Azione di recupero dell’ Inps di tutte le rate di pensione di reversibilità versate, successivamente alla morte del coniuge, e al nuovo matrimonio religioso, trascritto tardivamente nei registri dello Stato civile per volontà dei coniugi.

a cura del dott. Domenico CIRASOLE

La questione giuridica in esame vede interessata la sig.ra CAIA, quale coniuge superstite (vedova) che aveva contratto nuove nozze celebrando solo il rito religioso e riuscendo, perciò a mantenere la pensione di reversibilità.
La signora CAIA dopo anni decide di provvedere alla trascrizione nei registri dello Stato civile del matrimonio religioso.
La conseguenza è stata la perdita del diritto alla reversibilità, diritto perso sin dal momento della trascrizione del matrimonio religioso, con conseguente perdita del diritto alla pensione di reversibilità sin dalla celebrazione dello stesso rito religioso.
In virtù di detto principio, l’ Inps ha provveduto al recupero di tutte le rate di pensione di reversibilità versate alla sig.ra CAIA, successivamente al matrimonio religioso, che poi è stato trascritto nei registri dello Stato civile.
Detta richiesta di recupero delle somme versate è giustificata dalla L. 25 marzo 1985, n. 121, art. 8, comma 5 che dispone: “Il matrimonio ha effetti civili dal momento della celebrazione, anche se l’ufficiale dello stato civile, per qualsiasi ragione, abbia effettuato la trascrizione oltre il termine prescritto”.
Inoltre il successivo comma 6 della legge stabilisce: “La trascrizione può essere effettuata anche posteriormente su richiesta dei due contraenti, o anche di uno di essi, con la conoscenza e senza l’opposizione dell’altro, sempre che entrambi abbiano conservato ininterrottamente lo stato libero dal momento della celebrazione a quello della richiesta di trascrizione, e senza pregiudizio dei diritti legittimamente acquisiti dai terzi”.
Il principio che traspare dalle norme citate è che il matrimonio religioso a seguito della trascrizione ha effetti civili dal momento della celebrazione.
Detto principio non soffre deroga in caso di trascrizione tardiva, con applicazione della retroattività degli effetti civili, al momento del matrimonio religioso, sia nei confronti dei coniugi che dei terzi, ovvero a tutti gli effetti.
La retroattività degli effetti della trascrizione tardiva determina a) il venir meno dello stato vedovile dal momento della celebrazione del matrimonio religioso, b) il venir meno del diritto del coniuge superstite alla pensione di reversibilità del coniuge defunto, poiché, ai sensi del D.L.Lgt. 18 gennaio 1945, n. 39, art. 3 il diritto alla pensione di reversibilità cessa per sopravvenuto matrimonio.
Affermati questi due principi sembra facile comprendere la pretesa dell’Inps, e l’intenzione di denunciare, da parte della Sig.ra CAIA, per la violazione della L. 25 marzo 1985, n. 121, art. 8, comma 1 e del D.L.Lgt. 18 gennaio 1945, n. 39.
Difatti una volta che lo stato vedovile è venuto meno, viene meno anche il diritto alla pensione di reversibilità, dal momento in cui ha effetto la celebrazione del nuovo matrimonio.
Tale momento, per effetto della retroattività della trascrizione, retroagisce ai momento della celebrazione, sicchè da questo momento la pensione non è più dovuta.
Ciò legittima l’Inps, ad agire per ottenere la restituzione delle somme indebitamente versate alla sig. CAIA (Corte Cass. sez. lav. 21 aprile 2010 n. 9464).

Parere legale motivato. Reato di concussione, illecita alterazione del prezzo degli appalti e del mercato, e presenza di danni non patrimoniali, per la lesione dell’immagine dell’Ente pubblico.

a cura del dott. Domenico CIRASOLE

La questione giuridica in esame vede interessata l’AZIENDA PUBBLICA G&G, e la società VENERE s.p.a. .

In particolare vede interessati i signori CAIO e SEMPRONIO rispettivamente amministratore delegato e socio della predetta società VENERE s.p.a. che avevano corrisposto tangenti ad amministratori dell’AZIENDA PUBBLICA G&G per ottenere l’aggiudicazione di appalti pubblici.

