Parere legale motivato di diritto civile – IPOTESI DI FALSO IN SCRITTURA PRIVATA A SOSTEGNO DI RICHIESTA DI DECRETO INGIUNTIVO DI PAGAMENTO.

a cura del dott. Domenico CIRASOLE

La questione in esame ci vede impegnati in un falso in scrittura privata.
TIZIO sostiene di aver ricevuto due scritture private da CAIO, con le quali riconosceva il suo debito.
Dette scritture, sono il fondamento di una richiesta di decreto ingiuntivo.
Il giudice viste le dichiarazioni di riconoscimento di debito, emetteva il decreto ingiuntivo, rilevando che il credito era certo ed esigibile.
CAIO, al contrario sostiene di non aver mai contratto debito con TIZIO, di non aver firmato alcuna dichiarazione in merito, e infine, riconosce come non proprie (falsificate) le sottoscrizioni apposte alle dichiarazioni.
Quindi CAIO, propone opposizione al decreto ingiuntivo, e denuncia TIZIO alla autorità giudiziaria, per falsità materiale delle scritture private.
Il P.M. contestava a TIZIO i reati di :
falso in scrittura privata;
falso in atto pubblico;
induzione in errore.

Le scritture private fanno piena prova, fino a querela di falso, della provenienza della dichiarazione di chi l’ha sottoscritta, a meno chè, non sono disconsciute come proprie ( art. 2702 c.c.).
Dette scritture possono essere usate anche per promettere un pagamento, o riconoscere un debito ( art. 1988 c.c.).
La dichiarazione che riconosce un debito fa piena prova, se non si dimostra il contrario ( art. 2720 c.c.).
Chi non riconosce le scritture, può proporre querela di falso ( art. 221 c.p.c.), affinchè venga provata la verità del documento, e dando prova in giudizio (art. 2967 c.c.), chiede istanza di verificazione ( art. 216 c.p.c.).
Il giudice se il credito, è certo, ed esigibile, su domanda del creditore, e sulla base delle scritture private proposte, pronuncia ingiunzione di pagamento ( art. 633 c.p.c.).
Le promesse di pagamento, dichiarate con scrittura privata sono prove che il giudice ritiene idonee, al fine di pronunciare ingiunzione di pagamento, che si conclude con l’accoglimento della domanda (art. 641 c.p.c.).
A tale decreto d’ingiunzione è possibile opporsi ( art.645 c.p.c.), o se divenuto esecutivo, impugnare ( art. 656 c.p.c.) davanti al giudice civile, per ottenere la sospenzione ( art. 649 c.p.c.), o la revocazione, dell’esecuzione dello stesso.
Inoltre è possibile chiederne revocazione della eventuale sentenza, se la stessa è l’effetto del dolo di una delle parti in danno dell’altra, sulla base di prove riconosciute false ( art. 395 c.p.c.).
Se invece la scrittura, è falsa, e facendone uso, procura a sè o ad altri un vantaggio, a querela di parte ( art. 336 c.p.), si può essere puniti, prevedendo una reclusione da sei mesi a tre anni ( art. 485 c.p.).
E’ altresi punito chi usa la scrittura falsificata, procurando a se o ad altri un vantaggio ( art. 489 c.p.).
Se sulla base di dette scritture private (falsificate), con inganno ( art. 48 c.p.), si induce in errore un pubblico ufficiale, che ricevendo un atto, nell’esercizio delle sue funzioni, attesta falsamente fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità, di ciò, è punito chi ha determinato l’inganno, con la reclusione da uno a sei anni.
La falsità è dichiarata nel dispositivo ( art. 537 c.p.p.), e con la stessa sentenza è ordinata la cancellazione dell’atto ( scrittura privata).
Il reato di falsità in scrittura privata tutela la circolazione dei documenti, e la fiducia che i consociati ripongono in essi ( cass.pen. 3331/00), ma altresì tutela il pregiudizio che si ricollega alle conseguenze, che dall’alterazione della verità, un soggetto sopporta (cass. pen. 1797/84).
Per scrittura privata va inteso quel documento, redatto senza un pubblico ufficiale, nel quale vi è una qualsiasi dichiarazione di volonta e scienza avente rilevanza giuridica ( cass.pen.12877/86).
Ai fini della condotta, rilevante per la configurazione del reato ex. 485, è importante constatare l’uso del documento falso, quale che sia il significato che allo stesso intende attribuire (cass.pen. 26173/03).
L’elemento psicologico dell’attore è nel trarre vantaggio di qualsiasi natura.
La modificazione, l’alterazione, e la falsificazione di firma apocrifa di persona esistente, realizzano il delitto di falsità materiale in scrittura.
Il reato si consuma nel momento in cui si fa uso della stessa scrittura, uscendo dalla sfera di disponibilità dell’agente, essendo irrilevante il verificarsi di un pregiudizio patrimoniale.
Il tentativo è configurabile quando si hanno condotte dirette a concretarne l’uso.
Il delitto di cui all’art. 485 c.p. è punito a querela di parte.
Detta parte può essere anche il soggetto che risenta di un danno in conseguenza dell’uso della scrittua.
Infatti poichè il delitto si configuri, è richiesto oltra la formazione della scrittura, anche l’uso.
I delitti contro la fede pubblica, al contrario del falso in scrittura privata, offendono direttamente e specificamente l’interesse pubblico, costituito dalla tutela della genuità materiale e della veridicità ideologica di certi documenti, e solo di riflesso ledono l’interesse del singolo.
La falsità può essere materiale (art.476-477-478 c.p.), oppure ideologica (art.479-480-481 c.p.), e riguardare atti pubblici, certificati, autoizzazioni, copie autentiche, ma anche scrittura privata collegata funzionalmente ad un atto amministrativo, per effetto dell’inserimento di esso nella relativa pratica, occorrente per il provvedimento finale.
Analizzando il caso in concreto la condotta consistente nel presentare un documento falso come titolo idoneo per la richiesta di emissione di un decreto ingiuntivo configura i presupposti dell’induzione in errore del pubblico ufficiale cui viene richiesto l’atto, con la conseguente responsabilità del soggetto che pone in essere l’inganno mediante il meccanismo di cui all’art. 48 c.p.(Tribunale Genova 13-01-2006).
A TIZIO è facile intuire che possa applicarsi la fattispecie prevista dall’art. 48 c.p., per aver indotto il giudice in errore presentando al giudice, al fine di ottenere ingiunzione di pagamento, due scritture private contenenti riconoscimenti di debito, apparentemente rilasciategli da CAIO, ma risultate integralmente false.
Inoltre l’art. 479 c.p. sanziona penalmente la condotta del pubblico ufficiale che "attesta falsamente fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità", ed appare evidente l’errore del giudice.
In un procedimento civile la verifica della scrittura (art. 221 c.p.c.), è affidata al contraddittorio (art. 2967 c.c.) delle parti e deve essere accertata con sentenza.
