Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 10-12-2012) 22-07-2013, n. 31458

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. Con ordinanza del 9.10.2011 il g.i.p. del Tribunale di Reggio Calabria ha applicato a V.D. la misura cautelare della custodia in carcere in riferimento al reato di associazione criminosa armata di stampo mafioso per aver fatto parte, in epoca successiva a precedente condanna ex art. 416 bis c.p., della cosca (c.d. locale) di ‘ndrangheta denominata Zito-Bertuca, diretta da B.P. ed operante nell’area territoriale a Nord di Reggio Calabria.

Con provvedimento del 27.10.2011 il Tribunale di Reggio Calabria ha rigettato l’istanza di riesame del V. e confermato l’ordinanza coercitiva, ritenendo sussistere gravi indizi di colpevolezza nei confronti del prevenuto per la sua condotta associativa criminosa ed esigenze cautelari tutelabili con la sola custodia carceraria.

Con sentenza del 16.3.2012 questa S.C. (Sezione Seconda penale) ha annullato con rinvio la decisione del Tribunale reggino per motivi processuali (omessa traduzione in udienza di V. che, detenuto in altro circondario, ne aveva fatto richiesta).

2. Giudicando in sede di rinvio ex art. 627 c.p.p., il Tribunale del riesame di Reggio Calabria con l’ordinanza in data 3.7.2012, indicata in epigrafe, ha confermato il provvedimento restrittivo adottato dal locale g.i.p. nei confronti del V., richiamando le articolate analisi e valutazioni delle emergenze investigative effettuate con l’anteriore ordinanza, non essendo venute in luce evenienze modificative della solidità del quadro indiziario delineatosi nei confronti dell’indagato, nè delle ragioni di cautela processuale utilmente fronteggiabili con la sola misura della custodia in carcere.

Muovendo dal rilievo della perdurante operatività territoriale nell’area a Nord di Reggio Calabria delle cosche di G. C. e di B.P., entrambe attive nelle rispettive contigue zone di Campo Calabro e di Villa San Giovanni, i giudici del riesame hanno condiviso l’assunto del g.i.p. della attiva partecipazione del V. al sodalizio criminale del B., fatta palese dall’episodio di una lettera minatoria pervenuta nel marzo 2010 a M.R. e Be.Ga. in relazione all’imminente apertura a Campo Calabro di un villaggio-discoteca denominato "(OMISSIS)", gestito dai due per conto della compagine mafiosa dominante nell’intera area reggina dei Tegano-Condello ( T.B. e Co.Do.).

La vicenda asseverante la persistente attiva "mafiosità" del V. è seguita, per dir così, in tempo reale nella sua rapida evoluzione grazie ad una serie di intercettazioni ambientali e telefoniche già in atto nei confronti di più soggetti, ivi inclusi i citati Be. e M.. Costoro, contrariati dalla lettera minatoria nonostante i pregressi accordi con tutte le ‘ndrine locali coinvolte dall’imponente iniziativa economica del "(OMISSIS)" assicurati da T.B., contattano subito C.G. per esternargli i propri sospetti sul conto di V.D. ("(OMISSIS)") quale autore (come mandante o esecutore) della minaccia in ragione dell’ostilità da questi mostrata nei loro confronti. Il C., escludendo il possibile coinvolgimento del V. che è un "uomo" del gruppo di B.P. che ha già dato il suo benestare per il (OMISSIS), si impegna a risolvere la "questione" e a mettersi in contatto con il B.. Ciò avviene e il B. acconsente ad un incontro diretto per chiarimenti tra il C. e il V.. L’incontro è burrascoso e sfocia in una violenta lite tra i due, atteso che il C. è persuaso che la lettera minatoria al M. sia opera del V. e dei suoi sodali (coindagati) S.G. A. I.. Il conflitto rischia di far saltare i delicati equilibri instaurati nei rapporti tra le due cosche mafiose del C. e del B., ma il contrasto è positivamente ricomposto grazie all’intervento di altri mafiosi locali ("quelli della montagna") nel corso di un "vertice" tra C., Bu.Fe., I. V. e Z.R. (cosca Imerti-Zito e cosca Buda).

La descritta vicenda, che si svolge nell’arco di tre giorni, è scandita dalla disamina autonomamente esperita dal Tribunale (sulla scia dell’analisi già esposta nella ordinanza cautelare genetica) di cinque specifiche emergenze storico-comportamentali: 1) incontro del 25.3.2010 a bordo dell’autovettura Fiat Croma di B. (sottoposta a captazione ambientale) tra il Be., M. e C., che – nel dirsi in apparenza convinto della estraneità del V. e della cosca Bertuca alla lettera estorsiva – rassicura i due interlocutori sul suo interessamento; 2) incontro- contatto interlocutorio lo stesso 25.3.2010 (ammesso da più fonti e logicamente anteriore agli sviluppi successivi) tra P. B. e C., che informa il collaterale capo-cosca delle esigenze di chiarimento della situazione con il V. alla luce di quanto riferito da M. e Be.; 3) immediata convocazione nella tarda serata del 25.3.2010 da parte del B. di V. e S. (captazioni di conversazioni telefoniche e di s.m.s. tra le ore 20.35 e 22.24), in cui B. chiede al V. di incontrarsi con C. per chiarire la sua posizione; 4) incontro nel mattino del 27.3.2010 tra C. e V. in cui i due vengono alle mani e sono separati soltanto per l’intervento di S. e I., fatto la cui notizia si diffonde rapidamente negli ambienti mafiosi locali, venendo a conoscenza del B. e di altri capi cosca (intercettazioni tra S., I. e altre persone); 5) appianarsi dei contrasti e pacificazione all’esito dell’incontro o summit avvenuto a Fiumara di Muro nel pomeriggio del 27.3.2010 (monitorato dalla p.g. e riscontrato, quanto ai contenuti e agli scopi del vertice da più captazioni telefoniche tra C., Bu. Im. e Z.).

