Cons. Giust. Amm. Sic., Sent., 07-11-2011, n. 784 Concorso

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Il comune di Porto Empedocle, all’esito di apposito sorteggio, ha nel mese di settembre del 2010 proclamato primo aggiudicatario di un appalto di lavori relativi alla darsena di ponente del locale porto turistico il Consorzio stabile Aedars soc. coop. a r.l. (d’ora in poi: Consorzio) e seconda aggiudicataria la S.ACO.S.E.M. – Società Appalti, Costruzioni Stradali, Edili, Marittime s.r.l. (d’ora in poi: Sacosem).

La Sacosem ha proposto ricorso, e successivi motivi aggiunti, al T.A.R. Palermo, sostenendo che l’aggiudicatario avrebbe dovuto essere escluso dalla gara (tra l’altro) perchè il suo legale rappresentante, nel rendere la dichiarazione sulla insussistenza di cause preclusive a carico di amministratori cessati, aveva premesso l’espressione "per quanto a mia conoscenza".

Con la sentenza in epigrafe indicata il Tribunale ha accolto il ricorso rilevando che tale puntualizzazione priva la relativa dichiarazione di ogni valore legale.

La sentenza è stata impugnata in via principale con l’atto di appello oggi all’esame dal soccombente Assessorato il quale deduce il proprio difetto di legittimazione passiva e chiede che l’UREGA sia estromesso dal giudizio.

La sentenza è stata impugnata in via incidentale autonoma dal Consorzio il quale ne chiede l’integrale riforma, previa sospensione dell’esecutività.

Si è costituita per resistere la Sacosem la quale, con successiva memoria, ha riproposto le doglianze assorbite in prime cure.

Con ordinanza n. 464 del 2011 questo Consiglio ha accolto l’istanza cautelare ai soli fini della fissazione dell’udienza di merito.

All’udienza dell’8 giugno 2011 l’appello è stato trattenuto in decisione.

Motivi della decisione

L’appello principale e quello incidentale sono fondati.

Per quanto riguarda l’appello principale va dato atto che nella presente controversia risultano applicabili i principi fissati da questo Consiglio con le recenti decisioni nn. 806 del 2010 e 8 del 2011, nelle quali si evidenzia che l’UREGA – laddove si sia limitato, come nel caso all’esame, a formulare una proposta di aggiudicazione di evidente natura endoprocedimentale – non è legittimato passivo rispetto all’impugnazione del provvedimento formale di aggiudicazione definitiva adottato da altro Ente.

Come postulato dall’Avvocatura erariale l’Assessorato – UREGA va quindi estromesso dal presente giudizio.

Si procede quindi all’esame dell’appello incidentale.

Destituita di fondamento è l’eccezione mediante la quale Sacosem deduce che tale appello sarebbe inammissibile, nella misura in cui non contesta specificamente il capo di sentenza nel quale si afferma che il Consorzio, all’atto di acquisizione del ramo di azienda, avrebbe potuto agevolmente acquisire documentazione attestante l’effettiva onorabilità degli amministratori della cedente.

L’affermazione cui l’appellata si riferisce infatti, nell’economia della sentenza impugnata, non stigmatizza un autonomo vizio della dichiarazione resa dal Consorzio ma supporta invece a livello argomentativo le conclusioni cui il Tribunale perviene in ordine alla inattitudine certificatoria della dichiarazione recante l’inciso "per quanto a conoscenza".

In termini chiari la sentenza impugnata non afferma – come vorrebbe l’appellata – che il Consorzio doveva invece della dichiarazione sostitutiva produrre documentazione acquisita all’atto della cessione; ma afferma invece che la dichiarazione non può recare puntualizzazioni limitative e che una dichiarazione incondizionata non è inesigibile, in quanto il dichiarante ben può premunirsi di idonea documentazione sul punto al momento della cessione.

Ciò premesso, con l’unico motivo di impugnazione il Consorzio appellante incidentale deduce che la dichiarazione per cui è controversia ha – diversamente da come opinato dal T.A.R. – pieno valore legale e comunque è stata redatta in conformità a precise indicazioni formulate dall’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici.

Il mezzo è fondato.