La pronuncia di un decreto ingiuntivo sicuramente non attesta fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità (Cass. pen. 40691/08).
Il giudice che li aveva pronunciati aveva soltanto recepito in via del tutto provvisoria quanto aveva esposto TIZIO nei ricorsi proposti ex art. 633 c.p.c., senza aggiungere alcunchè in ordine alla autenticità e veridicità del suo contenuto.
CAIO ha giustamente proposto opposizione avverso il decreto di ingiunzione (art. 645 c.p.c.).
Il giudice non ha attestato nulla falsamente, nell’esercizio delle sue funzioni, ma ha solo provvisoriamente recepito le scritture che TIZIO aveva proposto a fondamento della sua domanda, senza aggiungere nulla sulla autenticita o meno delle scritture.
CAIO ha gli strumenti opportuni in sede civile per far accertare la falsità delle scritture, e opporsi al decreto.
Inoltre a parere dello scrivente non essendo provato che le scritture fossero false, non è ipotizzabile il reato ex 48 cp.
Concludendo a parere dello scrivente, non è applicabile a CAIO, nè l’art. 48 c.p. (per non aver indotto il giudice in errore, non essedoci una sentenza passata in giudicato che accerti la falsità delle scritture), nè tanto meno l’art. 479 c.p.(perchè il giudice non ha attestato nulla falsamente).

Parere legale motivato di diritto civile – detenzione e spaccio di sostanza stupefacente, per uso di gruppo, morte accidentale, non prevedibile, di un acquirente-consumatore.

a cura del dott. Domenico CIRASOLE

La questione giuridica in esame vede MEVIO, spacciatore, nei confronti del quale viene proposta ordinanza di custodia cautelare in carcere, per i reati di cui al D.P.R. n. 309/90 e art. 83 e 564 c.p..
MEVIO risulta dalle informazioni fornite da TIZIO alla Polizia Giudiziaria, che avesse venduto allo stesso n. due dosi d’eroina.
Le due dosi acquistate da TIZIO, erano state usate anche da CAIO e SEMPRONIO, che non conoscevano MEVIO.
CAIO, tossicodipendente, alcolizzato e affetto da disturbi psichici (tanto da assumere psicofarmaci) , accusa malore, dopo l’uso dell’eroina, con conseguente decesso.
La causa della morte fu individuata negli effetti dell’eroina, esaltati dall’etilismo.
Le sostanze stupefacenti rinvenute nell’abitazione di MEVIO dalla polizia giudiziaria sono risultate pure, e non potevano essere di per se letali, salvo uso improprio.
Il bene vita e della incolumità fisica (della vita del soggetto che assume la sostanza stupefacente), trovano tutela nel nostro ordinamento nell’art. 32 Cost. ( La Repubblica tutela la salute, come diritto fondamentale dell’individuo e della collettività ).
Il nostro codice penale prevede delle contravvenzioni per prevenire i delitti contro la vita ( c.p. art. 695-704), sanziona i delitti contro la vita (art. c.p. 575-593), e con legge speciale, (D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309) disciplina l’uso delle sostanze stupefacenti, con attenzione alla prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza.
Se taluno è causa di lesione o morte di altra persona sorge in capo ad egli, una responsabilità per dolo, colpa, o preterintenzione (art. 42 c.p.).
Se a causa di un proprio atto ne deriva un evento diverso da quello voluto dall’agente (art. 83 c.p.), che ne causa la morte come conseguenza (art. 586 c.p.), deriva, che l’agente risponderà sia dell’evento voluto che di quello non voluto secondo le norme sul concorso dei reati (art. 71-84 c.p.), ma le pene previste dagli artt. 589 e 590 c.p. saranno aumentate.
L’art. 586 c.p. ha sollevato delicati problemi interpretativi che attengono prevalentemente al titolo di imputazione dell’evento non voluto.
Ritenuta “norma di chiusura” del sistema penale di tutela dei beni della vita e dell’incolumità fisica, l’art. 586 c.p. disciplina un’ipotesi specifica di aberratio delicti laddove da un fatto preveduto dalla legge come delitto doloso derivino, quale conseguenza non voluta dal reo, la morte o le lesioni di una persona.
Trattasi dunque di quei casi in cui l’agente, nel porre in essere una condotta delittuosa, involontariamente leda anche beni diversi da quelli che intendeva aggredire.
La responsabilità prevista dall’art. 586 c.p. è delimitata da un lato dall’art. 42 c.p., e dall’altro dai principi costituzionali della responsabilità personale (art. 27 Cost. comma 1), e della finalità rieducativa della pena (art. 27 Cost. comma 3).
All’art. 586 c.p. è attribuito natura giuridica di responsabilità oggettiva, ma ha caratteri similari ad altre disposizioni quali: 1) Reati aggravati dall’evento (ad es.: artt. 571, 572, 588, 591, 593 c.p.); 2) Omicidio preterintenzionale disciplinato dall’art. 584 c.p..
Due sono gli elementi specializzanti della norma.
Primo , che l’offesa voluta concreti un delitto doloso e, secondo che l’evento non voluto consista nella morte di una persona.
In tal modo vengono escluse quelle fattispecie in cui l’evento sia già posto a carico dell’agente, secondo un criterio di imputazione soggettiva diverso da quello doloso.
Per quanto riguarda, invece, l’evento ulteriore non voluto, dovrà escludersi la compatibilità con il dolo eventuale od il dolo diretto.
Nella prassi non si è avuta chiarezza quando si è trattato di individuare la detta responsabilità per l’evento ulteriore.
Alcuni ravvisano nell’art. 586 c.p. un’ipotesi di responsabilità oggettiva fondata sulla semplice consequenzialità tra fatto voluto ed evento non voluto.
E’ stato altresì evidenziato come lo stesso tenore letterale dell’art. 586 c.p., limiti l’attenzione al semplice nesso di “derivazione” tra il “fatto” doloso e la morte o le lesioni non volute.
Pertanto esso rende l’interprete esente dalla verifica in concreto, se l’evento ulteriore sia riconducibile ad un errore nell’uso dei mezzi di esecuzione del reato, ovvero ad un’altra qualsiasi causa così come invece richiederebbe l’art. 83 c.p..
La giurisprudenza, ha contribuito a delineare la struttura giuridica dell’art. 586 c.p..
Terreno fertile si è dimostrato il caso di cessione di sostanze stupefacenti da cui derivi, quale conseguenza non voluta dal cedente, la morte dell’acquirente consumatore.
Nel ravvisarvi la responsabilità dello spacciatore si è ritenuto, in alcune decisioni, che dell’evento morte si debba rispondere per colpa consistita nella violazione della legge sugli stupefacenti e per la stessa prevedibilità dell’evento.
