Parere legale motivato di diritto civile. Assenza di rendita inail per il coniuge (more uxorio), in caso di decesso del lavoratore per infortunio, e previsione di rendita del quaranta per cento per il figlio naturale.

a cura del dott. Domenico CIRASOLE

La questione giuridica in esame vede interessata la sig.ra TIZIA, vedova del marito SEMPRONIO, esercente la patria potestà sul figlio CAIO, minore degli anni 18.
Il sig. SEMPRONIO convivente more uxorio, della sig.ra TIZIA, a seguito di infortunio sul lavoro, riceve lesioni gravi tali da conseguirne il decesso.
Dall’art. 85, primo comma, n. 1, del d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124 (Testo unico delle disposizioni per l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali), si ricava che, in caso di decesso del lavoratore per infortunio, sia disposta una rendita inail per il coniuge nella misura del cinquanta per cento della retribuzione percepita dal lavoratore stesso.
Dallo stesso art. 85, primo comma, n. 2, del d.P.R. n. 1124 del 1965, si ricava che in conseguenza della morte per infortunio del lavoratore, è disposta una rendita del venti per cento della retribuzione dallo stesso percepita per ciascun figlio ovvero del quaranta per cento per gli orfani di entrambi i genitori.

Appare subito l’evidenza che il predetto art. 85, primo comma, n. 1, del citato d.P.R. n. 1124 del 1965, non prevede che, in caso di decesso del lavoratore, sia disposta una rendita per il coniuge more uxorio nella misura del cinquanta per cento.
Ancora è palesemente evidente che ai sensi dell’art. 85, primo comma, n. 2, del d.P.R. n. 1124 del 1965, spetta una rendita pari al «venti per cento per ciascun figlio legittimo, naturale, riconosciuto e/o riconoscibile e adottivo, ed il quaranta per cento se si tratti di orfani di entrambi i genitori». Detta norma non prende in considerazione, l’ipotesi del decesso di un genitore in una situazione di famiglia di fatto (more uxorio) consolidata, con la conseguenza che anche in questo caso viene erogato al figlio superstite solo il venti per cento della rendita.
In tal modo, viene sottratta al figlio anche quella quota della rendita riservata al coniuge che è naturalmente destinata a soddisfare le esigenze del nucleo familiare e non soltanto quelle di sostentamento del coniuge stesso.
In altre parole dall’art. 85 della 1124/65 si evince che al minore figlio di genitori non coniugati, in caso di morte a causa di infortunio, di uno dei genitori, spetta una rendita del 20 % della retribuzione.
Mentre se i genitori fossero stati coniugati, sarebbe spettato, una rendita del 50% per la madre, e del 20% per il figlio.
Non solo la morte nel caso di orfani di entrambi i genitori, la rendita per il figlio superstite sarebbe stata del 40%.
Detto ciò, appare evidente, nel predetto articolo 85, a)che manca un’adeguata tutela alla famiglia di fatto che è pari di quella fondata sul matrimonio (art. 2 Cost. art. 3 Cost.);b) che vi è un contrasto con il principio del favor familiaris, che obbliga lo Stato ad impegnarsi per promuovere ed agevolare il nucleo familiare qualunque ne sia la forma (art. 31 Cost.); c) rendendo al genitore non coniugato l’incapacità di provvedere al mantenimento dei propri figli, creando così un disagio individuale e familiare (art. 38 Cost.); d) creando irragionevole disparità di trattamento tra i figli nati fuori dal matrimonio e quelli legittimi (artt. 2 e 3 Cost.);
Vi è inoltre una lesione: 1) della Convenzione sui diritti dell’infanzia, siglata a New York che, impone agli Stati di adottare adeguati provvedimenti, per aiutare i genitori ad attuare il diritto di ogni fanciullo a un livello di vita sufficiente a consentire il suo sviluppo fisico, mentale, spirituale e sociale; 2) della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea, proclamata a Nizza con il fine di combattere le discriminazioni fondata sulla nascita e sulla cittadinanza.
La Corte costituzionale con sentenza del 27-03-2009, n. 86, ha posto in evidenza, che la mancata equiparazione del convivente al coniuge del lavoratore, agli effetti della corresponsione della rendita Inail, in caso di infortunio sul lavoro che abbia avuto per conseguenza il decesso dello stesso lavoratore, deriva dalla diversità tra famiglia di fatto e famiglia fondata sul matrimonio, in ragione dei caratteri di stabilità, certezza, reciprocità e corrispettività dei diritti e doveri che nascono soltanto da tale vincolo, individuando le ragioni costituzionali che giustificano un differente trattamento normativo tra i due casi nella circostanza che il rapporto coniugale trova tutela diretta nell’art. 29 Cost.. ( Vedi anche ordinanza n. 121 del 2004; sentenza n. 461 del 2000).
Ovvero, contina la Corte, la mancata inclusione del convivente more uxorio tra i soggetti beneficiari del trattamento pensionistico di reversibilità trova una sua non irragionevole giustificazione nella circostanza che il suddetto trattamento si collega geneticamente ad un preesistente rapporto giuridico (cfr. ordinanza n. 444 del 2006).
Dunque secondo tale principio affermato dalla corte costituzionale, la diversità tra famiglia di fatto e famiglia fondata sul matrimonio, giustifica un differente trattamento normativo, in caso di da infortunio sul lavoro.
In altri termini è giustificato il predetto art. 85, primo comma, n. 1, del citato d.P.R. n. 1124 del 1965, che non prevede, in caso di decesso del lavoratore, una rendita per il coniuge more uxorio.
Al coniuge more uxorio, nulla è dovuto, sulla base dei diritti e doveri che nascono soltanto dal vincolo del matrimonio.
Mentre per quanto concerne la questione attinente all’interesse del minore figlio naturale riconosciuto, nato da una coppia convivente more uxorio, attinente alla mancata previsione che, in conseguenza della morte per infortunio del lavoratore, sia disposta una rendita del quaranta per cento della retribuzione dallo stesso percepita in favore del figlio nato fuori dal matrimonio, deve anzitutto osservarsi nella materia de qua, che al figlio minore di una coppia non coniugata, ma stabilmente convivente, in caso di morte di uno solo dei genitori, il minore ha diritto alla sola rendita pari al venti per cento della retribuzione del genitore deceduto, senza potere usufruire del sostegno economico che, indirettamente, gli perverrebbe dall’attribuzione all’altro genitore della rendita pari al cinquanta per cento, legittimamente negata al convivente.