Nel caso in controversia è incontestata ai sensi del disciplinare la sussistenza dell’obbligo, per l’impresa partecipante alla gara, di presentare la dichiarazione circa l’inesistenza delle situazioni di cui all’art. 38 del codice appalti riferita anche agli amministratori di un’impresa estranea alla gara, dalla quale la partecipante avesse acquisito una azienda o un ramo di azienda prima della scadenza dei termini di partecipazione.

In adempimento di tale onere il legale rappresentante del Consorzio – premessa l’intervenuta acquisizione di un ramo d’azienda da altra impresa, indicati gli amministratori di questa e rappresentata l’impossibilità materiale e giuridica di acquisire da parte di tali soggetti la prescritta dichiarazione o il certificato del casellario – ha personalmente attestato il possesso, da parte dei suddetti, dei necessari requisiti di moralità professionale, in aderenza alle indicazioni provenienti dalla concorde giurisprudenza (cfr. per tutte C.G.A. n. 114 del 2008) e dall’Autorità di vigilanza.

Tanto chiarito in generale, si tratta allora di verificare nello specifico se la dichiarazione resa dal legale rappresentante – in quanto preceduta dall’inciso "per quanto a mia conoscenza" – debba considerarsi tamquam non esset, come statuito dalla sentenza impugnata.

Al riguardo una parte della giurisprudenza risulta in effetti orientata in senso sfavorevole alla tesi propugnata dall’appellante, osservando appunto che tale puntualizzazione rende del tutto priva di valore la dichiarazione rilasciata, venendo a mancare una vera e propria assunzione di responsabilità insita, invece, in tale tipo di dichiarazione ed alla base dell’affidamento che è chiamata a riporvi l’Amministrazione (cfr. V Sez. n. 375 del 2009).

A tale indirizzo si è di recente uniformato questo Consiglio, modificando l’opposto orientamento in precedenza adottato (cfr. C.G.A. n. 1153 del 2010).

Per contro, come osserva l’appellante incidentale, l’Autorità di vigilanza in molteplici e ripetute occasioni ha invece espressamente suggerito ai legali rappresentanti delle concorrenti di rendere dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà proprio con la clausola "per quanto a propria conoscenza" (cfr. A.V.C.P. determinazioni nn. 1/2010, 164/2008 e 101/2007).

A giudizio di questo Collegio l’impostazione seguita dall’Autorità merita di essere condivisa e conseguentemente il contrario indirizzo giurisprudenziale necessita di ripensamento, anche alla luce di recente sentenza del Consiglio di Stato che ha autorevolmente affrontato funditus l’argomento (cfr. IV Sez. n. 3862 del 2011).

Come ben risulta dalle norme in tema di documentazione amministrativa, infatti, la dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà non può che essere resa "per quanto a conoscenza" del dichiarante medesimo, non potendo questi procedere ad autocertificazione (con assunzione delle conseguenti responsabilità, anche penali, per dichiarazione mendace) su fatti, stati e qualità di terzi della cui veridicità non è detto che egli sia a conoscenza.

Significativamente, lo stesso art. 47 del D.P.R. n. 445 del 2000, appunto in tema di dichiarazioni sostitutive dell’atto notorio, prevede espressamente al comma 2 che "la dichiarazione resa nell’interesse proprio del dichiarante può riguardare anche stati, qualità personali e fatti relativi ad altri soggetti di cui egli abbia diretta conoscenza".

Addirittura, l’art. 46 (riguardante le dichiarazioni sostitutive di certificazioni e quindi dichiarazioni che riguardano stati e qualità del dichiarante stesso e non di terzi) al comma 1 lettera bb) consente al dichiarante di attestare "di non essere a conoscenza di essere sottoposto a procedimento penale": quindi secondo la legge il legale rappresentante dell’impresa concorrente può utilizzare la puntualizzazione quando dichiara per se stesso, mentre illogicamente – secondo l’indirizzo cui aderisce la sentenza impugnata – non potrebbe utilizzarla quando dichiara in relazione a terzi.

Conclusivamente, proprio perché il soggetto può rendere la dichiarazione afferente al terzo solo relativamente a stati, qualità e fatti "di cui abbia diretta conoscenza", in presenza di una norma (art. 38) che comunque richiede la predetta dichiarazione, quest’ultima non può che essere resa se non nel senso che essa attesta solo quanto è a conoscenza del dichiarante (IV Sez. sentenza n. 1182/2011 citata).

L’appello incidentale del Consorzio va quindi accolto.