Altre pronunce giurisprudenziali si sono invece limitate a ritenere sufficiente l’accertamento del nesso di causalità materiale tra la fornitura illecita e l’evento morte, senza che l’assunzione volontaria della droga da parte del cessionario possa configurarsi quale causa sopravvenuta sufficiente ad interrompere il nesso di causalità tra cessione e morte.
Lo spacciatore dovrà quindi rispondere oltre che della cessione anche della morte dell’assuntore.
Inoltre ciò accadrà anche nel caso in cui la sostanza stupefacente sia stata oggetto di ripetute cessioni sino a giungere al consumatore finale.
Pertanto della morte di costui dovrà rispondere (anche) l’originario fornitore, in quanto le successive cessioni devono ritenersi fattori concausali, dunque inidonei ad interrompere il nesso causale secondo la previsione dell’art. 41, comma 2, c.p..
Lo spacciatore è altresì responsabile per la morte dell’assuntore, anche nel caso di acquisto di sostanze stupefacenti nell’interesse di altri soggetti, con successiva distribuzione al gruppo (c.d. consumo di gruppo Cass., Sez. Unite, 18 luglio 1997, n. 4).
A seguito dei precedenti contrasti giurisprudenziali le sezioni unite in data 29 maggio 2009 con la sentenza n. 22676, hanno acclamato (in merito alla natura ed al criterio di imputazione della responsabilità dell’art. 586 c.p. per la morte o la lesione di una persona come conseguenza non voluta di altro delitto doloso), che nel caso specifico della responsabilità dello spacciatore per l’evento morte non voluto è necessario accertare: 1) il nesso di causalità tra condotta ed evento (cessione e morte, nesso non interrotto da cause eccezionali sopravvenute), 2) la rimproverabilità in concreto della morte in capo allo spacciatore e 3)l’elemento soggettivo (psicologico) della colpa in concreto.
Lo spacciatore deve aver violato regole cautelari di condotta (legge sugli stupefacenti), di prevedibilità ed evitabilità del rischio (sulla base del comportamento che sarebbe stato tenuto da un agente modello intendendo con tale espressione una persona ragionevole dotata di esperienza nell’ambito della cessione ed assunzione di sostanze stupefacenti e, consapevole della natura e dei normali effetti della sostanza che cede) connesso alla carica di pericolosità per i beni della vita e dell’incolumità personale, intrinseca alla consumazione del reato doloso di base.
Anche nel caso di morte o lesioni conseguenti all’assunzione di sostanze stupefacenti, dunque, la responsabilità per questi ulteriori eventi a carico di colui che le abbia illecitamente cedute potrà essere ravvisabile quando sia accertata la sussistenza, da un lato, di un nesso di causalità fra la cessione e l’evento morte o lesioni, non interrotto da fattori eccezionali sopravvenuti, e, dall’altro lato, che l’evento non voluto sia comunque soggettivamente collegabile all’agente, ovvero sia a lui rimproverabile a titolo di colpa in concreto.
Quindi a parere dello scrivente MEVIO può essere accusato del reato di detenzione di sostanze stupefacenti di cui all’art. 73, commi 1 e 5, d.p.R. 309/90 con esclusione della destinazione ad uso personale, vista la quantità ritrovata nell’abitazione.
Inoltre può essere imputato in capo a MEVIO il reato di cessione di sostanza stupefacente, ai sensi dell’art. 73, comma 5, d.p.R. 309/90.
A parere dello scrivente vista l’ultima pronuncia delle sezioni unite sulla questione, a MEVIO non può imputarsi il reato di cui agli artt. 83 e 586 cod. pen., per avere determinato quale conseguenza non voluta la morte di CAIO.
Infatti CAIO pur assumendo psicofarmaci, e alcool, ha volontariamente e a suo rischio fatto uso anche di sostanze stupefacenti.
E’ noto che dette circostanze possono causare malori, e morte della persona.
Pertanto CAIO consapevolmente, facendo anche uso di sostanze stupefacenti, oltre agli psicofarmaci, e alcool, ha previsto, e accettato le conseguenze del malore e della morte.
Conseguenza logica dell’abuso di sostanze stupefacenti (overdose), è lo stato di malore, e il probabile decesso.
Quindi CAIO già tossicodipendente, certamente conosceva, e accettava tutti i rischi, e le conseguenze, correlate all’uso di eroina.
A MEVIO, mancando una circostanza di fatto che dimostri che la morte sia stata causata da colpa in concreto, non può ricollegarsi la morte di CAIO.
Quindi MEVIO può proporre appello alla corte per veder dichiarare l’inefficacia della misura cautelare applicata, e veder ordinare la scarcerazione, se non detenuto per altra causa.

Parere legale motivato di diritto penale. Laparosscopia, consenso informato.

a cura del dott. Domenico CIRASOLE

Il caso in questione vede TIZIA ricoverata nel reparto di ginecologia del suo paese, per completare un iter diagnostico.
Per concludere detto iter diagnostico il dott. CAIO, ginecologo della struttura ospedaliera del paese, ritiene d’eseguire indagini invasive, quindi propone alla signora TIZIA di sottoporsi ad esame diagnostico in laparoscopia.
Il dott. CAIO, dopo aver descritto, l’esame diagnostico, illustrava le possibili complicanze dell’indagine invasiva.
Il dott. CAIO, ricevuto il consenso, sottoponeva la signora TIZIA, al delicato esame di laparoscopia diagnostica, con l’auspicio che detta procedura, si concludesse con una diagnosi certa della patologia di cui TIZIA era affetta.
A seguito della diagnosi certamente il dott. CAIO, avrebbe proposto alla sig. TIZIA le opportune cure, che nella scienza medica si distinguono in farmacologiche e chirurgiche, a seconda della gravità della patologia.
Presumibilmente la sig.ra TIZIA si era rivolta presso il reparto di ginecologia del suo paese, per veder diagnosticare la patologia da cui era affetta, ma anche per veder curare detta patologia.
Presumibilmente la sig.ra TIZIA si è coscientemente affidata al centro di diagnosi e cura che meglio riteneva congruo.
Durante l’esame diagnostico, il dott. CAIO, fatta diagnosi, valutava l’opportunità di procedere alla cura chirurgica della patologia, di cui TIZIA era affetta, e procedeva, senza alcuna interruzione, a intervento di salpingectomia, con relativa asportazione di una tuba ovarica.
L’intervento demolitivo, a parere del dott. CAIO, risultava essere stato una scelta corretta ed obbligata.
L’intervento fu eseguito nel rispetto della lex artis e con competenza superiore alla media.
L’intervento demolitivo eseguito dal dott. CAIO si era concluso con esito fausto; infatti dalla cura chirurgica, era conseguito un oggettivo, e apprezzabile miglioramento delle condizioni di salute, di TIZIA.
L’intervento era riuscito nel suo intento e soprattutto non aveva causato alcun danno o conseguenza lesiva alla sig.ra TIZIA.

