Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 06-04-2011) 11-05-2011, n. 18619 Trattamento penitenziario

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

C.F. ricorre avverso l’ordinanza di cui in epigrafe nella parte in cui rigettava il reclamo avverso il provvedimento di inserimento del detenuto nel circuito penitenziario di elevato indice di vigilanza, deducendone l’illegittimità per difetto dei suoi presupposti a fronte delle esigenze afferenti alle sue esigenze personali Ma il ricorso collide con la regola della non sottoponibilità a controllo del magistrato di sorveglianza di misure che non sono suscettibili di ledere i diritti soggettivi (Corte cost. n. 26 de 1999): invero il provvedimento dell’Amministrazione penitenziaria di inserimento del detenuto nel circuito E.I.V. (elevato indice di vigilanza), non eccedente la funzione tipica che gli è propria e, perciò, in sè non suscettibile di ledere diritti soggettivi, non può essere sottoposto a controllo del magistrato di sorveglianza mentre possono costituire oggetto di reclamo le singole disposizioni che lo accompagnano o lo seguono o gli atti esecutivi che siano in concreto lesivi di diritti (cfr. per tutte, sez. 1^ 10.6/3.8.2009, Cavallo Rv 244830).

Ai sensi dell’art. 616 c.p.p., con il provvedimento che dichiara inammissibile il ricorso, l’imputato che lo ha proposto deve essere condannato al pagamento delle spese del procedimento, nonchè – ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità – al pagamento a favore della cassa delle ammende della somma di mille Euro, così equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti.
P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di mille Euro alla cassa delle ammende.

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Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 30-09-2011, n. 20102 Pensione di invalidità

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Svolgimento del processo

Con ricorso al Tribunale di Ivrea, V.M.A. ha contestato la legittimità del recupero effettuato nei suoi confronti dall’Inps in relazione a somme indebitamente percepite a titolo di integrazione al trattamento minimo per il periodo dal 1.6.1986 al 21.1.21992, e parzialmente recuperate dall’Istituto alla data di entrata in vigore della L. n. 448 del 2001, chiedendo la restituzione delle somme già recuperate dall’Inps prima dell’entrata in vigore della citata L. n. 448 del 2001.

Il Tribunale ha accolto la domanda con sentenza che è stata confermata dalla Corte di Appello di Torino, che ha ritenuto che, essendo il recupero ancora in corso alla data di entrata in vigore della L. n. 488 del 2001, e dovendosi applicare integralmente quest’ultima disciplina in quanto sostitutiva per intero di quelle precedenti, l’Inps non avrebbe potuto far luogo ad alcuna azione di recupero e doveva restituire quanto già incassato dal parziale recupero in corso, considerato che l’interessata godeva nell’anno 2000 di un reddito inferiore al limite stabilito dalla legge ai fini della possibilità di far luogo alla ripetizione dell’indebito.

Avverso tale sentenza ricorre per cassazione l’Inps affidandosi ad un unico motivo di ricorso cui resiste con controricorso V.M. A..
Motivi della decisione

Preliminarmente, devono essere respinte le eccezioni di inammissibilità del ricorso formulate da parte resistente, essendo sufficientemente specificati i motivi per i quali si chiede la cassazione della sentenza impugnata, con l’indicazione delle norme di legge che si assumono violate dal giudice del merito, delle ragioni per le quali la sentenza impugnata si pone in contrasto con tali norme e della regola di diritto che, ad avviso del ricorrente, si dovrebbe applicare al caso di specie. Nè sono state introdotte questioni che non hanno formato oggetto del giudizio di secondo grado, trattandosi sempre di verificare la legittimità dell’operato dell’Istituto alla stregua delle diverse disposizioni di legge che si sono succedute nel tempo in materia di indebito previdenziale, tenuto conto delle allegazioni e degli elementi di fatto già ritualmente acquisiti al processo.