Detta norma si pone in contrasto con gli artt. 3 e 30 Cost. (Corte cost., 27-03-2009, n. 86).
E’ bensì vero che i figli, legittimi o naturali riconosciuti, godono – in caso di infortunio mortale del loro genitore – della rendita infortunistica nella stessa misura, ma la discriminazione deriva dal fatto che solo i figli legittimi, e non anche quelli naturali, possono godere di quel plus di assistenza che deriva dall’attribuzione al genitore superstite del cinquanta per cento della rendita (Corte cost., 27-03-2009, n. 86).
Infatti il minore, pur trovandosi, in una condizione analoga a quella di chi ha perso entrambi i genitori – non essendo destinatario di alcun beneficio economico, neppure indiretto, a tali fini, per la sopravvivenza dell’altro genitore, cui non spetta, in quanto non coniugato, alcuna rendita, ha diritto solo al venti per cento di essa, e non anche al quaranta per cento spettante agli orfani di entrambi i genitori.
A causa di detta disparità la corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 85, primo comma, numero 2), del d.P.R. n. 1124 del 1965, nella parte in cui, nel disporre che, nel caso di infortunio mortale dell’assicurato, agli orfani di entrambi i genitori spetta il quaranta per cento della rendita, esclude che essa spetti nella stessa misura anche all’orfano di un solo genitore naturale (Corte cost., 27-03-2009, n. 86).
Dunque in virtù di detto principio, nella fattispecie in esame, al coniuge, non spetta alcuna rendita Inail, mentre al figlio dovrebbe spettare una rendita pari al 40% della retribuzione del padre.