In detto caso sembra evidente la possibilità da parte dell’ AZIENDA PUBBLICA G&G di chiedere il risarcimento dei danni patrimoniali per l’illecita alterazione del prezzo degli appalti e del relativo mercato, e non patrimoniali, per la lesione dell’immagine dell’Ente pubblico.

Ma sembra ulteriormente evidente che vi sia stato concorso dei dipendenti dell’AZIENDA PUBBLICA G&G nella causazione del danno.

La predetta società VENERE s.p.a. chiede inoltre all’ AZIENDA PUBBLICA G&G di pagare i lavori di ristrutturazione per la stessa eseguiti.

Ma dette pretese non possono essere accolte, difatti l’elusìone delle garanzie di sistema a presidio dell’interesse pubblico (nella specie aggiudicazione dell’appalto a licitazione privata) prescritte dalla legge per l’individuazione del contraente privato più affidabile e più tecnicamente organizzato per l’espletamento dei lavori, comporta la nullità del contratto per contrasto con le relative norme inderogabili (L. n. 14 del 1973, L. n. 584 del 1977, L. n. 741 del 1981, L. n. 687 del 1984).

Ulteriormente la conclusione di un contratto le cui reciproche prestazioni sono illecite e la cui condotta è assolutamente vietata alle parti e penalmente sanzionata con la nullità del contratto, onde impedire che dalla commissione del reato derivino ulteriori conseguenze (cass. del 16 febbraio 2010 n. 3672).

Dunque va dichiarato nullo il contratto di appalto in esame e conseguentemente non dovuti, dell’ AZIENDA PUBBLICA G&G, i compensi.

CAIO e SEMPRONIO inseriti nell’organizzazione della società, avevano da molti anni assunto un ruolo determinante nelle trattative per favorire l’aggiudicazione degli appalti alla stessa società VENERE s.p.a, che della loro opera si era perciò avvalsa e alla quale conseguentemente dovevano esser imputate le conseguenze giuridiche, dunque è improponibile la richiesta dei compensi per le prestazioni eseguite.

Dunque ricapitolando nella fattispecie vi è una responsabilità contrattuale, extracontrattuale con danni risarcibili patrimoniali e non patrimoniali.

CAIO e SEMPRONIO nell’arco di dieci anni avevano versato tangenti nell’interesse della società VENERE s.p.a, a funzionari amministratori di enti pubblici per ottenere l’aggiudicazione dei lavori alterando le gare a licitazione privata a favore della predetta società, e perciò sussisteva il reato di corruzione e non di concussione, in mancanza di prova di pressioni degli agenti pubblici sulla società.

Ma al contrario la presenza di dette pressioni degli agenti capovolgono la qualificazione dei fatti come reato di concussione anzichè di corruzione.

Infatti nella fattispecie da tempo i pubblici amministratori abusavano delle loro cariche e poteri avanzando pretese e richieste in danno degli imprenditori.

Non solo CAIO e SEMPRONIO non avevano mai tentato di corrompere i funzionari, ma al contrario erano questi che avanzavano pretese e richieste.

Da ciò si evince la configurabilità del reato di concussione cd. "ambientale" .

E’ sufficiente l’accertamento di una situazione ambientale in cui sia diffuso il mercanteggiamento dei pubblici poteri e la pratica della cd. "tangente" , nonché prove di una situazione caratterizzata dalla volontà prevaricatrice e condizionante in capo al pubblico ufficiale che sì estrinsechi in una condotta di costrizione o di induzione qualificata, ossia prodotta con l’abuso della qualità o dei poteri, causa della dazione indebita, sì da poter configurare il diverso reato di concussione (cass. del 16 febbraio 2010 n. 3672).

Di detti fatti dovrebbe rispondere anche la società VENERE s.p.a ai sensi dell’art. 2049 c.c., così come in relazione all’art. 28 Cost. sussisteva la responsabilità dell’ente pubblico per fatto del proprio dipendente nell’espletamento delle sue mansioni.

In altre parole nella fattispecie in esame vi è un pactum sceleris (art. 318 c.p.) tra funzionari pubblici e privati, tale concorso dei corresponsabili era da ritenere in pari misura sia per il danno patrimoniale che per quello morale.

Ma al contrario di quanto appena affermato la cass. del 16 febbraio 2010 n. 3672 in ambito di responsabilità penale, afferma che la corruzione del pubblico funzionario, comporta la responsabilità dell’amministrazione ai sensi dell’art. 28 Cost. nei confronti dei terzi, e non a favore dei danneggianti corruttori, come diminuente del loro concorso causale.