La speciale difficoltà della diagnosi aveva indotto il dott. CAIO a proporre la laparoscopia.
La laparoscopia si rende indispensabile per giungere alla diagnosi relativa a sintomi (ad esempio il dolore pelvico cronico) che non si riesce a spiegare con altri metodi di indagine precedentemente eseguiti (ecografia, esami di laboratorio, ecc.).
In questi casi spesso la laparoscopia consente di formulare una diagnosi precisa e al tempo stesso consente di intervenire sulle patologie riscontrate (aderenze, endometriosi, Cisti ovariche, Fibromi uterini, Gravidanza extrauterina ecc.).
Bene aveva fatto il dott. CAIO, ad asportare la salpinge della signora, , ritenendo non opportuno l’interruzione dell’intervento.
La salpingectomia è un intervento chirurgico che consiste nell’asportazione di una o di entrambe le salpingi, o tube uterine, e che viene attuato in caso di processi patologici di varia natura che abbiano colpito le tube senza tuttavia ledere le ovaie.
Questo intervento può essere un’urgenza chirurgica in caso di rottura della salpinge che causa emoperitoneo.
La signora TIZIA in seguito, denuncia il dott. CAIO, per lesioni volontarie.
A motivo della denuncia, TIZIA riferisce di non aver dato alcun consenso al dott. CAIO in merito alle cure.
Infatti il dott. CAIO aveva informato la sig. TIZIA, che sarebbe stata sottoposta a intervento di laparoscopia diagnostica.
Pertanto, mancavano adeguate informazioni sull’intervento, sulle possibili complicanze e conseguenze e il consenso validamente prestato dalla paziente.
Si potrebbe dedurre che già in fase di programmazione della laparoscopia era prevedibile l’asportazione della salpinge, e quindi potrebbe ravvedersi un’omissione da ascrivere, al dott. CAIO, in ragione della elevata prevedibilità dell’intervento chirurgico.
Se il dott. CAIO ipotizzando di asportar la salpinge della sig.ra TIZIA, l’avesse correttamente informata, la stessa, accettando la procedura diagnostica, avrebbe anche esplicitamente dato il consenso alla asportazione in questione.
Quindi ella avrebbe operato una scelta consapevole e volontaria sull’intervento proposto, dando un consenso valido e specifico, che implicitamente avrebbe fatto prevedere una piena fiducia all’equipe di medici della struttura ginecologica del paese.
Soprattutto il dott. CAIO avrebbe dovuto riferire alla signora anche le eventuali alternative ipotizzabili.
Il bene salute (integrità psico-fisica della persona), è un bene costituzionalmente garantito (art. 32 Cost).
In base agli articoli 13 e 32 della Costituzione, ogni persona se pienamente capace di intendere e volere, può rifiutare qualsiasi trattamento terapeutico.
I trattamenti sanitari sono obbligatori nei soli casi espressamente previsti dalla legge.
Infatti essi vengono previsti quando, la salute del singolo, possa arrecare danno alla salute degli altri.
Ovviamente tali trattamenti non devono arrecare danno, ed essere utile alla salute di chi è sottoposto ( Corte Cost. 258/94 ; 118/96).
L’attività medica è preposta-abilitata dallo Stato, alla tutela del bene salute, fermo restando la necessità del consenso debitamente informato del paziente ( Cass. Pen. 35822/2001; Sez. III civ., 15 settembre 2008, n. 23676).

La sentenza della Cass. Pen. 35822/2001 asserisce che la «legittimità in sé dell’attività medica richiede per la sua validità e la sua concreta liceità, in principio, la manifestazione del consenso del paziente, il quale costituisce presupposto di liceità del trattamento medico-chirurgico».
Conclude pertanto che «la mancanza del consenso (opportunamente informato) del malato o la sua invalidità per altre ragioni, determina l’arbitrarietà del trattamento medico-chirurgico e la sua rilevanza penale, in quanto posto in violazione della sfera personale del soggetto e del suo diritto di decidere se permettere interventi estranei sul proprio corpo».
L’antigiuridicità della lesione provocata, sul corpo altrui, indipendentemente dal consenso, può essere esclusa soltanto dalla presenza di cause di giustificazione.
Il consenso del paziente deve obbligatoriamente essere richiesto per ogni atto medico.
Il consenso informato, del paziente deve essere posteriore a informazioni relative ai vantaggi presunti, agli effetti collaterali, e ai possibili trattamenti alternativi.
L’art. 5 della L. 145/01 nel ratificare la convenzione Europea stabilisce che un intervento nel campo della salute non può essere effettuato, se non dopo consenso libero e informato.
In situazioni d’urgenza se non può ricavarsi il suddetto consenso si potrà procedere immediatamente, a qualsiasi intervento indispensabile per la salute.
Il non consenso alle cure mediche deve essere una manifestazione espressa (meglio se scritta), inequivoca, attuale, informata, testimoniata.
Il paziente, per ritener lecito il consenso, deve aver pre-compreso, la propria situazione sanitaria, e il relativo pericolo di vita.
Il consenso del paziente si identifica con il consenso dell’avente diritto di cui all’art. 50 c.p..
Il consenso dell’avente diritto rende lecita l’attività del medico-chirurgo che lede e incide sull’integrità della persona – malato – , senza commettere alcun reato.
Quando manca detto consenso, l’atto del medico diventa illecito penale, diventando lesione personale volontaria, e omicidio preterintenzionale in caso di morte.
Un ultima giurisprudenza ha ritenuto l’attività medica vantaggiosa per coloro che ne beneficiano. (Cass. Pen. S.U. n. 2437 del 18-12-08)
Quindi una prestazione correttamente eseguita, nel rispetto delle leggi mediche non integra reato di lesione personale, per il solo fatto che manchi il preventivo consenso del paziente, essendo comunque derivato un apprezzabile miglioramento delle condizioni di salute della paziente.
Alla luce di detta sentenza, TIZIA ha certamente conseguito un miglioramento delle sue condizioni di salute, oltre all’assenza di danno per la stessa.
Quindi il dott. CAIO pur non informando la paziente, del probabile intervento, ha comunque operato con una condotta psicologica priva di colpa.
Infatti ha voluto evitare che la sig.ra TIZIA si sottoponesse nuovamente al delicato intervento.
La sig.ra TIZIA, informata della procedura diagnostica, ben può aver ipotizzato che a termine di essa, e senza interruzione, potesse conseguire intervento curativo.
Nessuna domanda in merito fu fatta al dott. CAIO, ne tantomeno la sig.ra aveva vietato il dott. CAIO di procedere alle cure.
Quindi si desume che il medico, aveva l’obbligo di curare la sig.ra TIZIA.
Se non avesse proceduto a curare la sig.ra, ad esso poteva ascriversi un reato diverso, omissioni di atti d’ufficio.
Infatti è obbligo del medico diagnosticare, e curare, nel rispetto delle leggi mediche.