Parere legale motivato di diritto civile. Sorge responsabilità dell’ente Provincia, e non della Regione, per il sinistro causato dal comportamento della fauna selvatica (capriolo ).

a cura del dott. Domenico CIRASOLE

La questione giuridica in esame vede interessato il sig. CAIO, che ha subito danni alla sua autovettura a seguito dell’impatto con un capriolo, che aveva improvvisamente attraversato la strada statale che egli stava percorrendo.
Il sig. CAIO procedeva a velocità moderata, e l’animale ha fatto irruzione sulla strada all’improvviso.
Negli ultimi tempi si erano verificati molti incidenti analoghi, sì che il danno era prevedibile ed avrebbero dovuto essere approntate misure di vigilanza, in particolare facendo predisporre adeguata segnaletica stradale.
E’ facilmente intuibile che la presenza di un eccesso di popolamento, e la determinazione poco oculata dei luoghi in cui gli animali trovano cibo ed acqua, nonché l’assetto e le modalità di delimitazione del territorio in relazione alla prossimità con le strade pubbliche, ecc., possono incrementare i rischi di interferenze con la circolazione dei veicoli.
Vi è dunque una responsabilità per il sinistro del comportamento della fauna selvatica ai quali non può applicarsi i principi di cui all’art. 2052 cod. civ., ma l’applicazione dell’art. 2043 cod. civ..
Va premesso che il caso in esame concerne il problema della responsabilità per i danni arrecati a terzi dal comportamento della fauna selvatica, sulla base dei principi generali in tema di illecito civile di cui all’art. 2043 ss. cod. civ.: materia su cui le leggi speciali, statali e regionali, che regolano competenze e responsabilità dello Stato e degli enti locali, nulla dispongono espressamente
La disciplina applicabile deve essere ricostruita sulla base dei principi generali in tema di responsabilità civile, che impongono di individuare il responsabile dei danni nell’ente a cui siano concretamente affidati, con adeguato margine di autonomia, i poteri di gestione e di controllo del territorio e della fauna ivi esistente, e che quindi sia meglio in grado di prevedere, prevenire ed evitare gli eventi dannosi del genere di quello del cui risarcimento si tratta.
Nel caso in esame si tratta di stabilire se tali poteri spettino alla Regione o alla Provincia (o ad entrambe): problema da risolvere con riguardo sia alle leggi nazionali che regolano le rispettive competenze, sia alle leggi della regione interessata; che quindi è suscettibile di diversa soluzione, nell’ambito delle diverse regioni. (Cass. civ., Sent., 08-01-2010, n. 80).
La L. 8 giugno 1990, n. 142, art. 14, sulle autonomie locali attribuisce alle province le funzioni amministrative che attengano a determinate materie, fra cui la protezione della fauna selvatica (comma 1, lett. f), nelle zone che interessino in parte o per intero il territorio provinciale.
Mentre la L. 11 febbraio 1992, n. 157, destinata a regolare la protezione della fauna selvatica, attribuisce alle regioni a statuto ordinario il compito di "emanare norme relative alla gestione ed alla tutela di tutte le specie di fauna selvatica" (art. 1, comma 1) e dispone che le province attuano la disciplina regionale "ai sensi della L. 8 giugno 1990, n. 142, art. 14, comma 1, lett. f)" (art. 1, comma 3), cioè in virtù dell’autonomia ad esse attribuita dalla legge statale; non per delega delle regioni.
Da tali disposizioni si desume che la regione ha una competenza essenzialmente normativa, mentre alle province spetta l’esplicazione delle concrete funzioni amministrative e di gestione, nell’ambito del loro territorio.
La sentenza n. 8788/1991 della Corte di cassazione ha affermato che, ove la Regione affidi ad un concessionario la gestione di attività di propria competenza, sul concessionario grava la stessa responsabilità civile propria del concedente, così come va individuata nel concessionario la posizione di soggetto passivo dell’azione di responsabilità, per i danni arrecati a terzi.
“In sintesi, è da ritenere che la responsabilità aquiliana per i danni a terzi debba essere imputata all’ente, sia esso Regione, Provincia, Ente Parco, Federazione o Associazione, ecc, a cui siano stati concretamente affidati, nel singolo caso, i poteri di amministrazione del territorio e di gestione della fauna ivi insediata, con autonomia decisionale sufficiente a consentire loro di svolgere l’attività in modo da poter amministrare i rischi di danni a terzi che da tali attività derivino”. (Cass. civ., Sent., 08-01-2010, n. 80).
Deve essere parimenti disatteso l’ulteriore argomento secondo cui la Regione dovrebbe essere tenuta comunque responsabile, quale ente che ha delegato i suoi poteri alla provincia.
In primo luogo, l’esercizio di funzioni o di attività per delega di altri non vale di per sè ad escludere la responsabilità del delegato per i danni arrecati a terzi, ove il delegato goda di autonomia di valutazioni e di scelte, rispetto al delegante, sufficiente a ricondurre alla sua personale decisione, il comportamento produttivo di danno.
Per ravvisare la responsabilità esclusiva del delegante, in tema di illecito civile, occorrerebbe dimostrare che il comportamento del delegato è stato interamente vincolato dalle direttive del primo (artt. 1390 e 1391 cod. civ.).
In secondo luogo, si è detto che la L. n. 142 del 1990, art. 14, comma 1, lett. f, attribuisce alle province, nell’ambito del proprio territorio, una competenza propria in materia di fauna selvatica; che le regioni approvano le norme relative alla gestione e alla tutela della fauna, e che le province attuano tali norme, ai sensi del citato art. 14 (L. n. 157 del 1992, art. 1, comma 1), cioè nel quadro di una competenza propria (Cass. civ., Sent., 08-01-2010, n. 80).
“In tale contesto, la responsabilità della regione potrebbe essere coinvolta solo se l’evento dannoso fosse riconducibile all’attuazione da parte della provincia di specifiche norme regionali; non invece ove si tratti di danni inerenti all’esercizio di attività meramente amministrative, quali il controllo sugli animali e sul territorio, il fare apporre sulle strade apposita segnaletica per gli automobilisti, e simili, relativamente alle quali le decisioni su come agire spettano esclusivamente o prevalentemente alla provincia.” (Cass. civ., Sent., 08-01-2010, n. 80).
La questione dovrà essere infatti esaminata con riferimento alla specifica posizione dell’ente.
In linea di principio:"La responsabilità aquiliana per i danni provocati da animali selvatici alla circolazione dei veicoli deve essere imputata all’ente, sia esso Regione, Provincia, Ente Parco, Federazione o Associazione, ecc, a cui siano stati concretamente affidati, nel singolo caso, i poteri di amministrazione del territorio e di gestione della fauna ivi insediata, sia che i poteri di gestione derivino dalla legge, sia che derivino da delega o concessione di altro ente (nella specie della Regione). In quest’ultimo caso, sempre che sia conferita al gestore autonomia decisionale e operativa sufficiente a consentirgli di svolgere l’attività in modo da poter efficientemente amministrare i rischi di danni a terzi, inerenti all’esercizio dell’attività, e da poter adottare le misure normalmente idonee a prevenire, evitare o limitare tali danni" (Cass. civ., Sent., 08-01-2010, n. 80).