1.- Con l’unico motivo si denuncia violazione e falsa applicazione della L. n. 662 del 1996, art. 1, commi 260, e segg., della L. n. 448 del 2001, art. 38, comma 7, e segg., chiedendo a questa Corte di stabilire "se, nell’ipotesi di indebito verificatosi precedentemente al 1 gennaio 1996, ove il recupero fosse ancora in corso all’entrata in vigore della L. n. 448 del 2001, una volta abbandonato dall’Istituto il debito residuo per avere la pensionata percepito nell’anno 2000 redditi superiori ad Euro 8.263,31, debba il medesimo Istituto restituire anche quanto legittimamente recuperato sotto la vigenza della precedente normativa". 2- Il ricorso è fondato. Il quesito di diritto formulato da parte ricorrente deve trovare risposta nei principi affermati dalle sezioni unite di questa Corte con la sentenza n. 4809 del 2005 – principi tutti successivamente ribaditi anche da Cass. n. 15522/2005, Cass. n. 1575/2006, Cass. n. 3385/2006, Cass. n. 17974/2006 – secondo cui in tema di ripetizione di indebito previdenziale, e con riguardo alla normativa applicabile agli indebiti pensionistici INPS maturati anteriormente al primo gennaio 1996, e non ancora recuperati totalmente, ovvero recuperati solo in parte, prima della entrata in vigore della L. n. 448 del 2001, la nuova disciplina dettata da quest’ultima legge con l’art. 38, commi 7 e 8 (ai cui sensi "nei confronti dei soggetti che hanno percepito indebitamente prestazioni pensionistiche o quote di prestazioni pensionistiche o trattamenti di famiglia, a carico dell’INPS, per periodi anteriori al primo gennaio 2001, non si fa luogo al recupero dell’indebito qualora i soggetti medesimi siano percettori di un reddito imponibile ai fini dell’IRPEF per l’anno 2000 di importo pari o inferiore a 8.263,31 Euro", e, ove tale soglia sia superata, "non si fa luogo al recupero dell’indebito nei limiti di un quarto dell’importo riscosso"), non si applica quando il titolare del trattamento pensionistico godeva di un reddito, per l’anno 1995, inferiore ai sedici milioni di lire, soglia alla quale faceva riferimento la precedente disciplina sul recupero dell’indebito previdenziale (non solo INPS) dettata, per il periodo, appunto, anteriore al primo gennaio 1996, dalla L. n. 662 di 1996, art. 1, commi 270 e 271, dovendo escludersi, sotto questo profilo, un effetto abrogativo implicito di quest’ultima disciplina determinato dal sopraggiungere della citata L. n. 448 del 2001, art. 38, atteso che, secondo la regola generale operante nel caso di successione di norme nel tempo, il rapporto debitorio concernente l’indebito deve considerarsi estinto – con conseguente insensibilità dello "ius superveniens" – quando si sia perfezionata la fattispecie legale che, ai sensi della disciplina dell’indebito vigente all’atto della sua formazione, lo rendeva irripetibile. Viceversa, e sempre con riguardo agli indebiti maturati anteriormente al primo gennaio 1996, ove si accerti che l’indebito era recuperabile, a norma della L. n. 662 del 1996, perchè il titolare godeva nell’anno 1995 di un reddito superiore a L. sedici milioni, la ripetibilità deve essere verificata anche alla luce della L. n. 448 del 2001, e quindi il recupero è consentito solo in caso di titolarità, nell’anno 2000, di un reddito superiore alla soglia individuata da quest’ultima legge. L’operatività di entrambe le discipline ricorre anche quando, al momento di entrata in vigore della L. n. 448 del 2001, sia in corso il recupero rateale (consentito dalla L. n. 662 del 1996); in tal caso l’Istituto previdenziale dovrà accertare se la restante porzione (alla data di inizio del processo, posto che il tempo della causa non deve essere di pregiudizio alla parte) sia ancora ripetibile, alla luce della L. n. 448 del 2001, verificando cioè la misura del reddito del 2000, ed astenendosi dal recuperare ulteriormente allorchè tale reddito sia inferiore alla soglia di legge.

3.- Nella specie, si tratta di indebito verificatosi anteriormente al primo gennaio 1996 e di recupero ancora in corso alla data di entrata in vigore della L. n. 448 del 2001, sicchè ricorre l’operatività di entrambe le suddette discipline. Poichè non è stato prospettato dalla resistente che nella fase di merito sia stato allegato che non risultava superata la soglia reddituale fissata dalla L. n. 662 del 1996 – nè che i giudici di merito erroneamente non abbiano preso in considerazione una tale allegazione – e poichè l’Istituto – avendo accertato che il reddito dell’assicurata per l’anno 2000 era inferiore alla soglia di legge – si è astenuto dal procedere al recupero in corso, restituendo quanto ripetuto successivamente alla data di entrata in vigore della L. n. 448 del 2001, deve ritenersi che la resistente non abbia diritto alla restituzione di ulteriori somme già recuperate dall’Istituto previdenziale, essendosi lo stesso Istituto correttamente attenuto alle disposizioni di legge che regolano la materia dell’indebito previdenziale secondo i principi sopra evidenziati.