Le censure assorbite in prime cure dal T.A.R. e qui riproposte da Sacosem non possono essere esaminate ai sensi dell’art. 101 c.p.a. il quale al comma 2 così dispone: "Si intendono rinunciate le domande e le eccezioni dichiarate assorbite o non esaminate nella sentenza di primo grado, che non siano state espressamente riproposte nell’atto di appello o, per le parti diverse dall’appellante, con memoria depositata a pena di decadenza entro il termine per la costituzione in giudizio".

Nel caso all’esame l’appello principale è stato notificato il 18 febbraio a Sacosem la quale si è costituita in data 2 marzo senza riproporre le doglianze assorbite.

Tali doglianze, ivi compresa quella relativa alla data di riferimento della dichiarazione, sono state invece riproposte con la memoria del 20 aprile: ma a quella data il termine di giorni trenta dalla ricevuta notifica dell’appello (previsto dall’art. 120 c.p.a. per la costituzione dell’appellato nel rito abbreviato) era ormai decorso.

Nè vista la chiara lettera della norma e considerato soprattutto il fatto che Sacosem si è costituita in giudizio per resistere all’appello principale il termine decadenziale potrebbe farsi decorrere dalla successiva notificazione dell’appello incidentale.

Sulla base delle considerazioni che precedono l’appello principale e l’appello incidentale vanno quindi accolti.

Ogni altro motivo od eccezione può essere assorbito in quanto ininfluente ed irrilevante ai fini della presente decisione.

Le spese del giudizio sono integralmente compensate nei confronti dell’Amministrazione mentre sono per il resto poste a carico dell’appellata nella misura forfetaria indicata in dispositivo.

P.Q.M.

Il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana in sede giurisdizionale, definitivamente pronunciando, così decide:

a) accoglie l’appello principale ed estromette l’Assessorato – UREGA dal giudizio;

b) accoglie l’appello incidentale del Consorzio, riforma la sentenza impugnata e respinge le impugnative proposte da Sacosem in primo grado;

c) compensa nei confronti dell’Amministrazione spese e onorari del giudizio;

d) condanna Sacosem al pagamento di Euro 2500,00 (duemilacinquecento/00) oltre accessori in favore del Consorzio per spese e onorari del giudizio.

Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’Autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

T.A.R. Lazio Roma Sez. II, Sent., 22-11-2011, n. 9156

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

CONSIDERATO:

– che con il ricorso in esame il ricorrente impugna il provvedimento indicato in epigrafe, con cui l’Amministrazione gli ha revocato la licenzataxi n.241;

– che la motivazione del provvedimento sanzionatorio in questione si basa sulla circostanza che il ricorrente avrebbe rifiutato per ben quattro volte la prestazione del servizio (richiestagli dagli utenti);

VISTI i motivi di gravame;

CONSIDERATO:

che con il primo mezzo di gravame il ricorrente lamenta violazione della L. n.241 del 1990 e dell’art.34 del regolamento comunale per la disciplina degli autoservizi, deducendo: a) che l’avvio del procedimento non gli è stato comunicato; b) che il provvedimento di sospensione della licenza e quello di definitiva revoca sono stati adottati contestualmente, il che non ha consentito al ricorrente di valutare la gravità della situazione venutasi a verificare in conseguenza del provvedimento di sospensione;

che con il secondo mezzo di gravame il ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione della L. reg. Lazio n.58 del 26.10.1993 e della L. n.21 del 15.1.1992, deducendo che l’Amministrazione gli ha comminato la sanzione della revoca della licenza, mentre la sanzione comminabile per la fattispecie era quella della cancellazione dal ruolo e della sospensione della licenza;

RITENUTO:

che il ricorso meriti accoglimento sia per il secondo profilo di cui al primo motivo, sia per il secondo motivo di gravame;

che, infatti, l’Amministrazione avrebbe dovuto dapprima adottare la sanzione della sospensione e notificarla al ricorrente; e poi, in diversa e successiva data, quella della revoca della licenza. E che non avendo seguito tale iter procedimentale, non ha consentito al ricorrente di valutare, con opportuna cognizione di causa, la gravità della situazione determinatasi (a suo carico) a seguito dell’irrogazione della sanzione della sospensione;

che, in ogni caso, ai sensi della normativa invocata, per la fattispecie dedotta in giudizio (quarto rifiuto di prestare servizio) la massima sanzione comminabile era quella della sospensione e non anche quella della revoca della licenza;

RITENUTO, in definitiva, che il ricorso meriti accoglimento, con conseguente annullamento del provvedimento di revoca impugnato, e che sussistono giuste ragioni per compensare le spese fra le parti;

P.Q.M.

definitivamente pronunciando, accoglie il ricorso; e, per l’effetto, annulla il provvedimento impugnato.