L’equiparazione tra agenti privati e pubblici è frutto di travisamento perchè la responsabilità della P.A. per fatto dei propri dipendenti è a favore dei terzi, non dei danneggianti.

Le tangenti, afferma la cassazione, hanno violato soltanto il diritto della P.A. al buon andamento dell’amministrazione.

In ambito di responsabilità civile il giudice deve indagare, in ordine all’eventuale cooperazione attiva dello stesso ente danneggiato.

Infatti in ambito civile (responsabilità extracontrattuale) a differenza dell’ambito penale la condotta, anche dolosa, del suo funzionario od impiegato comporta la conseguente riduzione della responsabilità civile del danneggiante ai sensi dell’art. 1227 c.c., comma 1, – richiamato dall’art. 2056 cod. civ. (Cass. 564/2005, 4954/2007) – ove i comportamenti dell’uno e dell’altro abbiano determinato una situazione tale che, senza uno di essi, l’evento non si sarebbe verificato (art. 40 cod. pen.).

Nella fattispecie in esame, in tema di responsabilità della P.A. per fatto lesivo cagionato dall’operato dei suoi dipendenti, al risarcimento dei danni non patrimoniali e tenuto non solo il dipendente ma anche, in solido, il responsabile civile. Pertanto l’ente pubblico committente di un appalto risponde direttamente della condotta dei suoi organi che partecipano alla procedura dell’aggiudicazione ed approvazione del contratto (cass. del 16 febbraio 2010 n. 3672).

La fattispecie in esame ci consente di ribadire inoltre l’esistenza della giurisdizione in materia di contabilità pubblica (comprensiva sia dei giudizi di conto che di quelli sulla responsabilità amministrativa patrimoniale) – sussistente, a norma dell’art. 103 Cost., comma 2, nei confronti di dipendenti di enti che maneggiano pubblico danaro (CASS. S.U. 3375/1989, 3970/1993, 12708/1998, 1945/2002) – è indipendente dalla giurisdizione civile per il risarcimento dei danni derivanti da responsabilità contrattuale ed extracontrattuale anche quando il fatto materiale sia il medesimo (S.U. 5943/1993, 22277/2004, 20476/2005).

Infatti nei confronti dell’amministratore o impiegato pubblico, è rimessa all’iniziativa del P.G. della Corte dei Conti, tutore dell’interesse generale al corretto esercizio da parte dei pubblici dipendenti delle funzioni e del servizio loro affidati (responsabilità amministrativa patrimoniale di natura contrattuale), la volontà di agire a tutela dell’interesse dell’ente danneggiato.

E’ inveitabile per la Corte dei Conti agire quindi per vedere riconosciuto il danno non patrimoniale ravvisato nella lesione dell’immagine degli enti pubblici derivata dal discredito sociale degli stessi nella considerazione collettiva in conseguenza della violazione del bene giuridico, costituzionalmente tutelato, dell’imparzialità e del buon andamento dell’amministrazione, leso da provvedimenti adottati per interessi privati anzichè della collettività, in violazione dei doveri di ufficio e di norme penali (cass. del 16 febbraio 2010 n. 3672).

Parere legale motivato di diritto civile.Responsabilità dell’amministratore per mala gestio, nei confronti della società, dei soci, e dell’erario perchè la società aveva come socio l’amministrazione pubblica.

