Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 11-07-2012, n. 11680 Sanzioni disciplinari

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con distinti ricorsi M.C. ha adito il Tribunale di Venezia impugnando le sanzioni disciplinari irrogatele il 15 ed il 23 marzo 2005, nonchè il successivo licenziamento del 9 giugno 2005.

A fondamento delle domande ha esposto di essere stata reintegrata nel posto di lavoro a seguito di provvedimento cautelare, e di essere stata successivamente sottoposta a continue vessazioni.

Ha inoltre esposto che le sanzioni disciplinari impugnate rientravano nell’ambito di una strategia aziendale diretta ad umiliarla, isolarla nel luogo di lavoro per poi espellerla definitivamente dall’azienda.

Ha quindi chiesto l’annullamento delle sanzioni conservative e del licenziamento e la condanna della resistente alla reintegrazione nel posto di lavoro ed al risarcimento dei danni, patrimoniali e non patrimoniali, subiti.

La società resistente si costituiva in entrambi i giudizi contestando la fondatezza delle domande.

Riunite le cause, con sentenza del 29 aprile 2008 il Tribunale respingeva entrambe le domande.

Avverso tale sentenza ha proposto appello la M.; resisteva la società Impresa Verde Venezia.

La Corte d’appello di Venezia, con sentenza depositata il 26 ottobre 2009, respingeva il gravame.

Per la cassazione di quest’ultima propone ricorso la M., affidato a tre motivi.

Resiste la società con controricorso, contenente ricorso incidentale condizionato.
Motivi della decisione

1. Con il primo motivo la M. denuncia una omessa o contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, e cioè l’ammissibilità ed attendibilità delle testimonianze rese dai dipendenti del datore di lavoro, di cui riportava diffusamente le deposizioni, quale unico fondamento probatorio della decisione impugnata.

Si duole in sostanza la ricorrente che la Corte di merito abbia ritenuto erroneamente attendibili i testi indicati dalla datrice di lavoro, autori essi stessi dei comportamenti discriminatori denunciati.

Il motivo è inammissibile per sottoporre alla Corte un riesame delle risultanze istruttorie, chiedendone in sostanza una diversa valutazione da parte del giudice di legittimità.

Deve al riguardo evidenziarsi che il controllo di logicità del giudizio di fatto, consentito dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) non equivale alla revisione del "ragionamento decisorio", ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che una simile revisione, in realtà, non sarebbe altro che un giudizio di fatto e si risolverebbe sostanzialmente in una sua nuova formulazione, contrariamente alla funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità; ne consegue che risulta del tutto estranea all’ambito del vizio di motivazione ogni possibilità per la Corte di cassazione di procedere ad un nuovo giudizio di merito attraverso l’autonoma, propria valutazione delle risultanze degli atti di causa. Del resto, il citato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, non conferisce alla Corte di cassazione il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione operata dal giudice del merito al quale soltanto spetta individuare le fonti del proprio convincimento, e, in proposito, valutarne le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, scegliendo, tra le varie risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione (Cass. 6 marzo 2006 n. 4766; Cass. 25 maggio 2006 n. 12445; Cass. 8 settembre 2006 n. 19274; Cass. 19 dicembre 2006 n. 27168; Cass. 27 febbraio 2007 n. 4500; Cass. 26 marzo 2010 n. 7394).

Ciò premesso deve considerarsi che è comunque inammissibile il ricorso nel quale l’esposizione sommaria dei fatti, e lo stesso vale per l’esposizione dei motivi di diritto ex art. 366 c.p.c., n. 4, sia compiuta, come nella specie, attraverso la integrale trascrizione degli atti del giudizio di merito. Tale modalità, infatti, equivale nella sostanza ad un mero rinvio agli atti di causa e viola, di conseguenza, il principio di autosufficienza del ricorso, imponendo alla Corte di enucleare le ragioni ed i fatti storici posti a fondamento del ricorso ed in tesi non correttamente valutati dal giudice di merito (cfr. Cass. sez.un. ord. n. 19255/10; Cass. n. 6279/11; Cass. n. 1716/12, Cass. n. 1905/12; Cass. sez. un. n. 5698/12).

2. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia omessa e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, e cioè la proporzionalità delle sanzioni inflitte.

Lamenta che i giudici di appello avrebbero dovuto meglio considerare che le testimonianze offerte dalla convenuta erano certamente interessate o forzate dalla necessità di conservare il posto di lavoro.

Anche tale motivo è inammissibile.

Ed invero, come sopra evidenziato, spetta unicamente al giudice del merito individuare le fonti del proprio convincimento, e, in proposito, valutarne le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, scegliendo, tra le varie risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione (ex plurimis, Cass. 21 luglio 2010 n. 17097).

Deve peraltro notarsi che l’inattendibilità dei testimoni, non ravvisabile di per sè nel fatto che si tratti di soggetti dipendenti del datore di lavoro (Cass. 3 febbraio 1993 n. 1341), deve essere fatta valere nelle forme previste dal codice di rito (art. 252 c.p.c.) e non risulta che la parte, che comunque nulla specifica al riguardo, vi abbia provveduto.

Quanto alla censura inerente la sproporzione della sanzione, osserva la Corte che la ricorrente si limita a richiamare taluni principi affermati da questa S.C. in ordine alla proporzionalità delle sanzioni disciplinari, senza tuttavia specificare, in contrasto col principio di autosufficienza, per quale ragione la sanzione in contestazione violerebbe il canone di cui all’art. 2106 cod. civ..

3. Con il terzo motivo la ricorrente denuncia omessa e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, relativamente cioè al mancato risarcimento del danno da mobbing, valorizzando solo le deposizioni di taluni testimoni escussi e non altre, ed in ordine alla mancata ammissione dei testimoni indicati dalla ricorrente.

Anche tale motivo risulta inammissibile per richiedere alla Corte un riesame delle emergenze istruttorie, ed inoltre per non considerare che, in difetto di più specifiche censure, l’ammissione dei testi o la mancata audizione degli ulteriori testi indicati in ricorso, costituisce un potere tipicamente discrezionale del giudice di merito, non censurabile in sede di legittimità, ed esercitabile anche nel corso dell’espletamento della prova, potendo il giudice non esaurire l’esame di tutti i testi ammessi qualora, per i risultati raggiunti, ritenga superflua l’ulteriore assunzione della prova. Tale ultima valutazione non deve essere necessariamente espressa, potendo desumersi per implicito dal complesso della motivazione della sentenza (Cass. 22 aprile 2009 n. 9551).

La ricorrente inoltre, in contrasto col principio di autosufficienza, neppure indica quali testi e su quali circostanze il giudice d’appello avrebbe omesso di ammettere la prova.

4. Il ricorso principale deve pertanto dichiararsi inammissibile, restando così assorbito quello incidentale.

Le spese di causa seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi; dichiara inammissibile il ricorso principale ed assorbito quello incidentale.

Condanna la ricorrente principale al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in Euro 40,00 per esborsi, Euro 2.500,00 per onorari, oltre spese generali, i.v.a. e c.p.a..

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 24 maggio 2012.

Depositato in Cancelleria il 11 luglio 2012

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 30-01-2013) 12-02-2013, n. 6850

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Svolgimento del processo

1. Con ordinanza del 17.4.2012 la Corte d’appello di Genova, quale giudice dell’esecuzione, rigettava l’istanza di applicazione del regime del reato continuato avanzata da A.L. in relazione alle sentenze Corte d’appello di Genova nelle date del 25.6.2009 e 23.9.2010, sul presupposto che si aveva riguardo a reati fra loro eterogenei (D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 e artt. 582-585 cod. pen /violaz. legge armi) non risultati legati fra loro da alcuna progettualità comune, progettualità non desumibile dal solo fatto che i due reati erano temporalmente non distanti.