Parere legale motivato di diritto penale. Telefonata nottetempo alla moglie configura il reato di molestia.

a cura del dott. Domenico CIRASOLE

La questione giuridica in esame, vede interessato il sig TIZIO che avrbbe telefonato nottetempo alla moglie, CAIA, dicendole tra l’altro "sei finita".
La vicenda si iscriveva nel contesto di una separazione personale, con contrasti tra i coniugi.
La telefonata era stata effettuata "oltre la mezzanotte", con l’intento di contestare alla moglie il fatto che non gli aveva consentito di vedere il figlio, sollecitando il suo rispetto degli impegni.
Secondo TIZIO la telefonata non era dettata dall’intento d’interferire nella sfera di libertà della ex-moglie ma era stata fatta allo scopo di chiedere informazioni sul figlio, SEMPRONIO, che avrebbe dovuto incontrarsi con il padre il giorno precedente senza che ciò fosse avvenuto , infatti il ragazzo era stato portato al mare dalla madre.
La telefonata a quell’ora era a parere della sig.ra CAIA, idonea a disturbare il sonno e rendeva evidente l’intento di molestare.
Detto comportamento è sanzionato dall’art. 660 c.p. i quali elementi costitutivi sono la "petulanza" ovvero il "biasimevole motivo".
Nella fattispecie in esame, l’ora in cui era stata effettuata la telefonata, attorno alla mezzanotte, dimostrava sia l’obiettiva molesta intrusione in ore riservate al riposo sia l’evidente intenzione del ricorrente di molestare la moglie piuttosto che di vedere il bambino, che a quell’ora avrebbe dovuto dormire.
Dunque tale comportamento è da ritenersi tanto a parere di chi scrive tanto petulante biasimevole, avendo come unico fine, appunto dell’unico biasimevole motivo di recare molestia (Cass. pen. 05-01-2010, n. 36).