a cura del dott. Domenico CIRASOLE

La questione giuridica in esame vede interessato CAIO che all’epoca dei fatti era amministratore della società FIORE, ma non era dipendente della stessa società, perché legato ad essa solo da un contratto di collaborazione e poi di Consulenza.
La società SOLE ha conseguito e aggiudicato delle gare d’appalto, a condizioni meno vantaggiose per l’impresa appaltante FIORE.
Dunque la società FIORE ha dovuto attuare una retrocessione dal contratto, e dunque ha dovuto sopportare le spese occorse al recupero, nel corso dell’esecuzione del contratto, dei corrispettivi contrattuali convenuti, con la società SOLE.
Per la società FIORE è stato immancabile il danno patrimoniale costituito dalle spese sostenute.
Si tratta, all’evidenza, di tutti danni direttamente subiti dalla società.
La società FIORE ha come socio la pubblica amministrazione, che dalla questione in esame ha subito un danno arrecato all’immagine dell’ente.
Infatti, tale danno, anche se non comporta apparentemente una diminuzione patrimoniale alla pubblica amministrazione, è suscettibile di una valutazione economica finalizzata al ripristino del bene giuridico leso (Cass. civ., Sez. Unite, 02/04/2007, n. 8098).
Sorge dunque nel caso in esame la necessità di proporre azione per reagire ad un danno cagionato al patrimonio della società.
Non è configurabile alcun rapporto di servizio tra l’ente pubblico partecipante e l’amministratore della società partecipata, il cui patrimonio sia stato leso dall’atto di mala gestio.
Inoltre neppure sussiste in tale ipotesi un danno qualificabile come danno erariale, inteso come pregiudizio direttamente arrecato al patrimonio dello Stato o di altro ente pubblico che della suindicata società sia socio.
La ben nota distinzione tra la personalità giuridica della società di capitali e quella dei singoli soci e la piena autonomia patrimoniale dell’una rispetto agli altri non consentono di riferire al patrimonio del socio pubblico il danno che l’illegittimo comportamento degli organi sociali abbia eventualmente arrecato al patrimonio dell’ente, patrimonio che è e resta privato.
Il danno sofferto dal patrimonio della società è per lo più destinato a ripercuotersi anche sui soci, incidendo negativamente sul valore o sulla redditività della loro quota di partecipazione.
Ma l’art. 2497 c.c. in tema di responsabilità dell’ente posto a capo di un gruppo di imprese societarie, impone di tener ben distinti i danni direttamente inferti al patrimonio del socio da quelli che siano il mero riflesso di danni sofferti dalla società.
Dei danni diretti prodotti nella sfera giuridico-patrimoniale del socio solo lui è legittimato a dolersi.
Dei danni diretti prodotti nella sfera giuridico-patrimoniale della società, solo alla società compete il risarcimento, di modo che per il socio anche il ristoro è destinato a realizzarsi unicamente nella medesima maniera indiretta in cui si è prodotto il suo pregiudizio ( Cass. 5 agosto 2008, n. 21130).
Si capisce, allora, come il danno inferto dagli organi della società al patrimonio sociale può dar vita all’azione sociale di responsabilità ed eventualmente a quella dei creditori sociali, ma non è idoneo a configurare anche un’ipotesi di azione ricadente nella giurisdizione della Corte dei conti perché non implica alcun danno erariale, bensì unicamente un danno sofferto da un soggetto privato (appunto la società).
Dunque è ipotizzabile nei confronti del sig. CAIO un’azione di responsabilità sociale e dei creditori sociali contemplate dal codice civile, attua ad ottenere il ristoro completo del pregiudizio subito dalla mala gestio dello stesso amministratore che ha agito con dolo e colpa grave.
La giurisdizione della Corte dei conti è configurabile nei confronti di chi, all’interno dell’ente pubblico partecipante, avesse omesso di adottare, un comportamento volto all’esercizio da parte del socio -pubblica amministrazione- dell’azione sociale di responsabilità nei confronti dell’amministratore, con conseguente danno della società partecipata e, dunque, dell’ente pubblico partecipante.
Va affermata ulteriormente la giurisdizione delle Corte dei conti solo relativamente alla condanna di risarcimento del danno all’immagine subita dalla pubblica amministrazione.
Rientra nella giurisdizione della Corte dei conti l’azione di responsabilità per il danno arrecato all’immagine dell’ente che anche se non comporta apparentemente una diminuzione patrimoniale alla pubblica amministrazione, è suscettibile di una valutazione economica finalizzata al ripristino del bene giuridico leso
(Cass. civ., Sez. Unite, 02/04/2007, n. 8098).
In detto caso di responsabilità per danno erariale, ovvero per danno arrecato all’immagine dell’ente, l’esistenza di un rapporto di servizio, quale presupposto per un addebito di responsabilità al detto titolo, non è limitata al rapporto organico o al rapporto di impiego pubblico, ma è configurabile anche quando il soggetto,benché estraneo alla Pubblica amministrazione, venga investito, anche di fatto, dello svolgimento, in modo continuativo, di una determinata attività in favore della Pubblica Amministrazione (Cass. Sez. Unite, 12/03/2004, n. 5163; Cass. S.U. n. 19661/2003).
Nella fattispecie è ravvisabile tale inserimento del sig. Caio nell’organizzazione della societa FIORE con l’assunzione di vincoli ed obblighi funzionali, poichè questi agiva nell’espletamento dell’attività consulenziale.
In tale ultimo caso la configurabilità dell’azione del procuratore contabile, tesa a far valere la responsabilità dell’amministratore o del componente di organi di controllo della società partecipata dall’ente pubblico quando questo sia stato direttamente danneggiato dall’azione illegittima, non incontra particolari ostacoli in sede civile dai citati artt. 2395 e 2476,sesto comma, poiché l’una e l’altra mirerebbero in definitiva al medesimo risultato.
Quel che appare certo è che la presenza dell’ente pubblico all’interno della compagine sociale ed il fatto che la sua partecipazione sia strumentale al perseguimento di finalità pubbliche ed abbia implicato l’impiego di pubbliche risorse non può sfuggire agli organi della società e non può non comportare, per loro, una peculiare cura nell’evitare comportamenti tali da compromettere la ragione stessa di detta partecipazione sociale dell’ente pubblico o che possano comunque direttamente cagionare un pregiudizio al patrimonio di quest’ultimo.
(CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE Sezioni unite civili 19 dicembre 2009)