4.- La sentenza impugnata va quindi cassata e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa va decisa nel merito con il rigetto della domanda proposta dall’assicurata.

5.- Non deve provvedersi sulla spese dell’intero processo, in applicazione dell’art. 152 disp. att. c.p.c., nel testo vigente anteriormente alla modifica introdotta dal D.L. 30 settembre 2003, n. 269, non applicabile ratione temporis alla fattispecie in esame.
P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta l’originaria domanda; nulla sulle spese dell’intero processo.

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Cass. civ. Sez. II, Sent., 14-10-2011, n. 21310 Azioni per il rispetto delle distanze

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Svolgimento del processo

Ma.Br., assumendo che M.M.L., nell’eseguire lavori di ristrutturazione di un fabbricato posto a confine con un immobile di sua proprietà, aveva, tra l’altro, posizionato il nuovo edificio a distanza non legale dal confine, ha chiesto al Tribunale de L’Aquila di condannare la M. ad eliminare le opere abusive e a risarcirle i danni.

Costituitosi il contraddittorio, l’adito Tribunale, per quanto in questa sede ancora rileva, ha rigettato la domanda di arretramento del fabbricato e la domanda risarcitoria.

Ma.Br. ha proposto appello e, nella contumacia della M., la Corte d’appello de L’Aquila, con sentenza depositata il 9 luglio 2008, ha accolto il gravame, condannando la M., tra l’altro, ad arretrare a distanza legale il fabbricato di sua proprietà sito in (OMISSIS), a confine con la proprietà dell’appellante, e a risarcire i danni, liquidati in via equitativa in Euro 10.000,00.

M.M.L. ha proposto ricorso per cassazione affidato a due motivi, cui ha resistito, con controricorso, Ma.Br..

La causa è stata avviata alla trattazione in camera di consiglio.

All’esito dell’adunanza camerale del 3 dicembre 2010, la Corte, con ordinanza n. 3255 del 2011, ha disposto la trattazione del ricorso in pubblica udienza.
Motivi della decisione

Con il primo motivo la ricorrente deduce violazione dell’art. 360 cod. proc. civ., n. 5, "per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto decisivo e controverso per il giudizio, nella parte in cui condanna l’appellata M. ad arretrare a distanza legale il fabbricato di sua proprietà, sito in (OMISSIS), posto a confine con la proprietà dell’appellante Ma.", sostenendo che la Corte d’appello avrebbe male interpretato, ed anzi travisato, il contenuto della consulenza tecnica d’ufficio espletata in primo grado, dalla quale emergeva il rispetto delle distanze per la preesistenza di un fabbricato oggetto di sopraelevazione.

La ricorrente deduce altresì la genericità dell’apprezzamento delle altre risultanze istruttorie e la erroneità della valutazione della situazione da parte della Corte d’appello.

Con il secondo motivo la ricorrente denuncia violazione dell’art. 360 cod. proc. civ., n. 5, "per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto decisivo e controverso per il giudizio, nella parte in cui condanna l’appellata M. al risarcimento dei danni subiti dall’appellante Ma., liquidati in via equitativa in Euro 10.000,00, oltre interessi legali dalla domanda al saldo". La Corte d’appello, sostiene la ricorrente, contraddittoriamente, avrebbe, da un lato, ritenuto di accogliere l’istanza risarcitoria, essendo evidente che l’appellante aveva subito un danno per tutte le violazioni accertate, e, dall’altro, proceduto a liquidazione equitativa in assenza di prova sul quantum, peraltro difficilmente dimostrabile. Inoltre, la Corte d’appello non avrebbe motivato le ragioni dello scostamento dalla soluzione accolta sul punto dal primo giudice, che, in mancanza di prova sulla esistenza in concreto di danni, aveva respinto la relativa domanda.