Parere legale motivato di diritto civile. Diniego di autorizzazione ad affissione pubblicitaria, improponibilità di richiesta di risarcimento danni.

a cura del dott. DOMENICO CIRASOLE

La questione giuridica in esame vede interessata la società QUERCIA S.R.L., ed il comune di GIOVE.
La società QUERCIA S.R.L. aveva chiesto autorizzazione di affissione pubblicitaria, consistente in un cartellone pubblicitario su di un palazzo sito sul lato prospiciente la Piazza del comune di GIOVE.

La società QUERCIA S.R.L. presenta regolare domanda al comune, e riceve il parere negativo della Soprintendenza per i Beni Culturali ed Ambientali.

Ciò nonostante conclude il contratto con la società MARE S.P.A..

Tale ultimo contratto fu stipulato pur desumendo, che "il rifiuto del nulla osta da parte della Soprintendenza avrebbe, portato ad un rifiuto del comune, ed avrebbe dovuto tuttavia sconsigliare la società QUERCIA S.R.L. dal procedere alla conclusione di un contratto così impegnativo con la società MARE S.P.A..

In detto contratto, cautamente la società QUERCIA S.R.L., inserisce clausola, riguardante la sua risoluzione ipso iure nel caso in cui si dovessero verificare situazioni di fatto e di diritto, di diniego o di revoca delle autorizzazioni…. che rendano oggettivamente impossibile l’esecuzione o la permanenza dell’impianto pubblicitario".

In altre parole la società QUERCIA S.R.L., con tale clausola, attua un condotta non incauta, ed ha adeguatamente valutato la situazione intervenuta successivamente alla sua istanza al comune, cioè il rifiuto del nulla osta da parte della Soprintendenza, ed ha dì conseguenza agito con la dovuta prudenza.

La società QUERCIA S.R.L., aveva chiesto autorizzazione di affissione pubblicitaria valutando le installazione autorizzate concesse in precedenza, che attenevano alla installazione di nuove insegne, su di uno stabile adiacente in cattivo stato di manutenzione, rilasciate temporaneamente, fino alla sistemazione definitiva della piazza, allineate alle altre già esistenti.

Analizzati tutti questi elementi, facilmente si comprende uno scarso, oggettivo, affidamento alla concessione del provvedimento autorizzativo da parte del comune.

Cioè la società QUERCIA S.R.L., non può lamentare danni conseguenti al provvedimento di diniego da parte della Pubblica Amministrazione, non essendo più prospettabile una situazione caratterizzata dalla aspettativa qualificata, cioè tale da determinare un oggettivo affidamento alla concessione del provvedimento".

Ciò per l’appunto analizzando gli elementi di fatto presi in considerazione in precedenza, che sono, quindi i seguenti: a) l’obiettiva diversità dei due stabili ( l’uno, sebbene non vincolato, totalmente ristrutturato, l’altro in cattivo stato di manutenzione); b) i tempi di proposizione della domanda di autorizzazione ed il successivo iter procedimentale; c) il parere negativo espresso dalla Soprintendenza per i Beni Culturali ed Ambientali, d) la data di conclusione del contratto fra la società QUERCIA S.R.L., e la societa MARE S.P.A. e le pattuizioni (clausole) contenute.

Quindi nessun danno, ne è derivato dal diniego del comune, ne danni emergenti per le spese sostenute in conseguenza della conclusione di un contratto, poi risolto, ne nel lucro cessante derivatole dal mancato guadagno.

