Filosofo americano, teorico del neo-contrattualismo che ha studiato alla Cornell University e a Oxford conseguendo la docenza alla Harvard University.
Egli ha scritto Giustizia come equità (1958), Giustizia retributiva (1967) e Una teoria della giustizia (1971).
Si tratta di una riformulazione della teoria del contratto sociale.
Egli oppone all’utilitarismo, fino ad allora dominante nella filosofia politica e morale anglosassone, il modello del contratto sociale del pensiero di Locke, Rousseau e Kant.
Secondo Rawls John il modello contrattuale è il più utile a definire il concetto di giustizia.
Gli individui, liberi e razionali, che compongono la società adotteranno di comune accordo un proprio concetto di giustizia in una situazione primordiale in cui tutti siano sforniti di informazioni circa la propria identità personale (sesso, generazione di appartenenza, doti naturali, posizione sociale).
Il principio del maximin, della teoria della scelta razionale, impone di scegliere i migliori tra gli esiti peggiori.
In tal modo si assicura alla società un assetto stabile ed efficiente, perché i beni fondamentali come la libertà e il reddito sono distribuiti in maniera eguale.
Le disuguaglianze sono permesse solo se favoriscono i soggetti meno avvantaggiati socialmente e nessuno ha motivo di lamentarsi della posizione che occupa nella società.
Le posizioni al vertice della scala sociale sono disponibili a tutti.
Il pensiero di Rawls John si è molto diffuso anche se ha ricevuto delle critiche, soprattutto da parte dei teorici comunitari.
Essi consideravano la sua costruzione eccessivamente teorica.
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Rapporto giuridico (teoria del) (Legal Value (theory))
Si tratta di un gruppo di concezioni che individuano in ogni gruppo e rapporto sociale stabile la fonte del diritto.
Il rapporto giuridico è al centro del diritto secondo tale teoria.
La norma giuridica non ha il carattere di elemento centrale e qualificante dei fenomeni giuridici.
In tal modo questa teoria è in contrasto col normativismo e si avvicina, al contrario, alla giurisprudenza sociologica e alla teoria istituzionale del diritto.
Si sostiene però che essa incorra nella fallacia naturalistica.
Infatti presuppone il giudizio di valore secondo cui è bene che le regole adottate stabilmente e diffusamente nella società siano riconosciute come giuridiche.
I rapporti sociali sono spesso tra loro conflittuali o confusi pertanto è necessaria una selezione (con criteri politici e giuridici) per adottare alcuni piuttosto che altri.
Ragion di Stato (Reason of State)
Teoria sviluppatasi sulla base del pensiero politico rinascimentale e della Controriforma, alla fine del ’500. Assai diffusa in Italia, si propagò poi nel resto d’Europa.
Sul significato teorico e pratico da attribuire alla locuzione (—) si discusse vivacemente, sin dalla metà del sec. XVI. Soprattutto, nella «ratio» dello Stato venne fatto confluire il concetto di interesse, ossia di utile politico. Nell’interesse così inteso si identificò il criterio che doveva guidare il principe nelle sue decisioni e la norma a cui dovevano conformarsi le azioni di governo. La (—) può essere considerata come lo studio delle condizioni dell’esistenza dello Stato, da cui ebbe origine il processo di astrazione e di distinzione dello Stato stesso da coloro (i governanti) che lo impersonano.
La trattatistica sulla (—) prese le mosse dall’ampio dibattito aperto da Il Principe di Machiavelli e dalla rinnovata fortuna di Tacito durante il XVI sec.
La ricerca si indirizzò verso l’esplorazione del rapporto tra politica e morale.
La prima esposizione sistematica della teoria della (—) si deve all’ecclesiastico piemontese Giovanni Botero, che nell’opera Della Ragione di Stato (1589) intese ripristinare i valori dell’etica senza distrarre lo Stato dalla logica utilitaria. Egli considerava la (—) una «notizia di mezzi atti a fondare, conservare ed ampliare un dominio». Più precisamente, Botero riteneva che tra il conservare e l’ampliare uno Stato sicuramente fosse opera più grande il conservare, dato che per ampliare occorreva la forza che è comune a molti, mentre per la conservazione occorreva la sapienza, che è prerogativa di pochi. Egli riconosceva nella religione un elemento essenziale per la conservazione e il rafforzamento dello Stato. In tal modo faceva coincidere l’interesse religioso con quello politico. Tuttavia, per quanto Botero avesse cercato di affievolire il concetto di (—) e di adattarlo alle esigenze della Chiesa e della morale, non poteva nascondere che, in ultima analisi, ogni azione politica è mossa da un interesse personale, per cui egli affermava che la (—) è ragione di interesse.