Tizio ha operato con un comportamento che và oltre la diligenza media, nel solo interesse della sig.ra TIZIA.
Quindi a parere dello scrivente il dott. CAIO può ben difendersi dalle accuse della sig.ra TIZIA.

Parere legale motivato di diritto civile-querela – ingiuria-assenza della persona offesa all’udienza di conciliazione per ragioni indipendenti alla sua volontà. Dichiarazione del Giudice di Pace di non doversi procedere per remissione tacita di querela.

a cura del dott. Domenico CIRASOLE

Il caso che in questa sede esaminiamo, propone una querela a seguito di ingiuria.
Infatti TIZIO viene ingiuriato da CAIO.
TIZIO offeso da dette ingiurie, presenta regolare e tempestiva querela, cosi come prescritto dal codice di rito, nei confronti di CAIO.
Il Giudice di Pace, a seguito di detta querela, dovendo obbligatoriamente tentare di conciliare la questione tra i due contendenti, dispone la citazione in udienza di TIZIO.
Il giudice avvisa anche TIZIO che qualora non comparisse in udienza, detto comportamento sarebbe stato valutato, come disinteresse a continuare il giudizio.
Infatti detto comportamento sarebbe stato valutato come "remissione tacita della querela".
Purtroppo TIZIO non riusciva a presentarsi in udienza, alla data fissata dal Giudice di Pace, per ragioni indipendenti alla sua volontà.
Il Giudice di Pace, cosi come aveva comunicato precedentemente a TIZIO, pronuncia "sentenza di non doversi procedere nei confronti di CAIO, per remissione di querela, essendovi un difetto di interesse alla prosecuzione del giudizio".
TIZIO non aveva intenzione di interrompere il giudizio nei confronti di CAIO, ma per un mero imprevisto, non ha potuto presenziare l’udienza.
Quindi ritiene ingiusta la sentenza del Giudice di Pace, e vorrebbe comunque continuare, e insistere nell’azione penale contro CAIO.
La questione appena descritta ci permette di affrontare a grandi linee alcuni istituti, la cui comprensione, risulta indispensabili per enucleare le possibilità che TIZIO ha di insistere nell’azione penale contro CAIO.
Dal capo II del codice penale ricaviamo all’ art. 594 un delitto contro l’onore: "l’ingiuria".
La norma precisa che chiunque offende l’onore o il decoro di una persona presente è punito con la reclusione o con la multa.
Continua la norma che alla stessa pena soggiace chi commette il fatto mediante comunicazione telegrafica o telefonica, o con scritti o disegni, diretti alla persona offesa.
Presenta delle circostanze aggravanti quali:
l’offesa sia commessa in presenza di più persone (diffamazione);
l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato.
Di solito il delitto di calunnia assorbe l’ingiuria , tuttavia si ha il concorso di reati se l’incolpazione avvenga alla presenza tanto della vittima, quanto dell’autorità di cui all’art. 368 (C., Sez. V, 2.12.1987).
La norma ha come oggetto giuridico l’onore.
L’onore è il complesso delle condizioni da cui dipende il valore sociale della persona.
Più precisamente è l’insieme delle doti morali (onestà, lealtà, ecc.), intellettuali (intelligenza, istruzione, educazione, ecc.), fisiche (sanità, prestanza, ecc.) e delle altre qualità che concorrono a determinare il pregio dell’individuo nell’ambiente in cui vive.
Ciò che maggiormente conta per l’ordinamento penale sono i due riflessi oggettivo e soggettivo dell’onore stesso e, più in particolare, il sentimento del proprio valore sociale (riflesso soggettivo), nonché la reputazione di cui un soggetto gode nella comunità (riflesso oggettivo).
Occorre, ancora, fare riferimento ai concetti di onore e di reputazione per tracciare una linea distintiva tra i reati di ingiurie e diffamazione.
In particolare, nell’ingiuria è offeso prevalentemente il sentimento del proprio onore, l’opinione soggettiva che il soggetto ha del proprio valore, mentre nella diffamazione è offesa prevalentemente la reputazione intesa come l’opinione sociale dell’onore di una persona.
Il soggetto attivo del reato di ingiuria può essere chiunque.
I soggetti passivi del delitto di ingiurie possano essere tutti, anche gli individui privi della capacità di intendere e di volere, e cioè gli immaturi e gli infermi di mente, nonché enti e società.
Nella norma viene introdotto, il concetto di necessaria idoneità offensiva della condotta.
L’ingiuria consiste, essenzialmente, in una manifestazione di disprezzo e può verificarsi in modi assai diversi come la parola (ingiuria verbale), gli scritti, con atti materiali (ingiuria reale), come gesti sconci, suoni oltraggiosi, sputi, ecc.
La presenza della persona offesa, perchè il delitto si perfezioni, deve trovarsi nello spazio entro il quale può essere percepita l’espressione oltraggiosa, e cioè essere udita la parola o visto l’atto in cui si concreta l’offesa.
L’agente, perchè esista il dolo, nel realizzare volontariamente l’azione, deve essersi reso conto della capacità offensiva delle parole pronunciate, scritte o trasmesse, oppure degli atti compiuti.
In base a tale impostazione sarebbe, dunque, sufficiente il dolo generico.
Da tale azione, il dolo sarebbe escluso dall’animus corrigendi, consulendi, narrandi, defendendi, iocandi.
Il delitto d’ingiuria è punibile a querela della persona offesa (art. 597 c.p.).
La querela deve contenere la volontà che si proceda in ordine ad un fatto previsto come reato.
Per l’ingiuria inoltre è ammessa la citazione a giudizio dinanzi al giudice di pace della persona alla quale il reato è attribuito su ricorso della persona offesa (art.21 D.lgs.274/2000).
Per il reato d’ingiuria l’autorità giudiziaria competente per materia è il giudice di pace (art.4 co.1 a D.lgs. 274/2000), mentre per le circostanze aggravanti l’autorità competente è il tribunale monocratico (art.4 co. 3 D.lgs. 274/2000),
All’art. 27 del D.lgs. 274/2000 è scritto che, il giudice di pace, entro venti giorni dal deposito del ricorso, convoca le parti in udienza con decreto.
Ai successivi articoli 30 e 31 del citato D.lgs. è scritto che :
la mancata comparizione all’udienza del ricorrente o del suo procuratore speciale non dovuta ad impossibilita’ a comparire per caso fortuito o forza maggiore determina l’improcedibilita’ del ricorso (art.30);
In caso di dichiarazione di improcedibilita’ ai sensi dell’articolo 30, comma 1, il ricorrente puo’ presentare istanza di fissazione di nuova udienza se prova che la mancata comparizione e’ stata dovuta a caso fortuito o a forza maggiore (art. 31) ;
L’istanza e’ presentata al giudice di pace entro dieci giorni dalla cessazione del fatto costituente caso fortuito o forza maggiore. Il termine e’ stabilito a pena di decadenza (art. 31) ;
Se accoglie l’istanza, il giudice di pace convoca le parti per una nuova udienza (art. 31) ;
Contro il decreto motivato che respinge la richiesta di fissazione di nuova udienza puo’ essere proposto ricorso al tribunale in composizione monocratica, che decide con ordinanza inoppugnabile (art. 31) .