Compensa le spese fra le parti.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 10-10-2011) 10-11-2011, n. 40968

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. – F.F.M.I. ricorre per cassazione avverso la sentenza resa il 22.03.2010 dal Tribunale di Crema con la quale a suo carico, imputato del reato del reato di cui all’art. 14, comma 5- quater nonchè del reato di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 6, comma 3, è stata applicata, ai sensi dell’art. 444 c.p.p. ed unificati i reati a mente dell’art. 81 c.p., la pena di mesi nove di reclusione. A sostegno dell’impugnazione il ricorrente lamenta difetto di motivazione in ordine alla severità della pena e circa la mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche.

2. Il ricorso è fondato, ancorchè per ragioni diverse da quelle difensivamente illustrate.

3.1 – Quanto al reato di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 14, comma 5 quater, si osserva che, in data 28 aprile 2011, è stata depositata la sentenza emessa dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea nel procedimento C-61/11 PPU, avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale ai sensi dell’art. 267 TFUE, proposta dalla Corte d’appello di Trento nell’ambito del procedimento a carico di H.E.D., imputato del reato di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 14, comma 5-ter, in relazione alla direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 16 dicembre 2008, 2008/115/CE, recante "norme e procedure comuni applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare".

Con tale sentenza la Corte europea afferma che "la direttiva 2008/115, in particolare i suoi artt. 15 e 16, deve essere interpretata nel senso che essa osta ad una normativa di uno Stato membro, come quella in discussione nel procedimento principale, che preveda l’irrogazione della pena della reclusione al cittadino di un paese terzo il cui soggiorno sia irregolare per la sola ragione che questi, in violazione di un ordine di lasciare entro un determinato termine il territorio di tale Stato, permane in detto territorio senza giustificato motivo".

Spetta perciò al giudice nazionale "disapplicare ogni disposizione del D.Lgs. n. 286 del 1998 contraria al risultato della direttiva 2008/115, segnatamente l’art. 14, comma 5-ter, di tale D.Lgs.", tenendo altresì nel debito conto il principio "dell’applicazione retroattiva della pena più mite, il quale fa parte delle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri". 3.2 – La pronunzia richiamata è stata assunta, come detto, in relazione all’ipotesi del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 14, comma 5- ter.

Ritiene tuttavia il Collegio che le conclusioni ivi raggiunte valgano, a fortiori, per il reato previsto dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 14, comma 5-quater, cui si riferisce la sentenza oggetto di ricorso.

3.3. – A ragione della decisione, la Corte di giustizia ha osservato:

– che la successione delle fasi della procedura di rimpatrio stabilita dalla direttiva 2008/115 risponde a una esigenza di "gradazione delle misure da prendere per dare esecuzione alla decisione di rimpatrio, gradazione che va dalla misura meno restrittiva per la libertà dell’interessato – la concessione di un termine per la sua partenza volontaria – alla misura che maggiormente limita la sua libertà – il trattenimento in un apposito centro -, fermo restando in tutte le fasi di detta procedura, l’obbligo di osservare il principio di proporzionalità";

– che, in quest’ottica, persino il trattenimento, che rappresenta la misura più restrittiva della libertà consentita dalla direttiva, è strettamente regolamentato, quanto a durata e modalità, "allo scopo di assicurare il rispetto dei diritti fondamentali dei cittadini interessati dei paesi terzi" e di "limitare la privazione della libertà dei cittadini di paesi terzi in situazione di allontanamento coattivo" entro termini ragionevoli – vale a dire non superiori al tempo necessario per raggiungere lo scopo perseguito – e i più brevi possibili – in conformità all’ammonizione già impartita dall’ottavo dei "Venti orientamenti sul rimpatrio forzato" adottati il 4 maggio 2005 dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa;