2. Avverso tale pronuncia, ha proposto ricorso per Cassazione la difesa del prevenuto, per dedurre mancanza di motivazione, per avere omesso la corte di valutare lo stato di tossicodipendenza dell’istante.

3. Il Procuratore Generale ha chiesto di dichiarare inammissibile il ricorso.

Motivi della decisione

Il ricorso è manifestamente infondato e come tale va dichiarato inammissibile.

I giudici a quibus hanno correttamente valorizzato quale motivo ostativo a fare ravvisare l’unicità dell’ispirazione delle due azioni delittuose il fatto che si ha riguardo a due fattispecie di reato assolutamente eterogenee, non risultate legate da alcun nesso indicativo di progettualità comune. In tali condizioni non poteva essere considerato quale collante il fattore della tossicodi pendenza, adombrato nell’istanza con l’allegazione di certificazioni del SERT, atteso che nulla è stato addotto dal ricorrente a comprova della correlazione tra il primo reato per cui riportò condanna ed il reato di lesioni dolose e porto di arma comune da sparo (reato verosimilmente consumato in un contesto a sfondo criminogeno e frutto di occasionale deliberazione), se non il dato evidenziato in sede di ricorso che, andando a notificare l’ordinanza di custodia cautelare in carcere per il fatto di sangue, i militari rinvennero, in sede di perquisizione un chilo di hashish , fatto per cui intervenne la prima delle condanne suindicate. E’ più che evidente che la circostanza che un reato sia stato accertato in occasione della perquisizione ordinata in sede di indagini per un secondo reato non può istituire di per sè alcun collegamento tra i reati; la sola comunanza di contestualità di indagini è indice assolutamente inadeguato ed insufficiente a dimostrare un’ispirazione comune ad un progetto previamente deliberato ed accumunante le due diverse violazioni. E’ quindi più che ragionevole che i giudici dell’esecuzione non abbiano neppure preso in considerazione il profilo della tossicodipendenza, non adeguato a colmare un vuoto dimostrativo dell’intreccio delle due condotte (una delle quali non stimolata dalla tossicodipendenza), cosicchè suona assolutamente forzata la censura, del tutto generica quanto all’incidenza che tale condizione ai fini della configurabilità della continuazione, in termini di mancanza di motivazione.

Si impone la dichiarazione di inammissibilità del ricorso; a tale declaratoria, riconducibile a colpa del ricorrente, consegue la sua condanna al pagamento delle spese del procedimento e di somma che congruamente si determina in Euro mille, a favore della cassa delle ammende, giusto il disposto dell’art. 616 c.p.p., così come deve essere interpretato alla luce della sentenza della Corte Costituzionale n. 186/2000.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro mille alla cassa delle ammende.

Così deciso in Roma, il 30 gennaio 2013.

Depositato in Cancelleria il 12 febbraio 2013

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Corte cost. 29-12-2008 (03-12-2008), n. 447 (ord.) Sanità pubblica – Componenti del collegio sindacale delle ASL – Disciplina del procedimento di nomina e relative guarentigie