L’art. 21 d.lg. n. 274/2000 che si avvicina alla querela, ha l’apparenza di «una vera e propria azione penale privata».
Il magistrato della pubblica accusa ha la possibilità — ex art. 25 d.lgs. n. 274/2000 — di modificare «l’addebito formulato nel ricorso al giudice dal difensore dell’offeso» oltre alla facoltà di sostenere che il ricorso è inammissibile o manifestamente infondato.
Il pubblico ministero è quindi coinvolto sin dal momento iniziale del processo.
Si attiva, con il ricorso previsto dall’art. 21 d.lg. n. 274/2000, un iter procedimentale accelerato rispetto a quello della citazione in giudizio da parte della polizia giudiziaria;
Tale scelta legislativa ha in sé ragioni di speditezza e semplificazione processuale.
Il ricorso da parte dell’offeso è esperibile per tutti i reati perseguibili a querela che rientrano nell’ambito di competenza del giudice di pace.
Il ricorso si assimila alla querela quanto agli effetti, lo stesso art. 21, 5° co., d.lgs. n. 274/2000 statuisce che la presentazione del suddetto atto produce gli stessi effetti della proposizione di querela, eliminando entrambi gli atti l’ostacolo all’esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero.
La presentazione del ricorso differisce, invece, dal presupposto processuale quanto alla forma, è infatti previsto per il primo, ai sensi dell’art. 21 d.lgs. n. 274/2000, un meccanismo molto più rigoroso in cui la parte deve rispettare le indicazioni legislative previste a pena di inammissibilità (art. 24 d.lg. n. 274/2000), con la necessità di avvalersi dell’ausilio di un difensore data la difficoltà delle procedure stesse.
Legittimato a proporre il ricorso è la persona offesa (ovvero il suo rappresentante legale), il curatore speciale (l’art. 21, 4° co., d.lg. n. 274/2000 rinvia infatti agli artt. 120, 2° e 3° co., e 121 c.p.) o il legale rappresentante dell’ente, l’atto deve essere sottoscritto e la sottoscrizione deve essere autenticata a pena di inammissibilità dell’atto.
Il ricorso deve contenere una serie di requisiti molto più specifici rispetto a quelli minimi richiesti per la valida proposizione della querela.
L’art. 21 d.lg. n. 274/2000 richiede: l’indicazione del giudice, le generalità del ricorrente, l’indicazione del difensore, l’indicazione delle altre persone offese, le generalità della persona citata a giudizio, la descrizione in forma chiara e precisa del fatto che si addebita con l’indicazione degli articoli di legge che si assumono violati, i documenti di cui si chiede l’acquisizione, l’indicazione delle fonti di prova, la richiesta di fissazione dell’udienza.
Il ricorso immediato al giudice di pace si pone come tertium genus tra la querela e la richiesta di rinvio a giudizio da parte del pubblico ministero, avvicinandosi alla prima quanto agli effetti e al secondo quanto al contenuto e alla funzione che riveste all’interno del processo.
La querela è posta come condizione di procedibilità nel caso previsto dall’art.594 c.p..
Le condizioni di procedibilità sono quegli atti o fatti la cui mancanza impedisce l’instaurazione del processo penale e di conseguenza evita la repressione di un reato.
Ciò significa che queste vincolano l’iniziativa del pubblico ministero.
La querela, nasce come una risposta al rispetto e al soddisfacimento dell’interesse del singolo, come diritto soggettivo della persona offesa dal reato.
Attraverso la querela la persona offesa manifesta la volontà che si proceda in relazione ad un determinato fatto-reato.
La mancanza dell’atto in questione paralizza l’esercizio dell’azione penale.
Mnetre l’assenso della persona offesa all’inizio del processo obbliga il pubblico ministero a valutare la fondatezza della notizia di reato contenuta nella querela al fine di scegliere se esercitare l’azione penale o chiedere l’archiviazione.
La persona offesa è il titolare del diritto di proporre querela.
In sua vece lo può fare anche un procuratore speciale ex art. 336 c.p.p..
Per quanto attiene le forme e il contenuto della procura si ritiene applicabile al caso de quo l’art. 122 c.p.p. con l’ovvia menzione del fatto per il quale si intende procedere.
La querela è una dichiarazione unilaterale recettizia che deve essere resa personalmente dalla persona offesa (dal legale rappresentante o dal curatore speciale) ovvero dal suo procuratore speciale (art. 121 c.p.) al pubblico ministero, o alla polizia giudiziaria.
Tale dichiarazione può essere scritta od orale.
Quella orale va verbalizzata da chi la riceve e sottoscritta dal querelante.
La querela, una volta ricevuta, va trasmessa al pubblico ministero (art. 337, 4° co., c.p.p.).
L’art. 124 c.p. stabilisce un termine di tre mesi per la proposizione della querela che decorrono dal giorno della notizia del fatto che costituisce reato, pena la decadenza dal diritto di proporre querela.
La rinuncia della querela è un negozio giuridico unilaterale, recettizio irrevocabile ed estingue il potere di querela.
La rinuncia può essere espressa o tacita.
La rinuncia espressa è nominata dall’art. 124/2 c.p., e regolata dall’art. 339 c.p.p..
La definizione della rinuncia tacita è data dall’art. 124/3 c.p. secondo il quale «vi è rinuncia tacita quando chi ha facoltà di proporre querela ha compiuto fatti incompatibili con la volontà di querelarsi».
L’art. 339 c.p.p. dispone che la rinuncia può essere fatta personalmente (ovvero dal rappresentante legale) o a mezzo di procuratore speciale, con dichiarazione sottoscritta rilasciata all’interessato o a un suo rappresentante.
La dichiarazione può anche essere fatta oralmente ad un ufficiale della polizia giudiziaria o ad un notaio, i quali dopo aver accertato l’identità del rinunciante, redigono verbale, che deve essere sottoscritto dal dichiarante, pena l’inefficacia dell’atto. La rinuncia sottoposta a termini o a condizioni è inefficace.
La rinuncia tacita, la si ha quando la persona offesa compie atti incompatibili con la volontà di proporre querela (art. 124, 3° co., c.p.).
La remissione della querela è quella dichiarazione attraverso la quale la persona offesa prima che sia emessa sentenza di condanna irrevocabile, revoca la querela già proposta, impedendo il proseguimento dell’azione penale ed estinguendo il reato ex art. 152 c.p..
La remissione, evoca l’idea del perdono
La remissione è regolata dagli artt. 155-155 c.p., e, per quanto attiene agli aspetti formali della rinuncia espressa, dall’art. 340 c.p.p.