E’ dunque da escludersi un comportamento colposo o doloso del Comune per disparità di trattamento, ed un oggettivo affidamento, al fine di ottenere l’autorizzazione alla installazione dell’impianto pubblicitario. (Corte Cassazione, Sezione Civile, Sent. del 23 febbraio 2010, n. 04326/2010)
Risarcimento dei danni subiti a seguito del diniego di autorizzazione ad affissione pubblicitaria

La questione giuridica in esame vede interessatal la società QUERCIA S.R.L., ed il comune di GIOVE.
La società QUERCIA S.R.L. aveva chiesto autorizzazione di affissione pubblicitaria, consistente in un cartellone pubblicitario su di un palazzo sito sul lato prospiciente la Piazza del comune di GIOVE.

La società QUERCIA S.R.L. presentata regolare domanda al comune, e riceve il parere negativo della Soprintendenza per i Beni Culturali ed Ambientali.

Ciò nonostante conclude il contratto con la societa MARE S.P.A..

Tale ultimo contratto fu stipulato pur desumendo, che "il rifiuto del nulla osta da parte della Soprintendenza avrebbe, portato ad un rifiuto del comune, ed avrebbe dovuto tuttavia sconsigliare la società QUERCIA S.R.L. dal procedere alla conclusione di un contratto così impegnativo con la societa MARE S.P.A..

In detto contratto, cautamente la società QUERCIA S.R.L., inserisce clausola, riguardante la sua risoluzione ipso iure nel caso in cui si dovessero verificare situazioni di fatto e di diritto, di diniego o di revoca delle autorizzazioni…. che rendano oggettivamente impossibile l’esecuzione o la permanenza dell’impianto pubblicitario".

In altre parole la società QUERCIA S.R.L., con tale clausola, attua un condotta non incauta, ed ha adeguatamente valutato la situazione intervenuta successivamente alla sua istanza al comune, cioè il rifiuto del nulla osta da parte della Soprintendenza, ed ha dì conseguenza agito con la dovuta prudenza.

La società QUERCIA S.R.L., aveva chiesto autorizzazione di affissione pubblicitaria valutando le installazione autorizzate concesse in precedenza, che attenevano alla installazione di nuove insegne, su di uno stabile adiacente in cattivo stato di manutenzione, rilasciate temporaneamente, fino alla sistemazione definitiva della piazza, allineate alle altre già esistenti.

Analizzati tutti questi elementi facilmente si comprende uno scarso, oggettivo, affidamento alla concessione del provvedimento autorizzativo da parte del comune.

Cioè la società QUERCIA S.R.L., non può lamentare
danni conseguenti al provvedimento di diniego da parte della Pubblica Amministrazione, non essendo più prospettabile una situazione caratterizzata dalla aspettativa qualificata, cioè tale da determinare un oggettivo affidamento alla concessione del provvedimento".

Ciò per l’appunto analizzando gli elementi di fatto presi in considerazione in precedenza, che sono, quindi i seguenti: a) l’obiettiva diversità dei due stabili ( l’uno, sebbene non vincolato, totalmente ristrutturato, l’altro in cattivo stato di manutenzione); b) i tempi di proposizione della domanda di autorizzazione ed il successivo iter procedimentale; c) il parere negativo espresso dalla Soprintendenza per i Beni Culturali ed Ambientali, d) la data di conclusione del contratto fra la società QUERCIA S.R.L., e la societa MARE S.P.A. e le pattuizioni (clausole) contenute.

Quindi nessun danno, ne è derivato dal diniego del comune, ne danni emergenti per le spese sostenute in conseguenza della conclusione di un contratto, poi risolto, ne nel lucro cessante derivatole dal mancato guadagno.

E’ dunque da escludersi un comportamento colposo o doloso del Comune per disparità di trattamento, ed un oggettivo affidamento, al fine di ottenere l’autorizzazione alla installazione dell’impianto pubblicitario.

E’ logico che una volta intervenuto il parere negativo della sopraintendenza, questo avrebbe dovuto sconsigliare la successiva conclusione del contratto, non sussistendo più, a quel momento, una situazione caratterizzata dalla aspettativa qualificata, tale da comportare un oggettivo affidamento nel conseguimento del risultato richiesto.

Il diniego, poi, opposto dal Comune non può quindi configurare alcuna ipotesi di colpa grave.

Il Comune, infatti, si è limitato, nell’ambito del suo potere discrezionale, ed in aderenza al parere negativo espresso dalla Soprintendenza, ad adottare un provvedimento negativo sulla richiesta inoltrata.