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

ORDINANZA
Nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 3-ter, comma 2 (recte comma 3), del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 (Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell’articolo 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), aggiunto dall’art. 3, comma 3, del decreto legislativo 19 giugno 1999, n. 229 (Norme per la razionalizzazione del Servizio sanitario nazionale, a norma dell’articolo 1 della legge 30 novembre 1998, n. 419), promosso con ordinanza del 26 novembre 2007 dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio su ricorso proposto da D.D.M. contro il Ministero della Salute ed altri, iscritta al n. 264 del registro ordinanze del 2008 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 37, prima serie speciale, dell’anno 2008.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 3 dicembre 2008 il Giudice relatore Sabino Cassese.
Ritenuto che il Tribunale amministrativo regionale del Lazio, sezione III-quater, con ordinanza del 26 novembre del 2007 (r.o. n. 264 del 2008), ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 3-ter, comma 2 (recte comma 3), del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 (Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell’articolo 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), aggiunto dall’art. 3, comma 3, del decreto legislativo 19 giugno 1999, n. 229 (Norme per la razionalizzazione del Servizio sanitario nazionale, a norma dell’articolo 1 della L. 30 novembre 1998, n. 419) per violazione dell’art. 97 della Costituzione;
che l’art. 3-ter, comma 3, del d.lgs. n. 502 del 1992 prevede che: «Il collegio sindacale dura in carica tre anni ed è composto da cinque membri, di cui due designati dalla regione, uno designato dal Ministro del tesoro, del bilancio e della programmazione economica, uno dal Ministro della sanità e uno dalla Conferenza dei sindaci; per le aziende ospedaliere quest’ultimo componente è designato dall’organismo di rappresentanza dei comuni. I componenti del collegio sindacale sono scelti tra gli iscritti nel registro dei revisori contabili istituito presso il Ministero di grazia e giustizia, ovvero tra i funzionari del Ministero del tesoro, del bilancio e della programmazione economica che abbiano esercitato per almeno tre anni le funzioni di revisori dei conti o di componenti dei collegi sindacali»;
che il Tribunale rimettente riferisce che il ricorrente nel giudizio principale, in un primo momento designato dal Ministro della salute e nominato quale componente del collegio sindacale dell’azienda ospedaliera «Ospedale di Circolo di Busto Arsizio», ha impugnato il provvedimento con cui il Ministro della salute ha revocato il provvedimento di designazione, nonché i provvedimenti di designazione e nomina del nuovo componente, controinteressato nel giudizio principale;
che il giudice a quo riferisce, altresì, che nel giudizio principale si è costituito il Ministero della salute, chiedendo il rigetto del ricorso;
che il Tribunale rimettente, dopo aver affermato, in via pregiudiziale, la propria giurisdizione sulla controversia in oggetto, osserva che la norma censurata disciplina in maniera del tutto sommaria la modalità di designazione dei membri del collegio sindacale e non specifica alcunché relativamente alle «guarentigie di status dei suoi componenti»;
che tali lacune, secondo il rimettente, avrebbero l’effetto di attribuire all’amministrazione un potere arbitrario di revoca e di designazione di componenti dei collegi sindacali;
che, infatti, ritiene il rimettente che «in un sistema nel quale la designazione è avvenuta non in base a trasparenti procedure comparative ma sulla base di una totalmente immotivata cooptazione dell’organo politico dei prescelti, non possa non essere riconosciuto al nuovo vertice politico un corrispondente potere di revocare arbitrariamente le nomine, altrettanto arbitrarie, del suo predecessore»;
che, di conseguenza, ove si ritenesse costituzionalmente legittimo un simile sistema normativo, dovrebbe «ammettersi che, in caso di mutamento dei vertici politici o, comunque, del venir meno del rapporto fiduciario, la revoca della rappresentanza istituzionale del soggetto designante debba essere ritenuta […] comunque sempre discrezionalmente ammissibile, previo l’indennizzo di cui all’art. 21 quinquies della legge 7 agosto 1990, n. 241 […] al di fuori dei casi di dimissioni, decadenza o decesso»;
che in ciò, ad avviso del giudice a quo, «sta la rilevanza della questione» nel giudizio principale;
