normalmente prospicienti o prossime al porto, ma anche di mare aperto, che offrono la possibilità di una sosta temporanea alle navi in quanto al riparo dai venti e dai marosi.

Chiarito ciò, occorre chiedersi cosa debba allora intendersi per “ambito portuale”, e se si tratti di un concetto diverso da quello di “area portuale”. Ebbene, l’ambito portuale di cui alla legge di riforma dei porti sembrerebbe più ampio, sotto il profilo spaziale, non solo del “porto”stricto sensu, ma talvolta anche delle singole “aree portuali” propriamente dette, comprendendo al suo interno sia l’uno che le altre, ma potendo racchiudere anche altre zone più periferiche. Che il concetto di “ambito portuale” sia molto ampio e onnicomprensivo, peraltro, si evince dallo stesso tenore dell’art. 18 della legge 84 del 1994, laddove prevede che siano soggette a concessione gli specchi acquei esterni in quanto anch’esse da considerarsi a tal fine ambito portuale, purché interessate dal traffico portuale e dalla prestazione dei servizi portuali.
Perché l’ambito portuale possa ricomprendere anche queste aree esterne, è stata quindi posta questa limitazione di natura funzionale.
Ebbene, dal momento che l’art. 5 della legge n. 84/94 prevede che sia oggetto di pianificazione l’“ambito portuale”, mentre l’art. 6, comma 7, si riferisce alla “circoscrizione” quale spazio nella quale si esercita la giurisdizione dell’Autorità Portuale, non è detto che il primo coincida sempre con la seconda, potendo l’ambito comprendere porzioni del territorio esterne alla circoscrizione.

La certezza dei confini delle zone portuali è di fondamentale importanza per la legittimità di qualsivoglia provvedimento.

A seguito del nuovo quadro normativo il Comune è oggi titolare delle funzioni amministrative sul demanio marittimo, incluso quello portuale, che il Codice della Navigazione affidava alle Capitanerie di Porto e che consentono all’Ente Locale, l’amministrazione diretta dei beni demaniali marittimi. Diverse Regioni, con diverse leggi regionali, hanno conferito ai propri Comuni costieri l’esercizio di tutte le funzioni amministrative relative al demanio marittimo, intendendosi per beni demaniali quelli elencati nell’art. 822 del c.c. e 28 del codice della navigazione e cioè il lido del mare, la spiaggia, i porti, le rade, le lagune, le foci dei fiumi che sboccano in mare.

Ciò altro non è che il risultato del nuovo assetto costituzionale che, introduce una profonda ridislocazione di poteri dal centro alla periferia, e che hanno aperto la strada al potenziamento delle autonomie.

Quindi nelle Regioni a Statuto ordinario, a seguito del conferimento dei poteri amministrativi in capo alle Regioni, avvenuto ad opera dell’art. 105 del D.lgs. n. 112/98, la gestione amministrativa del demanio marittimo è ormai di competenza Regionale o, per subdelega ex art. 42 del D.lgs n. 96/1999, Comunale, salve rare ipotesi di competenza statale.

Le Regioni e i Comuni destinatari della riforma sono oggi chiamati a svolgere funzioni nuove. Molti Enti locali, nell’esercizio concreto delle funzioni concessorie, oltre ad essersi autolimitati, nel senso di aver adottato mediante apposite delibere comunali propri criteri direttivi si sono, altresì, legittimamente dotati di strumenti urbanistici demaniali.

Tra le varie funzioni nuove della Regione e dei Comuni vi è la funzione propria degli Enti Nazionali addetti al coordinamento della carta nautica, che è redatta non dalla regione, ma dalla Marina Militare, e dal’Ente cartografico di Stato.