A conclusione del motivo, la ricorrente, pur non avendo denunciato una violazione di legge, formula il seguente quesito di diritto:

"Quali sono i presupposti unici e indefettibili in presenza dei quali il Giudice di merito possa addivenire ad una corretta applicazione del potere di liquidare in via equitativa il risarcimento del danno subito ai sensi dell’art. 1226 c.c.?".

Il ricorso è inammissibile.

Con riferimento ad entrambi i motivi, deve rilevarsi che, ai sensi dell’art. 366 bis cod. proc. civ., introdotto dal D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 6, applicabile alle sentenze pubblicate tra il 2 marzo 2006 e il 4 luglio 2009, i motivi del ricorso per cassazione devono essere accompagnati, a pena di inammissibilità ( art. 375 cod. proc. civ., n. 5), dalla formulazione di un esplicito quesito di diritto nei casi previsti dall’art. 360 cod. proc. civ., comma 1, nn. 1), 2), 3) e 4), e, qualora – come nella specie – il vizio sia denunciato ai sensi dell’art. 360 cod. proc. civ., n. 5, l’illustrazione di ciascun motivo deve contenere, a pena di inammissibilità, la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la renda inidonea a giustificare la decisione.

In proposito, le Sezioni Unite hanno avuto modo di affermare che "in tema di formulazione dei motivi del ricorso per cassazione avverso i provvedimenti pubblicati dopo l’entrata in vigore del D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40 ed impugnati per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, poichè secondo l’art. 366 bis cod. proc. civ., introdotto dalla riforma, nel caso previsto dall’art. 360 cod. proc. civ., n. 5, l’illustrazione di ciascun motivo deve contenere, a pena di inammissibilità, la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la renda inidonea a giustificare la decisione, e la relativa censura deve contenere un momento di sintesi (omologo del quesito di diritto) che ne circoscriva puntualmente i limiti, in maniera da non ingenerare incertezze in sede di formulazione del ricorso e di valutazione della sua ammissibilità" (Cass., S.U., n. 20603 del 2007).

In particolare, la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, deve consistere in una parte del motivo che si presenti a ciò specificamente e riassuntivamente destinata, di modo che non è possibile ritenerlo rispettato allorquando solo la completa lettura della complessiva illustrazione del motivo riveli, all’esito di un’attività di interpretazione svolta dal lettore e non di una indicazione da parte del ricorrente, deputata all’osservanza del requisito del citato art. 366 bis, che il motivo stesso concerne un determinato fatto controverso, riguardo al quale si assuma omessa, contraddittoria od insufficiente la motivazione e si indichino quali sono le ragioni per cui la motivazione è conseguentemente inidonea sorreggere la decisione (Cass., n. 16002 del 2007).

Nella specie, la ricorrente ha omesso di individuare in modo chiaro e preciso il fatto controverso, tale non potendo ritenersi la esplicitazione del capo di sentenza oggetto di impugnazione nella rubrica del motivo, e non ha destinato una parte della esposizione di entrambi i motivi ad indicare sinteticamente il fatto controverso e le ragioni di inadeguatezza della motivazione della sentenza impugnata.

Con riferimento al primo motivo, si deve poi rilevare che non risulta adeguatamente censurata la ratio decidendi contenuta nella sentenza impugnata, secondo cui, da un lato, non vi sarebbe stata una formale eccezione di usucapione della servitù e, dall’altro, la sopraelevazione non avrebbe comunque potuto usufruire della servitù già acquisita con riferimento alla costruzione preesistente. Sul punto, è appena il caso di rilevare che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, la sopraelevazione, anche se di ridotte dimensioni, comporta sempre un aumento della volumetria e della superficie di ingombro e va, pertanto, considerata a tutti gli effetti, e, quindi, anche per la disciplina delle distanze, come nuova costruzione (Cass. n. 21059 del 2009; Cass. n. 15527 del 2008; Cass. n. 1474 del 1999).

Quanto al secondo motivo, si deve rilevare che la questione posta dalla ricorrente si incentra, più che sul difetto di motivazione, sui limiti di applicabilità dell’art. 1226 cod. civ., come reso evidente dalla stessa formulazione del quesito di diritto, peraltro del tutto inidonea, non essendo ammissibile un quesito che si risolva in un interpello alla Corte di Cassazione circa la esatta interpretazione di una norma.