che, in punto di non manifesta infondatezza, il Tribunale rimettente reputa che le disposizioni censurate siano costituzionalmente illegittime, da un lato, perché non prevedono la necessità di una procedura di selezione «tecnica e neutrale dei più capaci» che consenta la designazione «indipendentemente da ogni considerazione per gli orientamenti politici dei vari concorrenti» (è citata la sentenza n. 104 del 2007) e, dall’altro lato, in quanto non contengono una specifica disposizione che inibisca una revoca ad libitum, dal momento che una tale possibilità di revoca, «sia pure latente», appare contrastare con il dettato costituzionale nella parte in cui non garantisce il «principio di continuità dell’azione amministrativa» di controllo (è citata la sentenza n. 103 del 2007);
che nel giudizio costituzionale è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata infondata;
che l’Avvocatura generale dello Stato innanzitutto osserva che i criteri indicati dalla norma censurata per delimitare l’ambito dei soggetti che possono essere designati quali componenti del collegio sindacale delle aziende sanitarie locali escludono che la scelta sia espressione di «poteri assolutamente discrezionali»;
che, in secondo luogo, la difesa erariale nega che l’esercizio del potere di revoca sia «libero» solo perché non specificamente e concretamente disciplinato dalle norme denunciate, atteso che esso è comunque assoggettato ai principi generali sanciti dalla legge sul procedimento amministrativo e, in particolare, all’obbligo di motivazione;
che, infine, l’Avvocatura generale dello Stato rileva come il giudice rimettente abbia omesso di precisare il contenuto dell’eventuale pronuncia additiva richiesta alla Corte costituzionale, limitandosi a prospettare l’illegittimità della norma censurata per il fatto che essa «nulla prevede in ordine alla revoca della carica di membro del collegio sindacale».
Considerato che il Tribunale amministrativo regionale del Lazio, sezione III-quater, ha sollevato, con riferimento all’art. 97 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 3-ter, comma 2 (recte comma 3), del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 (Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell’articolo 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), aggiunto dall’art. 3, comma 3, del decreto legislativo 19 giugno 1999, n. 229 (Norme per la razionalizzazione del Servizio sanitario nazionale, a norma dell’articolo 1 della L. 30 novembre 1998, n. 419), in quanto contenente una disciplina delle modalità di designazione, nomina e revoca dei componenti dei collegi sindacali delle aziende sanitarie locali priva, da un lato, di «ogni indicazione circa la necessità di una "procedura di selezione tecnica e neutrale dei più capaci" che consenta cioè la designazione "indipendentemente da ogni considerazione per gli orientamenti politici dei vari concorrenti"» e, dall’altro lato, di specifiche disposizioni «che inibiscano una revoca ad libitum» degli incarichi;
che il rimettente muove da un erroneo presupposto interpretativo, atteso che, dal carattere asseritamente lacunoso della disciplina statale sulla designazione e sulle «garanzie di status» dei componenti dei collegi sindacali, trae il convincimento che l’amministrazione disponga di un potere arbitrario di revoca dall’incarico, esercitabile «ad libitum» e anche al di fuori dei casi di cessazione dalla carica espressamente previsti dalla legge;
che, in realtà, la circostanza che le designazioni dei membri del collegio sindacale non siano l’esito di una procedura selettiva, o che manchino specifiche disposizioni sul potere di revoca degli incarichi, non comporta la conseguenza su cui il rimettente fonda la rilevanza della questione nel giudizio principale;
che, infatti, i poteri di designazione e revoca dei componenti dei collegi sindacali, che hanno presupposti diversi, non possono essere esercitati arbitrariamente dall’amministrazione, ma restano comunque sottoposti alle regole generali sull’azione amministrativa, alla cui stregua il giudice amministrativo può sindacarne gli atti di esercizio;
che, pertanto, la questione deve essere dichiarata manifestamente inammissibile.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3-ter, comma 3, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 (Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell’articolo 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), aggiunto dall’art. 3, comma 3, del decreto legislativo 19 giugno 1999, n. 229 (Norme per la razionalizzazione del Servizio sanitario nazionale, a norma dell’articolo 1 della L. 30 novembre 1998, n. 419), sollevata, in riferimento all’art. 97 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio, sezione III-quater, con l’ordinanza in epigrafe.