La cartografia ufficiale proviene dalla Marina militare" (per il fatto stesso di dover essere unitaria ed aggiornata) alla quale va il compito di "redigere le carte nautiche ufficiali" sia marine, sia lacustri e fluviali. La Legge quadro 68/60 che detta “norme sulla cartografia ufficiale dello Stato e sulla disciplina della produzione e dei rilevamenti terrestri e idrografici” prevede che gli organi cartografici dello Stato siano l’Istituto geografico militare, l’Istituto idrografico della Marina, la Sezione fotocartografica dello Stato Maggiore dell’Aeronautica, l’Amministrazione del catasto e dei servizi tecnici erariali, il Servizio geologico.
La cartografia ufficiale dello Stato è costituita dalle carte geografiche, topografiche, corografiche, nautiche, aeronautiche, catastali e geologiche pubblicate da un ente cartografico dello Stato e dall’ente stesso ente ufficiale dichiarate.

Ma la Regione e i Comuni quali enti pubblici dovrebbero conoscere la discrasia tra i dati reali e quelli indicati nella carta, e comunque dovrebbero segnalare nelle carte nautiche, il punto in cui un fondale è meno profondo.

L’assenza di detta indicazione, crea i presupposti di un’insidia a cui nessuno può sfuggire.
L’inerzia colposa delle Regioni o dei Comuni, consiste nell’omessa segnalazione del pericolo, ed a nulla rileva l’impossibilità nel caso concreto di una vigilanza continua sul bene, date le sue dimensioni e caratteristiche.

Sorge così una responsabilità per danni da beni di proprietà della Pubblica amministrazione, a cui consegue una presunzione di responsabilità per i danni cagionati dalle cose che si hanno in custodia vedendo applicata la disciplina di cui all’art. 2051 cod. civ..

Qualora invece sia accertata in concreto l’impossibilità dell’effettiva custodia del bene, a causa della notevole estensione dello stesso e delle modalità di uso da parte di terzi, l’ente pubblico risponde dei pregiudizi subiti dall’utente, secondo la regola generale dell’art. 2043 cod. civ., norma che non limita affatto la responsabilità della P.A. per comportamento colposo alle sole ipotesi di esistenza di un’insidia o di un trabocchetto. Conseguentemente, secondo i principi che governano l’illecito aquiliano, graverà sul danneggiato l’onere della prova dell’anomalia del bene, che va considerata fatto di per sé idoneo – in linea di principio – a configurare il comportamento colposo della P.A., mentre incomberà a questa dimostrare i fatti impeditivi della propria responsabilità, quali la possibilità in cui l’utente si sia trovato di percepire o prevedere con l’ordinaria diligenza la suddetta anomalia o l’impossibilità di rimuovere, adottando tutte le misure idonee, la situazione di pericolo (Cass. 6 luglio 2006, n. 15383).

Non è superfluo aggiungere che siffatto ordine di idee ha, a suo tempo ricevuto il significativo avallo della Corte costituzionale la quale, chiamata a scrutinare la conformità con gli artt. 3, 24 e 97 della Costituzione degli artt. 2051, 2043 e 1227 cod. civ., ha ritenuto infondato il dubbio proprio in ragione della aderenza ai principi della Carta fondamentale del nostro Stato all’interpretazione affermatasi nella giurisprudenza di legittimità ( Corte cost. n. 156 del 1999). Questa sentenza si pone sulla scia di precedenti interventi della Corte di Cassazione, tendenti a eliminare i privilegi tuttora concessi alla Pubblica Amministrazione nei rapporti con i privati, in vista di un progressivo innalzamento del grado di responsabilizzazione degli Enti Pubblici. Da quel momento la regola generale contenuta nell’art. 2043 c.c. ha svolto una funzione residuale nei casi di responsabilità della P.A. per danni causati da beni demaniali, in quanto richiamata solo in via subordinata rispetto all’art. 2051 c.c.

In concreto e allo stato attuale del diritto e della giurisprudenza, nonostante l’art. 2043 c.c. dovesse rappresentare una sorta di “rete di sicurezza” per tutti quei casi che non rientravano nella fattispecie dell’art. 2051 c.c., l’utilizzo della norma è stata molto limitata.