Anche il pensatore politico seicentesco Ludovico Zuccolo, nel saggio Della Ragion di Stato (1621), sostenne che la (—) è la conoscenza e l’uso dei mezzi per creare e mantenere una determinata forma di governo. Agire in conformità di tale dottrina significava ricercare ciò che è utile alla conservazione dello Stato e del suo regime politico. Egli sosteneva che non rientravano nella (—) quei provvedimenti politici adottati dai governanti nel loro personale interesse: dunque, era necessario operare una differenza tra la persona privata del principe e quella dello Stato.
Alla (—) Zuccolo assegnava solo il compito di difendere lo Stato e non anche l’interesse del principe. La (—) era giusta e prudente se volta ad assicurare uno Stato «buono», al contrario sarebbe stata ingiusta se diretta a mantenere uno Stato iniquo.
In questo gruppo di teorici si inserì Ludovico Séttala, anch’egli autore di una Ragion di Stato (1627) in sette libri. Le sue tematiche talvolta si avvicinano a quelle di Botero, ma è soprattutto ai tacitisti che egli si accosta quando raccomanda la lettura di Tacito per poter apprendere la «saggezza di Tiberio» il quale in nome della (—) deportava gli ebrei e la «saggezza di Nerone» che, in nome della stessa bruciava i cristiani. Séttala non individua il fine della (—) nel bene pubblico, ma nell’interesse del principe, e distingue due diversi generi di norme riguardanti la (—): la prima concerneva la sicurezza personale dei governanti, la seconda invece mirava alla salvaguardia della posizione politica esistente. Per il mantenimento del benessere dello Stato, il medico milanese consigliava una politica basata sulla prudenza, che mirasse a togliere ogni origine di malcontento e a creare un’atmosfera favorevole a chi governava.
Non diversamente dagli altri teorici, Séttala poneva la conservazione al primo posto tra i compiti della (—).
La (—) accolse anche motivi di modernità, come l’interesse per i problemi economici e finanziari, così come l’interesse per i problemi demografici e di politica estera.
L’esplorazione di questo tema si esaurì in Italia verso la metà del ‘600, mentre sarebbe rivissuta, sotto nuove e più complesse forme in Francia e in Germania, sotto la suggestione della politica di Richelieu e delle drammatiche vicende della guerra dei trent’anni (1618-1648).
Croce, Benedetto (1866 – 1952)
Storico e filosofo idealista. I suoi primi scritti furono di storia antica, ma il marxista Antonio Labriola destò in lui l’interesse per il filosofo ed economista tedesco, guidandolo verso la stesura del saggio Materialismo storico ed economia di Karl Marx (1900).
Sebbene (—) sia solitamente considerato un hegeliano, furono i neokantiani (soprattutto Herbart e Windelband, nonché il critico letterario Francesco de Sanctis) ad ispirare il suo idealismo realista e la critica dal titolo Cosa vive e cosa è morto nella filosofia di Hegel (1906). Il suo principale contributo fu alla filosofia estetica e alla storia. La sua Estetica (1902) ed il giornale La Critica (1903-1944) produssero un profondo impatto sulla cultura italiana. Il suo collaboratore Giovanni Gentile lo indirizzò verso l’adozione delle dottrine dello storicismo assoluto. Una tesi centrale in tutti i suoi lavori pubblicati dopo il 1909 venne sviluppata negli ultimi tre volumi della Filosofia dello Spirito: la Logica (1909, II edizione), la Filosofia della Pratica (1909) e la Teoria e Storia della Storiografia (1915), nonché nello studio su La Filosofia di Gian Battista Vico (1911).
Si oppose al fascismo ed abbozzò la Protesta contro il «Manifesto dei Fascisti intellettuali» (1925), in opposizione a Gentile.