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

Cassazione Civile, Sentenza 22463 del 2010 Liquidazione compensi Avvocato. La parte che si difende personalmente non può depositare memorie tecniche

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

Svolgimento del processo

1. – Con ricorso depositato il 27 febbraio 2004, l’avv. [OMISSIS] propose istanza innanzi al Tribunale di Trani per la liquidazione di onorari per prestazioni professionali ai sensi degli artt. 28 e 29 della legge n. 794 del 1942, in relazione alla attività di difesa della resistente [OMISSIS] – svolta in un giudizio civile, avente ad oggetto l’azione ex art. 2932 cod. civ., promosso nel 1975 dal padre della stessa – a partire dall’anno 1981 e fino alla pronuncia della sentenza definitiva in data 2 febbraio 2004: attività per la quale il ricorrente assumeva di aver percepito solo la somma di euro 2323,25, come da fattura esibita.

La [OMISSIS] , costituitasi in giudizio, chiese il rigetto del ricorso ed, in via subordinata, la riduzione delle somme richieste, deducendo che l’impegno professionale dell’avv. [OMISSIS] avrebbe interessato l’arco temporale dal 1981 al 1988, quando era stata pronunciata la sentenza non definitiva, e, successivamente, dal 2000 al 2004, e si sarebbe limitato alla partecipazione alle udienze avendo il professionista proseguito la impostazione difensiva già data dai legali che lo avevano preceduto, mentre le comparse conclusionali e le memorie di replica sarebbero state redatte dall’avv. [OMISSIS] del foro di Roma, nominato congiuntamente a lui.

Il [OMISSIS] , inoltre, non avrebbe provato l’impegno professionale svolto, non distinguendo, nella relativa specifica, quali delle udienze cui aveva partecipato fossero state di mero rinvio; avrebbe formulato le proprie richieste di liquidazione degli onorari in modo generico, ed avrebbe commesso, nell’espletamento della propria attività, diverse negligenze.
Infine, la [OMISSIS] dedusse di avere provveduto a versare al professionista la somma di lire 8.000.000 circa.

2. Con ordinanza depositata il 14 giugno 2004, il Tribunale di Trani accolse parzialmente il ricorso.
Osservò il giudice di merito che l’impegno professionale del legale aveva effettivamente compreso l’arco temporale ininterrotto tra il 21 novembre 1981, data della sua memoria di costituzione in giudizio, e il 2 febbraio 2004, data della sentenza definitiva emessa dal Tribunale di Trani: in tale periodo il professionista, oltre a partecipare a tutte le udienze, alcune delle quali erano state caratterizzate da difese impegnative, aveva redatto la propria comparsa di costituzione volontaria, ed inoltre la comparsa conclusionale e la memoria di replica – le quali risultavano entrambe firmate sia dall’avv. [OMISSIS] che dall’avv. [OMISSIS] , sicché non poteva revocarsi in dubbio, in difetto di una specifica prova da parte della resistente, che entrambi i difensori avessero contribuito a redigerle -, nonché le memorie di conclusioni e le ulteriori repliche.

La resistente non aveva poi fornito alcuna prova di aver versato al ricorrente somme superiori a quella di euro 2323,25.

Infine, osservò il Tribunale che il già avvenuto pagamento degli onorari in favore dell’avv. [OMISSIS] , codifensore, non esimeva la cliente dal dovere di corrispondere gli onorari anche al [OMISSIS]

Quindi, tenuto conto della predetta attività svolta dal ricorrente e considerato che il valore della controversia andava valutato in base alla domanda, di valore indeterminabile rilevante, detratto l’acconto versato dalla [OMISSIS] , il Tribunale dichiarò l’obbligo della stessa di corrispondere in favore dell’avv. [OMISSIS] gli onorari in base alla tabella A, par. III, della Tariffa, e i diritti in base alla tabella B, per un importo di euro 17.719,06.