I giudici di legittimità hanno negli anni affermato che l’art. 2043 c.c. non limita ai soli casi di insidia e trabocchetto la responsabilità della pubblica amministrazione; inoltre hanno affermato il principio di diritto al quale il giudice di prime cure dovrà attenersi. Infatti graverà sul danneggiato il solo onere di provare l’anomalia del bene demaniale, che costituisce fatto di per sé idoneo a configurare un comportamento colposo della P.A., sulla quale ricade conseguentemente l’onere della prova dei fatti impeditivi della propria responsabilità.

E’ evidente che l’introduzione dell’elemento dell’insidia o trabocchetto restringeva notevolmente l’ambito di operatività del principio contenuto nell’art. 2043 c.c., in quanto si poneva a carico del privato cittadino il dovere di evitare, per quanto possibile, ogni situazione di pericolo che possa eventualmente presentarsi durante la fruizione degli spazi di demanio pubblico. Infatti il danneggiato doveva dimostrare che il danno non era visibile o prevedibile, prova non facile da raggiungere e che spettava alla difesa della P.A. di puntare sulla negligenza o disattenzione del danneggiato per sottrarsi completamente alla richiesta di risarcimento o per concludere il contenzioso con la dichiarazione di un concorso di colpa ex art. 1227 c.c.

In seguito alle fondamentali sentenze 20 Febbraio 2006 n. 3651 e 14 Marzo 2006 n. 5445 della Cassazione civile, sezione III, il soggetto che lamenti un danno, e ne chieda il risarcimento ai sensi dell’art.2043 c.c. (e non ai sensi dell’art.2051 c.c.), sarà tenuto a provare i consueti elementi strutturali dell’illecito e in particolare l’esistenza di un’anomalia del bene demaniale idonea a configurare il comportamento colposo della P.A..
Non sarà, invece, tenuto alla prova della sussistenza dell’insidia o trabocchetto, restando in capo alla P.A. l’onere della prova dei fatti cd. impeditivi (ossia la prova dell’inesistenza della predetta anomalia, della visibilità e prevedibilità di essa etc.) con la conseguenza che la P.A. sarebbe responsabile di ogni danno causato dal bene di cui è custode, in quanto esercente su di esse un diritto di proprietà, a meno che tali danni non possano essere effettivamente ricondotti ad eventi fortuiti.

Con la sentenza n. 8692/2009 viene ribadito il concetto che la responsabilità della Pubblica Amministrazione non è limitata ai soli casi di insidia e trabocchetto, e che nell’ottica di una effettiva parità in ambito giurisdizionale tra Enti pubblici e soggetti privati, la circostanza che soggetto responsabile sia la pubblica amministrazione non modifica gli oneri probatori propri della regola generale ex art. 2043 c.c..

La Corte di Cassazione con la sentenza n. 8692/2009 si pronuncia in tema di onere della prova nel caso di danno cagionato da un’insidia costituita da rocce semi-affioranti in un lago e non indicate nella carta nautica ufficiale.

Il ricorrente, chiedeva il risarcimento dei danni subiti al motoscafo di sua proprietà a causa della collisione con un basso fondale non segnalato. La Cassazione ha stabilito che l’ente nel cui territorio ricade il lago (Regione), garante della sicurezza della navigazione, risponde, in via di principio, verso i terzi della discrasia tra dato reale e risultanze cartografiche.

Concludendo alla luce di questa ultima sentenza, Tizio a parere di chi scrive, è legittimato a chiedere all’ ente pubblico territoriale (in via principale alla Regione Puglia, ed in via subordinata al Comune di Trani) su cui ricade la gestione, e la custodia, il risarcimento degli ingenti danni riportati dal proprio motoscafo, non essendo la secca nè visibile, nè segnalata, e ciò tanto più che la carta nautica ufficiale indicava in quel punto un fondale profondo, laddove questo si era rivelato molto più basso, dovendo provare l’esistenza della secca, quale causa dei danni riportati alla propria imbarcazione.