Nella giurisprudenza di legittimità si è infatti chiarito che "il quesito di diritto imposto dall’art. 366 bis cod. proc. civ., rispondendo all’esigenza di soddisfare l’interesse del ricorrente ad una decisione della lite diversa da quella cui è pervenuta la sentenza impugnata, ed al tempo stesso, con una più ampia valenza, di enucleare, collaborando alla funzione nomofilattica della S.C. di cassazione, il principio di diritto applicabile alla fattispecie, costituisce il punto di congiunzione tra la risoluzione del caso specifico e l’enunciazione del principio generale, e non può consistere in una mera richiesta di accoglimento del motivo o nell’interpello della Corte di legittimità in ordine alla fondatezza della censura così come illustrata nello svolgimento dello stesso motivo, ma deve costituire la chiave di lettura delle ragioni esposte e porre la Corte in condizione di rispondere ad esso con l’enunciazione di una regola juris che sia, in quanto tale, suscettibile di ricevere applicazione in casi ulteriori rispetto a quello sottoposto all’esame del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata" (Cass., n. 11535 del 2008).

In particolare, "il quesito di diritto non può essere desunto dal contenuto del motivo, poichè in un sistema processuale, che già prevedeva la redazione del motivo con l’indicazione della violazione denunciata, la peculiarità del disposto di cui all’art. 366 bis cod. proc. civ., introdotto dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 6, consiste proprio nell’imposizione, al patrocinante che redige il motivo, di una sintesi originale ed autosufficiente della violazione stessa, funzionalizzata alla formazione immediata e diretta del principio di diritto e, quindi, al miglior esercizio della funzione nomofilattica della Corte di legittimità" (Cass., ord. n. 20409 del 2008).

Il quesito di diritto, quindi, deve compendiare: "a) la riassuntiva esposizione degli elementi di fatto sottoposti al giudice di merito;

b) la sintetica indicazione della regola di diritto applicata dal quel giudice; c) la diversa regola di diritto che, ad avviso del ricorrente, si sarebbe dovuta applicare al caso di specie. E’, pertanto, inammissibile il ricorso contenente un quesito di diritto che si limiti a chiedere alla S.C. puramente e semplicemente di accertare se vi sia stata o meno la violazione di una determinata disposizione di legge" (Cass., ord. n. 19769 del 2008; Cass., S.U., n. 6530 del 2008; v. anche Cass., n. 28280 del 2008).

In ogni caso, occorre rilevare che la Corte d’appello, contrariamente a quanto sostenuto dalla ricorrente, ha ritenuto certa l’esistenza del danno per le molteplici, e protratte nel tempo, violazioni delle norme sulle distanze accertate all’esito del giudizio di appello, e si è limitata solo a evidenziare la impossibilità di quantificare un danno, peraltro ritenuto certo nell’an. Il ricorso deve quindi essere dichiarato inammissibile, con conseguente condanna della ricorrente al pagamento delle spese di legittimità, come liquidate in dispositivo.
P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in complessivi Euro 2.700,00, di cui Euro 2.500,00 per onorari, oltre alle spese generali e agli accessori di legge.

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T.A.R. Puglia Lecce Sez. I, Sent., 29-06-2011, n. 1208 Amministrazione pubblica

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Svolgimento del processo

A partire dal 15 ottobre 2007 la I. (I.P.M.) s.p.a. incorporava la "C.A." s.r.l., subentrando a questa nella titolarità di n. 2 depositi costieri per lo stoccaggio del gas propano liquido (GPL) allocati nel territorio del Comune di Brindisi.

In ordine ad uno dei due citati depositi veniva a suo tempo elaborato un progetto di ampliamento volto ad aumentare la capacità di stoccaggio da quasi 7 mila tonnellate ad oltre 17 mila tonnellate.

A tal fine nel mese di luglio 2006 veniva chiesto alla Regione Puglia di attivare le relative procedure di screening ambientale.

Con determinazione regionale n. 51 del 30 gennaio 2007 il progetto di ampliamento veniva assoggettato a valutazione di impatto ambientale.

Veniva allora proposto ricorso dinanzi a questo Tribunale che, con sentenza n. 51 del 2008, lo rigettava.