Con la remissione, il soggetto «manifesta esplicitamente o implicitamente di annullare gli effetti della presentata querela, estinguendo il reato ed impedendo il proseguimento dell’azione penale».
L’efficacia di giudicato è quella piena.
L’art. 345 c.p.p. che esplica la possibilità di riproporre l’azione penale, non riguarda l’ipotesi della sentenza di non doversi procedere per estinzione del reato a seguito di remissione di querela.
La remissione si applica a tutti i reati perseguibili a querela di parte.
A seguito di remissione vi è pronuncia giurisdizionale di non doversi procedere per essere estinto il reato a seguito di remissione di querela (artt. 129, 531, 442 e 444/2 c.p.p.).
La dichiarazione di remissione può essere processuale o extra-processuale.
Quella processuale (che può essere scritta od orale) è fatta e accettata personalmente o a mezzo di procuratore speciale ex art. 340 c.p.p. con una dichiarazione ricevuta dal giudice che procede.
La remissione extra-processuale può essere altresì espressa o tacita.
Quella espressa può essere ricevuta o dall’autorità procedente o da un ufficiale della polizia giudiziaria che la deve trasmettere immediatamente all’autorità che procede
La remissione (extraprocessuale) tacita si manifesta con un comportamento concludente incompatibili con la volontà di persistere nella querela.
La condotta deve essere certa e non equivoca.
Proprio la caratteristica della inequivoca manifestazione di volontà di rimettere la querela, nel caso di remissione tacita, implica che non si possano configurare tali estremi nella omessa comparizione del querelante all’udienza prevista per il «tentativo di conciliazione» art. 29 D.lgs. 274/2000
In detta udienza vi è la comparizione di querelante e querelato avanti Giudice di Pace, per promuove la conciliazione tra le parti.
Detto tentativo è volto a favorire le remissioni di querela.
La giurisprudenza statuisce che necessità per la remissione tacita, di accertare, che vi siano fatti del querelante, obiettivamente incompatibili con la volontà di querelarsi o di persistere nella istanza di punizione (Cass. pen., sez. I, 23-3-1954); fatti che devono essere non equivoci, obiettivi e concludenti (sez. VI, 22-11-1983); il contrasto tra la querela proposta e i fatti successivi rivelatori di volontà opposta devono essere inconciliabile (sez. V, 16-4-1984 n. 1072); e tale incompatibilità deve palesarsi con chiarezza (sez. V, 6-10-1983,n. 299) e senza possibilità di dubbio (sez. III, 18-12-1963,n. 682).
Ne consegue che è irrilevante ai fini della rimessione tacita la mancata comparizione dell’offeso al dibattimento (sez. I, 12-10-1977,n. 576; sez. VI, 12-4-1986, n. 1121).
Nelle più recenti affermazioni, si è affermato, anche, che manca la necessaria contraddizione con la volontà di querela, potendo l’assenza dipendere anche da una causa indipendente.
L’assenza del querelante, che abbia avuto notifica del decreto di citazione (artt. 429/4 e 558/2 c.p.p.) tale da rassicurare circa la sua conoscenza dell’udienza, e che non abbia in alcun modo giustificato la mancata comparizione (rischiando le sanzioni ex art. 133 c.p.p.), sembra che manifesti in modo sufficientemente inequivoco il proprio disinteresse per la persecuzione penale del querelato.
L’apparenza delle condizioni esposte va però in contrasto con una massima della S.C., che recita: «all’ipotesi di incertezza sull’esistenza di una causa estintiva del reato (nella specie: di una volontà incondizionata di remissione di querela) non è applicabile il principio in dubio pro reo» (Cass. pen., 1-2-1979,n. 1979, conf. sez. IV, 29-10-1985, n.718).
Ma a confutare una tesi contraria vi è il noto art. 531/2 c.p.p. che impone al giudice di dichiarare di non doversi procedere nei confronti dell’imputato anche «quando vi è dubbio sull’esistenza di una causa di estinzione del reato».
Quando un comportamento del querelante faccia sorgere quanto meno il ragionevole dubbio in ordine alla permanenza, in capo allo stesso, della seria volontà di ottenere la punizione del querelato, ne discende — in presenza di accettazione espressa o tacita della remissione da parte del querelato — il dubbio sulla causa estintiva, con la conseguenza di cui all’art. 531 c.p.p.(dichiarazione di estinzione del reato).
Presupposto di validità della remissione è l’accettazione della stessa da parte del querelato, che potrà così scegliere tra il perdono del querelante o la prosecuzione dell’iter processuale al fine di ottenere una pronuncia di assoluzione.
Il querelato può «ricusare» la remissione tacitamente o espressamente ex art. 155 c.p..
La «condanna del querelante alle spese ed ai danni» è regolata dall’art. 427 c.p.p. relativo alla sentenza di non luogo a procedere emessa in seguito all’udienza preliminare.
In senso parzialmente differente a quanto già detto si pone la questione in relazione al procedimento dinanzi al Giudice di pace, data la previsione di cui all’art. 28, d.lg. n. 274 del 2000 secondo la quale la mancata comparizione della persona offesa equivale a remissione della querela.
Tale disposizione troverebbe applicazione tuttavia solamente nel caso in cui sia stato presentato ricorso immediato al giudice, ai sensi dell’art. 21.
In quanto la mancata comparizione si concreta in un comportamento incompatibile con la volontà di persistere nella querela e, quindi, nella richiesta di punizione.
Nell’ipotesi, invece, in cui la citazione a giudizio sia disposta dalla polizia giudiziaria, ex art. 20, a seguito di presentazione di denuncia-querela, troverebbero applicazione i principi generali in tema di remissione tacita di querela (C., Sez. V, 6.12.2004; C., Sez. V, 24.2.2004).
A parere dello scrivente in ordine al reato di diffamazione, estinto per remissione tacita di querela, a causa della mancata comparizione del sig. CAIO all’udienza dibattimentale, che faceva presumere il venir meno della volontà di punizione della stessa, si osserva, che la mancata comparizione del querelante non è significativa dell’intento di recedere dall’istanza di punizione.
A detto comportamento la legge non riconnette alcun effetto.
L’assenza in questione, trattasi di comportamenti omissivi, improduttivi di qualsiasi effetto sulla procedibilità dell’azione penale (Cass. Sez. 4^, 01.02.2004, n. 5815).
La comunicazione notificata, a CAIO, che la sua assenza sarà interpretata come remissione tacita di querela, non può costituire espressione dell’intento di remissione; nè, d’altro canto, il querelante ha l’obbligo di comparire e, comunque, la legge non ricollega la predetta conseguenza alla sua assenza (Cass. Sez. 5^, 15.02.2005, n. 12861).
Infatti la S.C. stabilisce che non si ha remissione tacita della querela nel caso di omessa comparizione dell’offeso dal reato nel processo penale, trattandosi di comportamento omissivo, improduttivo di qualsiasi effetto sulla procedibilità dell’azione penale.