(—) convertì il suo storicismo in una religione della libertà, scrivendo alcuni libri storici, tra cui una Storia d’Italia 1871-1915 (1927) ed una Storia d’Europa nel XIX secolo (1932), in cui è illustrata la sua concezione etico-politica della civiltà umana, meglio espressa nella Storia come storia della Libertà (1938). Secondo (—) la Storia è la manifestazione del progresso spirituale dell’uomo; in essa, pensiero e azione si correlano, perché l’azione presuppone la conoscenza e la conoscenza del passato è finalizzata all’azione (contemporaneità della Storia). Lo storicismo di (—) è assoluto, perché volto a considerare come unica Verità conoscibile quella che è storicamente verificabile e come unico luogo per la vita degli uomini quello definito dalla dimensione storica.
La Filosofia dello Spirito fu intesa come una religione laica, capace di abbracciare tutti gli aspetti della vita umana. L’attività dello Spirito si distingue in teorica e pratica: la prima si suddivide in intuito e pensiero e la seconda in volontà economica e morale. Tali suddivisioni sono relazionate in modo che pensiero e volontà morale implicano l’intuito e la volontà economica, ma non viceversa. Questi quattro momenti distinti dell’attività dello Spirito corrispondono ai concetti puri di Bello, Vero, Utile e Buono. Fino a quando questi concetti sono puri, mancano di un determinato contenuto, al di là di quello che viene fornito dallo sviluppo dialettico dello Spirito attraverso l’azione dell’uomo nella storia. Il Bello deriva dalla creazione di opere d’arte, l’Utile dagli atti politici ed economici e ognuno fornisce il materiale per i concetti di Vero e di Buono.
(—) elaborò la concezione secondo cui la moralità concreta è tutta in quelli che governano. Egli affermava la necessità di considerare lo Stato per quello che è: forma elementare e angusta della vita pratica, dalla quale la vita morale esce fuori e trabocca, spargendosi in rivoli copiosi e fecondi, tali da disfare e rifare in perpetuo la vita politica stessa e gli Stati, ossia costringendoli a rinnovarsi in modo conforme alle esigenze che essa pone. Ridimensionando la concezione hegeliana (e tutta la concezione etica dello Stato, compreso quella fascista) (—) elaborò una concezione politica dello Stato liberale, come semplice strumento dei diritti dei cittadini. Questi realizzano la propria libertà nella sfera etica, da cui quella politica è distinta (la politica è un momento della forma economica dello Spirito). Fu la riverenza con cui (—) guardò alla libertà dei cittadini, rispetto allo Stato, che fece configurare il suo pensiero come una religione della libertà. (—) identificava la filosofia con la storia, concepita come un sistema progressivo in cui gli antecedenti sistemi di filosofia vi sono incorporati e superati dai sistemi presenti.
Tutto il pensiero è giudizio storico e l’intera storia è storia contemporanea, perché il passato è vissuto e rielaborato nello Spirito e di qui nella presente esperienza dell’umanità.
Sebbene la filosofia di Hegel fosse sorretta da un implicito fine interno alla storia, (—) ritenne impossibile pronunciarsi su di essa. Ciò comportava due diverse conseguenze pratiche: prima di tutto, un soggettivismo che informa tutti gli atti ed i pensieri del presente con uguale forza; in secondo luogo, un abbandono dei doveri che lo Spirito ci ha attribuito.
Un dilemma si sommò nell’hegeliano aforisma «ciò che è reale è razionale, ciò che è razionale è reale», che fu la pietra miliare dello storicismo crociano. Poiché l’«attualismo» di Gentile sviluppò la prima parte di esso, (—) insistette sul moderato conservatorismo della seconda, esprimendolo in termini semi-teologici, ravvisabili ad esempio nel riferimento alla fede nell’attività misteriosa della divina Provvidenza. Ad ogni modo, venti anni di regime fascista produssero in (—) una graduale revisione delle proprie idee e negli Studi su Hegel (1952) egli appariva ormai riallacciato alle posizioni neokantiane della sua giovinezza, asserendo il dualismo tra reale e razionale.
Dopo aver invano accarezzato l’idea di una possibile conversione del fascismo in Stato liberale, (—) si avvide dell’irrealizzabilità di tale speranza, costantemente diede prova nei suoi scritti di autonomia di giudizio e di dignità morale.