Il Consiglio di Stato, con sentenza n. 2991 del 18 giugno 2008, accoglieva il relativo appello riformando la citata sentenza di questa sezione. In particolare, si affermava che la determinazione regionale n. 51 del 2007 era illegittima in quanto, essendosi formato ai sensi dell’art. 16 della legge regionale n. 11 del 2003 il silenzioassenso sulla richiesta di screening del mese di luglio 2006, la Regione "avrebbe dovuto attivare un procedimento di secondo grado (id est, di autotutela) per la rimozione degli effetti, appunto, illegittimamente prodottisi per silentium, nel rispetto di tutte le garanzie procedimentali che la normativa e la giurisprudenza prescrivono in tal caso".

A seguito della pronunzia i lavori di ampliamento venivano completati e lo stabilimento pienamente attivato, per un investimento pari a 32 milioni 500 mila euro e con un numero di soggetti impiegati pari a 49 operai.

Tuttavia, con provvedimento n. 147 del 12 febbraio 2010 il dirigente del servizio ecologia della Provincia di Brindisi (ente questo nel frattempo divenuto competente, per delega di funzioni ai sensi della legge regionale n. 17 del 2007, in materia di rilascio della VIA) disponeva l’annullamento in autotutela del silenzio assenso formatosi sulla citata istanza di screening del 2006. Alla predetta decisione si perveniva "in considerazione dei rilevanti motivi di interesse pubblico che solo nell’ambito del procedimento di VIA possono essere oggetto di una attenta valutazione". In particolare, il silenzio maturatosi sulla predetta istanza sarebbe stato da ritenere illegittimo "in relazione alle oggettive e sostanziali motivazioni che hanno portato i competenti Uffici della Regione Puglia a ritenere necessaria la procedura di VIA". Inoltre: a) "ancorché i lavori per la realizzazione delle opere risultano già avviati ed il termine trascorso potrebbe non apparire ragionevole… la potenziale pericolosità dell’impianto per l’ambiente e la salute pubblica impone come doveroso da parte dell’amministrazione pubblica l’adozione di ogni necessario provvedimento affinché tutte le problematiche connesse vengano attentamente valutate"; b) "l’interesse generale di tutela dell’ambiente e della salute pubblica, in un contesto come quello dell’area industriale di Brindisi, già fortemente compromesso e caratterizzato dalla presenza di altri impianti ad elevato rischio di incidente rilevante, non può essere degradato in secondo ordine rispetto agli interessi della Società interessata". Nel provvedimento provinciale si riteneva dunque "di dover riaprire il procedimento istruttorio… di verifica di assoggettabilità a VIA… al fine di consentire una puntuale ed organica valutazione di tutti i possibili impatti che l’impianto in questione può produrre sull’ambiente e la salute pubblica". In conclusione, si annullava il silenzio sull’istanza di screening e si stabiliva di sottoporre a VIA il progetto di ampliamento in questione.

La citata determinazione provinciale veniva impugnata per i motivi di seguito sintetizzati:

a) incompetenza, in quanto la legge regionale n. 17 del 2007, se da un lato delega alle province le funzioni in materia di procedure di VIA (art. 2, comma 2), dall’altro lato afferma che i procedimenti avviati "alla data del 30 giugno 2007… sono espletati e portati a termine dalla Regione". Inoltre, l’art. 21nonies della legge n. 241 del 1990 prevede che gli atti di annullamento possono essere adottati "dall’organo che lo ha emanato";

b) violazione dell’art. 21nonies della legge n. 241 del 1990 e difetto di motivazione nella parte in cui il provvedimento di autotutela non sarebbe stato adottato "entro un termine ragionevole", considerato anche che nel frattempo gli investimenti ed i connessi lavori sono stati integralmente realizzati, nonché laddove non sarebbe stata operata una adeguata valutazione circa la sussistenza di un interesse pubblico alla rimozione dell’atto e ad una sua comparazione con altri interessi privati contrapposti. Interesse pubblico che sarebbe peraltro legato ad aspetti (rischio di incidenti rilevanti) che trovano le propria regolamentazione in altre discipline diverse dalla VIA.

Con atto di motivi aggiunti è stato impugnato, in sostanza ribadendo le stesse censure sopra indicate, anche la nota in data 30 marzo 2010 con la quale, in risposta all’istanza di autotutela presentata dalla società ricorrente, è stato in sostanza confermato il provvedimento in questa sede oggetto di gravame.

Si costituiva in giudizio la Provincia di Brindisi per chiedere il rigetto del ricorso.