Parere legale motivato di diritto civile. Responsabilità genitoriale per l’omicido compiuto dal figlio minore.

a cura del dott. Domenico CIRASOLE

La questione giuridica in esame vede interessati i genitori esercenti la potestà sul figlio minore, che chiedono il risarcimento dei danni per la morte del rispettivo figlio Tizio ucciso nel corso di una lite.
Il figlio Tizio, omosessuale, da tempo importunava con offerte amorose, il giovane Caio minacciandolo in caso di rifiuto di diffondere la voce che era anch’egli omosessuale, ed in particolare di dirlo alla ragazza di lui.
In seguito vi è stato uno scatto d’ira di Caio, suscitato dalla provocazione di Tizio.
In un giovane vicino alla maggiore età, come era per Caio, e lontano dal controllo dei genitori, non può essere imputata la responsabilità educativa dei genitori, ma la responsabilità cade esclusivamente sui comportamenti dell’autore e della vittima dell’illecito, ovvero di Caio.
E’ però da ritenere di dovere imputare anche ai genitori la responsabilità per il delitto compiuto dal figlio diciassettenne.
Responsabilità che vanno ravvisate non in un difetto di vigilanza, data l’età del figlio, ma nell’inadempimento dei doveri di educazione e di formazione della personalità del minore, in termini tali da consentirne l’equilibrato sviluppo psicoemotivo, la capacità di dominare gli istinti, il rispetto degli altri e tutto ciò in cui si estrinseca la maturità personale.
Il minore Caio, era vicino ai diciotto anni, ma ciò non esclude che il suo comportamento, abbia manifestato un fallimento educativo, quanto alla capacità di frenare i propri istinti o di incanalarli in modalità espressive meno gravi e violente.
Proprio con l’avvicinarsi dell’età maggiore, l’incapacità a dominare i propri istinti e le altrui offese, caratterizza l’età immatura, e il particolare bisogno di essere sostenuto, rasserenato ed anche controllato.
I genitori sono ulteriormente responsabili del fatto di non avere indotto il figlio a completare la scuola dell’obbligo, scelta che ha privato il giovane dell’apporto di socializzazione, amicizie, ampliamento dei riferimenti culturali oltre il contesto familiare e di paese, che bene o male la scuola favorisce.
La provocazione da parte della vittima dovrebbe comportare un’attenuazione del risarcimento, ai sensi dell’art. 62 c.p., artt. 1227 e 2046 c.c..
Ma si dimentica che la provocazione attiene all’elemento soggettivo del reato – di cui attenua la gravità, giustificando una riduzione della pena , ma è in linea di principio irrilevante in ordine all’accertamento del nesso causale fra illecito e danno e dell’entità dei danni.
Sicchè, ciò detto non ricorrono i presupposti per l’applicazione degli artt. 2046 e 1227 c.c..
Però ai fini della liquidazione dei danni non patrimoniali, il giudice può tenere conto anche della gravità dell’offesa e dell’intensità dell’elemento soggettivo del dolo o della colpa, nonché della eventuale provocazione (Cass. Civ. Sentenza n. 18804 del 28 agosto 2009).