3. – Avverso tale provvedimento la [OMISSIS] ha proposto ricorso ex art. 111 Cost. sulla base di due motivi, illustrati anche da successiva memoria. Resiste con controricorso l’avv. [OMISSIS]

Motivi della decisione

1. – Con la prima censura, si deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 28 e 29 della legge 13 giugno 1942, n. 794. Lamenta la ricorrente i gravi errori procedurali che avrebbero comportato la nullità della ordinanza che aveva concluso il procedimento di liquidazione di onorari per prestazioni professionali. Rileva, in proposito, che, avendo essa chiesto, all’udienza di comparizione delle parti tenuta il giorno 27 aprile 2004, di depositare memoria articolata e documentazione varia, si era vista imporre la nomina di un difensore a tal fine, in contrasto con la legge n. 794 del 1942, che, all’art. 29, terzo comma, esclude la obbligatorietà del ministero di difensore nei procedimenti di cui si tratta.

Il Tribunale avrebbe, inoltre, violato la disposizione dell’art. 29, quarto comma, della medesima legge n. 794 del 1942, secondo la quale, nel procedimento in questione, il collegio, sentite le parti, “procura di conciliarle”. Nel verbale di udienza, non vi sarebbe, invece, traccia della effettuazione del tentativo di conciliazione.

Infine, il Tribunale avrebbe omesso di acquisire agli atti del procedimento il fascicolo del giudizio cui la liquidazione degli onorari si riferiva.

2.1. – La doglianza, nelle sue varie articolazioni, è immeritevole di accoglimento.

2.2. – Deve, anzitutto, rilevarsi, sotto il primo profilo – attinente alla pretesa imposizione da parte del Tribunale alla [OMISSIS] di valersi di difesa tecnica in un procedimento che non la avrebbe richiesta – che è pur vero, come rilevato dalla ricorrente, che, alla stregua della giurisprudenza di legittimità, la disposizione dell’art. 29, terzo comma, della legge n. 794 del 1942, secondo cui nelle cause aventi ad oggetto il pagamento del corrispettivo di prestazioni giudiziali civili a favore dell’avvocato da parte del proprio cliente, non è obbligatorio il ministero di difensore, riguarda tutte le attività successive all’introduzione del giudizio, mentre solamente in relazione all’atto introduttivo del giudizio medesimo deve ritenersi operante la disciplina ordinaria del patrocinio di cui all’art. 82 cod. proc. civ. (v. Cass., sent. n. 850 del 2000).

Ed è altrettanto vero che, nella specie, come risulta dall’esame degli atti, non inibito a questa Corte trattandosi di valutare la configurabilità del denunciato error in procedendo, risulta che, a fronte della richiesta della [OMISSIS] , comparsa personalmente, di depositare memoria articolata e documentazione varia, il Tribunale osservò che “l’acquisizione della memoria e dei documenti esula dalla legittimazione della parte non avvocato”, con conseguente richiesta di “esplicazione di ministero tecnico”.

E tuttavia, tale richiesta, originata dalla intenzione della [OMISSIS] di non limitarsi ad essere sentita personalmente – ciò che costituisce, unitamente al tentativo di conciliazione, l’unica attività richiesta dalla legge n. 794 del 1942 come preliminare alla emanazione della ordinanza conclusiva del procedimento camerale per la liquidazione degli onorari – ma di produrre memoria e documentazione, ebbe lo scopo di offrire una maggiore garanzia della difesa processuale alla attuale ricorrente: sicché deve escludersi che il rinvio della comparizione delle parti disposto, nella specie, dal giudice di merito inficiasse di nullità la ordinanza che definì il procedimento per violazione del diritto di difesa.

2.3. – Quanto al secondo profilo della censura, concernente il mancato tentativo di conciliazione, cui fa riferimento l’art. 29, quarto comma, della legge n. 794 del 1942, deve ribadirsi l’orientamento di questa Corte secondo il quale, in tema di procedimento per la liquidazione degli onorari di avvocato, il mancato esperimento del tentativo di conciliazione previsto dalla citata disposizione, che non è obbligatorio, non costituisce motivo di nullità (Cass., sent. n. 10713 del 2006, n. 8169 del 1997).