Alla pubblica udienza del 23 febbraio 2011 le parti rassegnavano le proprie rispettive conclusioni ed il ricorso veniva infine trattenuto in decisione.

Motivi della decisione

1. Il primo motivo di ricorso è infondato in quanto, per giurisprudenza costante, se da un lato "di regola è consentito provvedere in via di autotutela soltanto all’organo che ha emanato l’atto… nel caso particolare in cui l’organo che ha emanato l’atto fosse in origine dotato della relativa competenza e questa sia stata successivamente trasferita ad un organo diverso, l’autotutela può essere esercitata soltanto dall’organo divenuto medio tempore competente, in quanto, venuta meno la competenza primaria, viene meno anche la potestà di caducazione o di revoca degli atti in precedenza ritualmente adottati" (T.A.R. Piemonte, sez. I, 23 giugno 2004, n. 1169; TAR Liguria, sez. I, 3 giugno 2005, n. 804; Cons. St., sez. V, 30 giugno 1995, n. 955; T.A.R. Piemonte, sez. II, 12 giugno 1986, n. 320; T.A.R. Calabria – Catanzaro, 9 novembre 1989, n. 1384; T.A.R. TrentinoAlto Adige – Bolzano, 24 marzo 1999, n. 97; T.A.R. Campania – Napoli, 28 marzo 2003, n. 3076).

In questa direzione, "il potere dell’annullamento d’ufficio di provvedimenti amministrativi illegittimi va riconosciuto all’organo che, nel momento in cui detto potere è concretamente esercitato, risulta dotato della competenza a provvedere nella specifica materia cui si riferisce l’atto da annullare, indipendentemente dalla circostanza che quest’ultimo sia stato emanato dallo stesso organo, oppure che in soggetta materia vi sia stato lo spostamento della competenza tra organi diversi della stessa amministrazione, oppure ancora che si sia verificata una successione di enti pubblici nel tempo. In quest’ultima situazione la competenza all’autotutela spetta all’ente successore; diversamente argomentando, si perverrebbe alla configurazione di una nuova categoria di atti amministrativi, sottratti definitivamente a qualsivoglia possibilità di revisione (annullamento o revoca) ed intangibili" (cfr. Cons. Stato, sez. V, 30 giugno 1995, n. 955).

D’altra parte, nella prospettiva della difesa di parte ricorrente si imporrebbe di intervenire in autotutela ad una amministrazione che, a prescindere dal caso di specie, nella gran parte dei casi non possederebbe più, per via dello spostamento di competenza, le necessarie risorse umane e tecniche onde (re)intervenire nel merito della questione da affrontare.

Né potrebbe valere l’obiezione sollevata dalla stessa difesa del ricorrente con riferimento all’enunciato di cui all’art. 10, comma 1, della legge regionale n. 17 del 2007, atteso che detta fattispecie normativa è diretta a disciplinare i procedimenti di VIA rimasti "aperti" alla data di entrata in vigore della suddetta legge e non quelli già "chiusi", sebbene per silentium, come nel caso di specie.

Per tali ragioni il primo motivo di censura deve essere rigettato.

2. E’ invece fondato il secondo motivo di ricorso, con il quale si lamenta la violazione dell’art. 21nonies a causa della mancanza dei presupposti in esso previsti.

Al riguardo va svolta qualche precisazione in ordine a quanto affermato nella sentenza n. 955 del 25 maggio 2011, in cui si è in effetti affermato che "l’interesse pubblico all’adozione di tali atti (n.d.r., di annullamento in autotutela) è in re ipsa quando ricorre una esigenza di tutela dell’ambiente, e ciò in diretta applicazione del principio di origine comunitaria di massima precauzione". In particolare, è stato altresì specificato che "in queste ipotesi… non sussiste uno specifico obbligo di motivazione in ordine alla sussistenza dell’interesse pubblico ed alla sua comparazione con gli interessi privati contrapposti, nonché in relazione al lasso di tempo eventualmente intercorso ed al conseguente affidamento sorto in capo a terzi (si consideri in proposito la mutevolezza delle condizioni ambientali, che possono determinare talune conseguenze negative anche ex post)".