Inoltre non vi è nessuna supposta disparità di trattamento della due situazioni soggettive in esame – quella oggetto del presente esame e quella relativa all’altro immobile situato nella stessa piazza, sul quale erano posizionate insegne pubblicitarie, in quanto le pregresse autorizzazioni furono concesse "fino alla sistemazione definitiva della piazza", su parere espresso anche dalla Soprintendenza.
Diversamente nella specie, in cui la richiesta non era temporanea, e vi era il dissenso della Soprintendenza.
Anche sotto questo aspetto, pertanto, si trattava di situazioni non omogenee, e come tali non comparabili.
Per questi motivi nessun danno da ritardo è ipotizzabile.

Quanto alla comparazione degli interessi in gioco sotto il profilo di un loro equilibrio costituzionale – deve evidenziarsi che se alla società QUERCIA S.R.L., deve riconoscersi il diritto al libero esercizio dell’attività economica, a fronte di questo sta un ulteriore diritto, anch’esso costituzionalmente garantito, quello relativo alla tutela ambientale e paesaggistica ed alla tutela e rispetto del patrimonio architettonico, artistico e storico (v. anche Cass. 19.7.2002 n. 10542; cass. 26.11.2004 n. 22339).

Pertanto, è con riferimento a tali interessi che deve essere misurato l’esercizio della iniziativa economica spettante ai privati e, nell’eventualità di un loro conflitto, essere valutata la preminenza di quello pubblico rispetto al privato, con il sacrificio di quest’ultimo, purché, però, l’azione amministrativa sia conforme ai principi di legalità e di buona amministrazione. Principi che, nel caso in esame, per le ragioni evidenziate, sono stati rispettati(Corte Cassazione, Sezione Civile, Sent. del 23 febbraio 2010, n. 04326/2010).

E’ logico che una volta intervenuto il parere negativo della soprintendenza, questo avrebbe dovuto sconsigliare la successiva conclusione del contratto, non sussistendo più, a quel momento, una situazione caratterizzata dalla aspettativa qualificata, tale da comportare un oggettivo affidamento nel conseguimento del risultato richiesto.

Il diniego, poi, opposto dal Comune non può quindi configurare alcuna ipotesi di colpa grave.

Il Comune, infatti, si è limitato, nell’ambito del suo potere discrezionale, ed in aderenza al parere negativo espresso dalla Soprintendenza, ad adottare un provvedimento negativo sulla richiesta inoltrata.

Inoltre non vi è nessuna supposta disparità di trattamento della due situazioni soggettive in esame – quella oggetto del presente esame e quella relativa all’altro immobile situato nella stessa piazza, sul quale erano posizionate insegne pubblicitarie, in quanto le pregresse autorizzazioni furono concesse "fino alla sistemazione definitiva della piazza", su parere espresso anche dalla Soprintendenza.
Diversamente nella specie, in cui la richiesta non era temporanea, e vi era il dissenso della Soprintendenza.
Anche sotto questo aspetto, pertanto, si trattava di situazioni non omogenee, e come tali non comparabili.
Per questi motivi nessun danno da ritardo è ipotizzabile.

Quanto alla comparazione degli interessi in gioco sotto il profilo di un loro equilibrio costituzionale – deve evidenziarsi che se alla società QUERCIA S.R.L., deve riconoscersi il diritto al libero esercizio dell’attività economica, a fronte di questo sta un ulteriore diritto, anch’esso costituzionalmente garantito, quello relativo alla tutela ambientale e paesaggistica ed alla tutela e rispetto del patrimonio architettonico, artistico e storico (v. anche Cass. 19.7.2002 n. 10542; cass. 26.11.2004 n. 22339).

Pertanto, è con riferimento a tali interessi che deve essere misurato l’esercizio della iniziativa economica spettante ai privati e, nell’eventualità di un loro conflitto, essere valutata la preminenza di quello pubblico rispetto al privato, con il sacrificio di quest’ultimo, purché, però, l’azione amministrativa sia conforme ai principi di legalità e di buona amministrazione. Principi che, nel caso in esame, per le ragioni evidenziate, sono stati rispettati(Corte Cassazione, Sezione Civile, Sent. del 23 febbraio 2010, n. 04326/2010).