2.4. – Quanto, infine, al rilievo relativo alla mancata acquisizione agli atti del procedimento del fascicolo del giudizio cui si riferiva la richiesta di liquidazione, esso muove dall’erroneo presupposto che spettasse al giudice di merito il reperimento delle fonti di prova delle pretese del richiedente, laddove il relativo onere probatorio non poteva che incombere a quest’ultimo.

3. Con il secondo motivo, si denuncia la violazione e falsa applicazione del [OMISSIS]m. 5 ottobre 1994, n. 585, con il quale sono state recepite le Tariffe Forensi di cui alle delibere del Consiglio Nazionale Forense del 12 giugno 1993 e 29 settembre 1994, nonché la assoluta carenza di motivazione e/o la motivazione apparente su punti decisivi della controversia. Avrebbe errato il Tribunale nel ritenere che l’avvenuto pagamento degli onorari in favore dell’avv. [OMISSIS] , codifensore, non avrebbe avuto l’effetto di esimere la cliente dal dovere di corrispondere gli onorari anche al [OMISSIS] Per un verso, esso, ammettendo che potesse aver luogo una automatica liquidazione a favore di ciascuno dei codifensori degli onorari relativi a tutte le prestazioni professionali rese nel giudizio, avrebbe operato una erronea applicazione della disposizione dell’art. 7 delle Tariffe in materia civile, la quale, nella interpretazione offertane dalla giurisprudenza di legittimità, non porrebbe alcun rigido automatismo per cui ai due codifensori siano comunque dovuti due distinti onorari, sorgendo, invece, il diritto all’onorario solo in relazione all’attività personalmente svolta dal singolo professionista. Nel ricorso si richiama, al riguardo, il provvedimento reso dal Tribunale di Roma in favore dell’avv. [OMISSIS] a seguito di analogo procedimento promosso da tale professionista nei confronti della [OMISSIS] , provvedimento nel quale si riconosceva che la seconda comparsa conclusionale e la memoria di replica era opera specifica e personale di costui, in tal modo motivando il diritto al compenso in suo favore.

4.1. – Il motivo è inammissibile.

4.2. – Esso, attraverso la denuncia di violazione di legge e assoluta carenza di motivazione, si pone sostanzialmente il diverso obiettivo di conseguire una rivalutazione, non consentita in sede di legittimità, dell’apprezzamento operato dal giudice del merito in ordine alla natura ed entità dell’impegno profuso dall’avv. [OMISSIS] in favore della sua cliente; apprezzamento, invero, fondato su elementi oggettivamente idonei a comprovarne il carattere significativo.

In tale ottica, il Tribunale ha messo in evidenza l’avvenuta partecipazione da parte del professionista di cui si tratta a tutte le udienze tenutesi dopo che lo stesso era stato incaricato della difesa della [OMISSIS] , nonché la complessità degli atti difensivi predisposti ed il tipo di impegno profuso in occasione delle udienze, concretamente dimostrato dai verbali di udienza, puntigliosamente elencati nel provvedimento impugnato.

Tali essendo le premesse, la decisione impugnata risulta conforme all’orientamento giurisprudenziale, ricordato dalla stessa ricorrente, alla cui stregua, ai sensi dell’art. 6 della legge professionale forense n. 794 del 1942, nel caso in cui più avvocati siano stati incaricati della difesa, è riconosciuto a ciascuno di essi il diritto ad un onorario nei confronti del cliente solo in base all’opera effettivamente prestata (Cass., sent. n. 9242 del 2000).

4.3. – In definitiva, il ricorso deve essere rigettato. In ossequio al principio della soccombenza, le spese del giudizio, che si liquidano come in dispositivo, vanno poste a carico della ricorrente.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio, che liquida in complessivi euro 1400,00, oltre ad euro 200,00 per spese.

Depositata in Cancelleria il 04.11.2010

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