In primo luogo, deve sottolinearsi che tale orientamento si è sviluppato in merito ai provvedimenti adottati in materia di tutela dell’ambiente e non con riferimento a provvedimenti formati in qualsivoglia materia per silentium: per questi ultimi, qualora ovviamente adottati al di fuori della materia ambientale, si applicano infatti gli ordinari meccanismi previsti per i provvedimenti espressi, e ciò in forza del richiamo delle disposizioni di cui agli artt. 21quinquies e 21nonies contenuto nell’art. 20, comma 3, della stessa legge generale sul procedimento amministrativo.

In secondo luogo, la attenuazione del rigore motivazionale circa la sussistenza di tutti i presupposti indicati dall’art. 21nonies (in sintesi: interesse pubblico all’annullamento, termine ragionevole e legittimo affidamento) non significa completo azzeramento di un siffatto obbligo.

In questa direzione sarà necessario, da un lato, fornire una sia pur minima motivazione in ordine all’interesse pubblico all’annullamento e dunque, in casi analoghi a quelli di specie, circa la sussistenza di potenziali rischi per l’ambiente e per la salute umana (valutazione questa che nel caso affrontato dalla citata sentenza di questa sezione era stata puntualmente operata dalla PA con riferimento alla esistenza di una falda acquifera fortemente inquinata proprio in relazione all’area oggetto di intervento); dall’altro lato, valutare la sussistenza di un termine ragionevole e di un legittimo affidamento maturato in capo ai soggetti privati interessati sulla base della concrete circostanze di fatto.

Sotto il primo profilo, la valutazione dell’interesse pubblico è stata effettuata in modo alquanto generico, mediante ampi richiami alla situazione di grave crisi ambientale dell’area di Brindisi, senza tuttavia fornire elementi seri e circostanziati da riconnettere allo specifico sito oggetto di intervento. Gli stessi richiami si rivelano anzi a tratti incongruenti, nella parte in cui si fa riferimento alla sussistenza di rischi di incidenti rilevanti, i quali rispondono ad una diversa regolamentazione peraltro rispettata, nel caso di specie, mediante la corretta attuazione delle procedure di cui al decreto legislativo n. 334 del 1999.

Sotto il secondo profilo occorre invece evidenziare che, a differenza del caso affrontato nella citata sentenza n. 955 del 2011 (in cui il provvedimento di VIA non aveva esplicato i propri effetti per la pendenza del procedimento per il rilascio dell’autorizzazione unica – i lavori non erano dunque ancora stati avviati – e dove, soprattutto, il provvedimento di autotutela era stato adottato subito dopo avere acquisito le valutazioni di pericolosità per l’ambiente e per la salute umana effettuate dalle altre amministrazioni competenti per materia), nell’ipotesi in contestazione non solo il provvedimento formatosi per silentium ha immediatamente sortito i propri effetti, con conseguente piena realizzazione dei lavori ed avvio dell’impianto, ma soprattutto l’atto di autotutela è stato adottato a notevole distanza (quasi venti mesi) dalla sentenza di appello con cui il Consiglio di Stato aveva ritenuto illegittimo il provvedimento di autotutela originariamente emesso dalla Regione Puglia, ossia dal momento in cui la Provincia di Brindisi era pienamente nelle condizioni di intervenire, nel senso sopra indicato, sia sotto l’aspetto del riparto di attribuzioni (visto che per le ragioni esposte al punto n. 1 la Provincia era sin da allora da ritenere competente in materia di VIA), sia sotto l’aspetto sostanziale (visto che il provvedimento impugnato reca in concreto le stesse ragioni poste alla base della determinazione regionale n. 51 del 2007), sia infine sotto l’aspetto procedimentale, mediante il ricorso alle procedure di cui all’art. 21nonies che il Consiglio di Stato aveva puntualmente richiamato nella citata sentenza.

Ne deriva da quanto detto la violazione dei parametri di cui all’art. 21nonies della legge n. 241 del 1990 ed il conseguente accoglimento del complessivo motivo di ricorso.

3. In conclusione il ricorso, assorbita ogni altra censura, è fondato, nei sensi e nei limiti sopra indicati, e deve essere accolto, con conseguente annullamento dell’atto provinciale in epigrafe indicato.

Stante la complessità della questione, sussistono in ogni caso giusti motivi per compensare integralmente tra le parti le spese di lite.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia Lecce – Sezione Prima, definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie e per l’effetto annulla la determinazione della Provincia di Brindisi n. 147 del 12 febbraio 2010.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

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