Nè tantomeno alla omessa comparizione può attribuirsi l’anzidetto valore, previamente notificando alla persona offesa l’avvertimento che la sua assenza sarebbe interpretata come remissione tacita della querela, posto che questa, che è solo extraprocessuale, non può essere integrata da un comportamento processuale. (Cass. pen., Sez. V, 12/12/2005, n.6771).
Non si ignora l’esistenza di una precedente sentenza di Cassazione penale che (Cass. 27-8-01 n. 31963 RV. 219714) ha ravvisato la tacita remissione della querela in situazione analoga a quella in esame.
Ma a parere dello scrivente si ritiene di aderire al contrario insegnamento giurisprudenziale (Cass. 19-7-00 n. 08372) e ciò in base alle seguenti ragioni.
La remissione della querela secondo l’art. 152 c.p. può essere processuale o extraprocessuale.
Quest’ultima può essere tacita.
Ne consegue che un comportamento processuale non può essere interpretato come espressione dell’intento di remissione dell’istanza punitiva.
Inoltre secondo i principi generali in tema di manifestazione della volontà, il silenzio ed in generale un atteggiamento meramente omissivo assumono valenza di condotta concludente solo se il soggetto che li attua ha l’obbligo o l’onere di esprimersi e di agire onde evitare determinate conseguenze.
La mancata presentazione del querelante al dibattimento non costituisce comportamento significativo della di lui volontà di rimettere la querela.
Trattasi di una scelta processuale.
Detta volontà non è desumibile da mere omissioni processuali, che possono derivare da circostanze contingenti.
Si ribadisce che il querelante non ha l’obbligo di comparire, e la legge non ricollega alla sua assenza la suddetta conseguenza (Cass. 29-10-97 n. 009688; Cass. 6-2-98 n. 01452; Cass. 13-1-00 n. 05191).
Va precisato che il giudice non può desumere che un comportamento diventi, processualmente vincolante a seguito di un obbligo imposto all’interessato, senza alcun riferimento normativo.
A tal proposito precisa la corte"…In tema di querela, l’omessa comparizione del querelante – nonostante l’avviso previamente notificatogli con l’avvertimento che la sua assenza sarebbe stata interpretata come remissione tacita della querela – all’udienza dinanzi al giudice di pace, non integra gli estremi della remissione tacita di cui all’art. 152 cod. pen., la quale è prevista solo con riguardo alla remissione extraprocessuale, con la conseguenza che un comportamento processuale non può costituire espressione dell’intento di remissione dell’istanza punitiva; d’altro canto, il querelante non ha l’obbligo di comparire e, comunque, la legge non ricollega alla sua assenza la predetta conseguenza. (Cass. pen., Sez. V, 15/02/2005, n.12861)….".
Osservando una sentenza della Suprema Corte, del 2005, ha precisato che la mancata comparizione, anche ripetuta, del querelante all’udienza non costituisce un fatto incompatibile con la volontà di persistere nella querela.
Infatti ben può la mancata comparizione essa dipendere anche da una causa indipendente dalla volontà dell’offeso e comunque da ragioni che nulla hanno a che vedere con la rinuncia alla punizione del querelato.
Argomentando da norma analoga, si considera il caso di mancata comparizione della parte lesa
Il querelante che abbia introdotto il giudizio dinanzi al Giudice di pace con ricorso, che non presenzia l’udienza, nonstante l’ammonimento del giudice, è sottoposto alla sanzione della improcedibilità.
Detta sanzione è stata stabilita esplicitamente dal Legislatore.
Tale ipotesi ha efficacia soltanto su iniziativa privata, tanto è vero che nella ipotesi prevista dall’articolo 20 del decreto legislativo 274/2000 – giudizio promosso da ufficiale di PG e non dal privato – la sanzione della improcedibilità per mancata comparizione è stata esclusa, vigendo in tal caso le regole ordinarie e generali previste dall’articolo 152 c.p.(Cass. pen., Sez. V, 25/01/2005, n.34089).
La giurisprudenza, cui ha fatto presumibilmente riferimento il Giudice di Pace, nel decidere il comportamento omissivo di CAIO, si poneva in contrasto con altra precedente.
Il contrasto fu definitivamente superato da costanti e conformi decisioni della S.C. (Cass. Pen. n. 15093/04; 12861/05, 6771/06 ).
Queste sentenze, affermano che "la mancata comparizione della persona offesa in udienza costituisce manifestazione di una sua facoltà processuale.
Come tale non può essere valutata come comportamento extraprocessuale significativo della volontà inespressa di remissione di querela".
Dette sentenze pongono distinzione tra l’ipotesi in cui il processo sia stato promosso dall’offeso con ricorso immediato al Giudice di Pace D.Lgs. n. 274 del 2000, ex artt. 21 e 28, e quella in cui si procede come d’ordinario solo per querela della persona offesa, che fa capo all’art. 152 c.p..
La Corte ricorda che la disciplina del procedimento del Giudice di Pace (D.Lgs. n. 274 del 2000, art. 2), è dettata dal Codice Procedurale che, per la remissione di querela, si riferisce alla norma sostanziale dell’art. 152 c.p..
Ne segue che non è possibile estendere la norma di carattere eccezionale, di cui all’art. 28(D.Lgs. n. 274 del 2000), ai casi in essa non previsti.
Infatti la scelta della persona offesa di proporre querela, e non anche di presentare ricorso immediato al Giudice di Pace, impedisce di subordinare la valutazione dei suoi successivi comportamenti all’iniziativa di conciliazione.
Pertanto se il Giudice di Pace la invita per il tentativo di conciliazione a comparire in udienza, la sua mancata comparizione assume il senso evidente d’indisponibilità a revocare la manifestata volontà di punizione.
A parere dello scrivente a nulla rileva chè il Giudice abbia prescritto nell’invito che la sua assenza sarà intesa quale remissione tacita di querela.
Una lettura attenta della massima in riportata in sequito, appare chiarificatoria e conclusiva.
Essa chiarisce ogni ulteriore dubbio:"……"Nel procedimento dinanzi al giudice di pace, la scelta della persona offesa di proporre querela, e non di presentare ricorso immediato al giudice, impedisce di subordinare la valutazione dei suoi successivi comportamenti all’iniziativa di conciliazione. Ne consegue che, se quest’ultima viene attivata, la mancata comparizione del querelante all’udienza assume l’inequivocabile valore di un’indisponibilità a revocare la manifestata volontà di punizione, a nulla rilevando che il giudice abbia significato nell’invito a comparire che l’eventuale assenza sarebbe stata da lui intesa come remissione tacita di querela, non potendo egli attribuire valenza extraprocessuale a un comportamento che ha valenza solo per il processo. (Cass. pen., Sez. V, 02/07/2007, n.28573)…."