– che gli Stati membri non possono introdurre, al fine di ovviare all’insuccesso delle misure coercitive adottate per procedere al rimpatrio coattivo conformemente all’art. 8 n. 4 della direttiva, una pena detentiva quale quella prevista dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 14, comma 5-ter, "solo perchè un cittadino di un paese terzo, dopo che gli è stato notificato un ordine di lasciare il territorio di uno Stato membro e che il termine impartito con tale ordine è scaduto, permane in maniera irregolare nel territorio nazionale", dovendo "essi Stati invece, continuare ad adoperarsi per dare esecuzione alla decisione di rimpatrio, che continua a produrre i suoi effetti";

– che una regolamentazione nazionale quale quella oggetto d’esame finisce per ostacolare la stessa applicazione delle misure di cui all’art. 8, n. 1, della direttiva medesima (in base alla quale "Gli Stati membri adottano tutte le misure necessarie per eseguire la decisione di rimpatrio qualora non sia stato concesso un periodo per la partenza volontaria a norma dell’art. 7, paragrafo 4, o per mancato adempimento dell’obbligo di rimpatrio entro il periodo per la partenza volontaria concesso a norma dell’art. 7") e ritardare l’esecuzione della decisione di rimpatrio.

3.4. – Anche la fattispecie prevista dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 14, comma 5-quater, riguarda la mera "violazione" della intimazione impartita, per di più serialmente, nei confronti dello straniero in condizione di soggiorno irregolare e trova causa esclusiva nella perdurante mancanza di "cooperazione" all’allontanamento volontario.

Necessariamente presupponendo l’esistenza anche di una precedente contestazione ai sensi dell’art. 14, comma 5-ter, meno ancora (rispetto a questa) risponde ad esigenze di proporzionalità e a criteri di adeguatezza con riguardo al tempo di restrizione strettamente necessario per il conseguimento dello scopo espulsivo che dovrebbe giustificare l’intervento limitativo della libertà personale. E la dimostrazione che l’apparato statuale abbia posto in essere ogni ragionevole sforzo per dare esecuzione alla decisione di rimpatrio rispettando la gradazione procedi mentale imposta dalla direttiva, non soltanto non è richiesta dalla disposizione incriminatrice, ma mediante il richiamato art. 14, comma 5-bis risulta inaccettabilmente sostituita dal mero reiterato riferimento alla obiettiva impossibilità di dar corso alla espulsione coattiva o di trattenere lo straniero presso un centro di identificazione ed espulsione, in ipotesi anche a causa dell’inutile decorso dei tempi di permanenza in tale struttura.

Se dunque lo scopo della direttiva 2008/115 è quello di garantire che lo Stato membro compia ogni ragionevole sforzo per attuare la politica di rimpatrio nel rispetto dei diritti fondamentali dei cittadini dei paesi terzi, e di impedire che la privazione della libertà di costoro si protragga, nonostante l’impegno statuale, oltre limiti accettabili e proporzionati al fine espulsivo concretamente da perseguire, il comando impartito dalla Corte europea al giudice nazionale, di "disapplicare ogni disposizione del D.Lgs. n. 286 del 1998" contraria al risultato che la direttiva intende perseguire, non può che essere inteso come riferito anche al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 14, comma 5-quater.

4. – La decisione della Corte di Giustizia, interpretando in maniera autoritativa il diritto dell’Unione con effetto diretto per tutti gli Stati membri e le rispettive giurisdizioni, incide sul sistema normativo impedendo la configurabilità del reato. L’effetto è paragonabile a quello della legge sopravvenuta (cfr. C. Cost. nn. 255 del 1999, 63 del 2003, 125 del 2004 e 241 del 2005 secondo cui "i principi enunciati nella decisione dalla Corte di giustizia si inseriscono direttamente nell’ordinamento interno, con il valore di jus superveniens, condizionando e determinando i limiti in cui quella norma conserva efficacia e deve essere applicata anche da parte del giudice nazionale") con portata sostanzialmente (tamquam non esset) abolitrice della norma incriminatrice.

Non può a tale proposito ingenerare incertezze il riferimento contenuto, nella sentenza E.D., alla applicabilità della "pena più mite". Nell’ordinamento non residuano ipotesi residuali di reato che possano ritenersi interamente contenute nella contestazione D.Lgs. n. 286 del 1998, ex art. 14, comma 5-quater, idonee a riespandersi senza necessità alcuna di integrazione a fronte della disapplicazione della fattispecie in esame.

Il richiamo alle tradizioni costituzionali comuni e ai diritti fondamentali rende per altro evidente che i principi evocati sono quelli elaborati, anche dalla Corte EDU, in tema di art. 7 della Convenzione, mentre la sentenza della CtGUE lager, pure richiamata (e che tratta di sanzioni amministrative), palesa come nel linguaggio della Corte il termine "pene" si riferisca a qualsivoglia regime sanzionatorio o afflittivo, non necessariamente corrispondente ad un trattamento "penale" secondo l’ordinamento italiano.

5. – In relazione a fattispecie quale quella in esame, realizzata prima della scadenza dei termini per il recepimento della direttiva, deve per conseguenza affermarsi che il fatto non è più preveduto dalla legge come reato.

La formula è in linea con quanto già ritenuto, in relazione a ipotesi in qualche modo simile, da questa Corte, sez. 1, sentenza del 20.1.2011, imp. Titas Luca, allorchè ha osservato che la pronunzia della Corte di Giustizia che accerta l’incompatibilità della norma incriminatrice con il diritto europeo (si trattava del caso Schwibbert) "si incorpora nella norma stessa e ne integra il precetto con efficacia immediata" (cfr. Corte Cost. nn. 13 del 1985, 389 del 1989, 168 del 1991), così producendo "una sorta di abolitio criminis" che impone, in forza di interpretazione costituzionalmente necessitata, di estendere a siffatte situazioni di sopravvenuta inapplicabilità della norma incriminatrice nazionale, la previsione dell’art. 673 cod. proc. pen..

6. – Osserva infine la Corte che il recente decreto L. 23 giugno 2011, n. 89, convertito con modificazioni in L. 2 agosto 2011, n. 129, recante disposizioni urgenti per il completamento dell’attuazione alla direttiva suindicata sulla libera circolazione dei cittadini comunitari e per il recepimento della direttiva sul rimpatrio di cittadini di paesi terzi irregolari, ha novato le fattispecie di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 14, commi 5-ter e quater, ma tale intervento del legislatore non ha realizzato una continuità normativa con la precedente disposizione, ancorchè sostanzialmente confermata l’intervenuta abolitio criminis. A tali conclusioni perviene il Collegio non soltanto per lo iato temporale intercorrente con l’effetto della direttiva, ma anche per la diversità strutturale dei presupposti e la differente tipologia della condotta necessari per l’integrazione dell’illecito delineato.

Al riguardo è sufficiente infatti rilevare che, nella nuova disciplina, alla intimazione di allontanamento si può pervenire solo all’esito infruttuoso dei meccanismi agevolatori della partenza volontaria ed allo spirare del periodo di trattenimento presso un centro a ciò destinato (CIE), di guisa che non può non convenirsi sulla conclusione ermeneutica che il decreto legge anzidetto ha introdotto una nuova figura di reato, in quanto tale applicabile soltanto alle condotte consumate dopo l’entrata in vigore della novella.

7. – Quanto, invece, al reato di cui all’art. 6, comma 3, stesso D.Lgs., giova rammentare che il D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 6, comma 3, è stato modificato ad opera della L. 15 luglio 2009, n. 9, art. 1, comma 22, lett. che punisce l’inottemperanza "all’ordine di esibizione del passaporto o di altra documento di identificazione e del permesso di soggiorno o di altro documento attestante la regolare presenza nel territorio dello Stato".

Le Sezioni Unite di questa Corte, con una recente decisione condivisa dal Collegio (Sez. Un. 24 febbraio 2011), hanno stabilito che la modificazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 6, comma 3, ad opera della L. 15 luglio 2009, n. 94, art. 1, comma 22, ha circoscritto i soggetti attivi del reato di inottemperanza "all’ordine di esibizione del passaporto o di altra documento di identificazione e del permesso di soggiorno o di altro documento attestante la regolare presenza nel territorio dello Stato" esclusivamente agli stranieri "legittimamente" soggiornanti nel territorio dello Stato, con conseguente abolitio criminis per gli stranieri extracomunitari irregolari.

Poichè nel caso di specie si verte in un caso di contestazione del reato di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 6 ad un cittadino extracomunitario irregolare, deve riconoscersi la piena fondatezza dell’argomentazione del giudice di prime cure, immeritevole delle censure articolate dal rappresentante della pubblica accusa.

8. – In conclusione la sentenza impugnata va annullata senza rinvio perchè i fatti non sono previsti dalla legge come reato.

P.Q.M.

la Corte annulla senza rinvio la sentenza impugnata perchè i fatti non sono previsti dalla legge come reato.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

T.A.R. Puglia Bari Sez. II, Sent., 02-01-2012, n. 10 Libertà di circolazione e soggiorno

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/
Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Oggetto della presente impugnativa è il provvedimento in epigrafe di rigetto della domanda di emersione dal lavoro irregolare, presentata dal datore di lavoro, sig. V.F..

Il ricorso è infondato.

Va, per motivi di ordine logico, esaminata e disattesa la dedotta censura di violazione dell’art. 10-bis, L. 7 agosto 1990, n. 241. Infatti il preavviso di rigetto non comporta l’automatica illegittimità del provvedimento finale, in quanto trova invece applicazione l’art. 21-octies della stessa legge, secondo il quale il giudice non può annullare il provvedimento per vizi formali, che non abbiano inciso sulla legittimità sostanziale del provvedimento. (in senso conforme T.A.R. Sicilia Palermo, sez. I, 23 marzo 2011 , n. 541).

Orbene, il suddetto provvedimento è motivato in base alle risultanze delle indagini svolte dal S.U.I. presso l’Agenzia delle Entrate in merito al reddito dichiarato dal predetto datore di lavoro ai fini della sanatoria in questione, da cui è emerso che il reddito autocertificato non risulta dichiarato.

Le argomentazione di parte ricorrente, pur abilmente formulate, non appaiono tuttavia idonee al fine di conseguire la regolarizzazione.

In proposito il Collegio condivide l’orientamento giurisprudenziale (cfr. T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. II, 28 marzo 2011, n. 817, con i precedenti ivi riportati; TAR Toscana, II, n. 918/2011; TAR Lombardia, Brescia, L. n. 493 del 2011, T.A.R. Emilia Romagna Bologna, sez. II, 23 giugno 2011 , n. 536 e varie decisioni di questa Sezione ex multis n. 1355/2011), secondo cui il procedimento di emersione ex art. 1-ter della L. n. 102 del 2009 è rimesso all’iniziativa esclusiva del datore di lavoro, la cui mancata attivazione per la positiva definizione del procedimento, preclude alla P.A. l’adozione di un provvedimento finale favorevole all’ emersione del lavoratore straniero.

A sostegno di tale conclusione è sufficiente richiamare il comma 2 dell’art. 1-ter cit., il quale condiziona l’avvio del procedimento di emersione all’impulso del solo datore di lavoro, con l’esclusione di ogni potere di impulso in capo allo straniero lavoratore irregolare.

La suddetta statuizione non consente che l’emersione del lavoro irregolare possa essere effettuata in assenza dei requisiti normativamente sanciti.

Infatti il datore di lavoro, in violazione di espressa statuizione legislativa (cfr. art.1-ter, comma 4, lett.d) del D.L. n. 78 del 2009 conv. con L. n. 102 del 2009), non ha documentato il possesso di un reddito imponibile minimo "risultante dalla dichiarazione dei redditi", non inferiore Euro.20.000,00 o a Euro.25.000,00 annui -rispettivamente in caso di nucleo familiare composto da un solo soggetto percettore di reddito ovvero composto da più soggetti conviventi percettori di reddito.

La carenza di tale requisito comporta che la dichiarazione di emersione non possa trovare accoglimento, trattandosi dell’assunzione di un lavoratore adibito al lavoro domestico di sostegno al bisogno familiare.

D’altronde la puntuale istruttoria espletata dall’intimata Amministrazione e di cui si fa cenno nella nota della Prefettura, prodotta in giudizio in data 24 agosto 2010, ha evidenziato una serie di comportamenti del sig. F., in ordine ai quali l’Amministrazione ha informata la Procura della Repubblica, avendo rilevato che il suddetto soggetto risultava il legale rappresentante di più società, che hanno provveduto al rilascio di vari CUD a favore di vari soggetti, con i quali si assume l’assunzione.

In base alle suesposte considerazioni, il ricorso va pertanto respinto.

Sussistono giusti motivi per disporre la compensazione delle spese del giudizio tra le parti.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia (Sezione Seconda), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Bari nella camera di consiglio del giorno 30 novembre 2011 con l’intervento dei magistrati:

Sabato Guadagno, Presidente, Estensore

Antonio Pasca, Consigliere

Roberta Ravasio, Referendario

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