Ad avviso del Tribunale del riesame, che segnala il carattere confuso e contraddittorio delle dichiarazioni rese dal V. al g.i.p. in sede di interrogatorio di garanzia, il quadro indiziario profilantesi a carico dell’indagato è qualificato da assoluta gravità, la partecipazione associativa dell’indagato alla cosca Bertuca costituendo esemplare dimostrazione dell’operatività della "vera mafia" calabrese e reggina e del suo capillare inserimento in ogni ganglio economico e produttivo di reddito della società civile.

Alla gravità degli indizi della adesione criminosa del V. alla consorteria mafiosa di Villa San Giovanni si giustappongono ineludibili esigenze cautelari che, al di là della presunzione semplice di adeguatezza della misura carceraria ex art. 275 c.p.p., comma 3, non possono essere efficacemente tutelate se non con l’applicata misura cautelare della custodia in carcere. Da un lato dette esigenze, in riferimento al protrarsi della condotta illecita, sono fissate dalla indubbia gravità del comportamento mafioso del V., che ne fa risaltare la sua posizione non secondaria in seno alla cosca Bertuca, e dalla sua determinazione volitiva che non gli impedisce di venire a violenta lite con l’indiscusso capo di una cosca limitrofa, quale C.G.. Da un altro lato tali esigenze conservano un crisma di concretezza ed attualità, non essendosi acquisito alcun elemento suscettibile di elidere o affievolire l’immanente pericolo di reiterazione dell’agire criminoso associativo del V..

3. Attraverso il difensore l’indagato ha impugnato per cassazione l’illustrata ordinanza del riesame, deducendo i vizi di legittimità di seguito sintetizzati.

3.1. Violazione dell’art. 125 c.p.p., comma 3 e difetto di motivazione.

Il Tribunale del riesame ha in sostanza replicato, riproducendone gli interi passaggi, la precedente ordinanza annullata dalla Corte di Cassazione, senza prendere in doverosa considerazione gli elementi di censura esposti nella memoria difensiva depositata ai fini del (primo) giudizio di riesame nè i contenuti critici esposti nel primo ricorso per cassazione, atto difensivo ormai facente parte del fascicolo del procedimento incidentale cautelare.

3.2. Violazione dell’art. 416 bis c.p. e dell’art. 273 c.p.p. e difetto di motivazione in punto di qualificazione del fatto ascritto all’indagato.

3.2.1. Il Tribunale non ha chiarito in qual modo si sia esplicato il "ruolo di cerniera" per il superamento di contingenti problemi e conflitti endomafiosi che l’imputazione assegna al V. (ruolo che neppure l’ordinanza cautelare del g.i.p. ha saputo definire) e che, se mai, avrebbe potuto attagliarsi alle posizioni dei coindagati S. e I., nei cui confronti tuttavia il g.i.p. non ha ritenuto di applicare alcuna misura cautelare. Il Tribunale, ignorando la nota decisione delle Sezioni Unite del 2005 nel caso Marmino (che fornisce la corretta interpretazione della nozione di partecipe o di concorrente c.d. esterno di un sodalizio mafioso), ha valutato la presunta condotta associativa del V. in termini statici e non in senso dinamico-funzionale con l’individuazione del concreto apporto della condotta del ricorrente all’attuarsi e al progredire del gruppo mafioso di riferimento facente capo a B.P..

3.2.2. Il Tribunale richiama gli altri procedimenti penali svoltisi nei confronti di esponenti della cosca Bertuca, che ne hanno conclamato l’esistenza e la concreta operatività territoriale, ma non segnala i connotati esponenziali dell’interesse del clan Bertuca che sarebbero sfociati nella violenta colluttazione intercorsa tra il C. e il V.. Tale lite, particolarmente valorizzata dai giudici del riesame, in realtà dimostra un contegno meramente autodifensivo del V. (che reagisce all’infondata accusa di essere autore-mandante della lettera estorsiva pervenuta ai gestori del villaggio-discoteca (OMISSIS)), avulso da logiche di spessore ed interesse mafiosi. Dopo aver dato al C. il nulla osta a contattare il V. il capo cosca Bertuca sembra disinteressarsi della vicenda. Evenienza certamente anomala, che – se un potenziale conflitto tra le cosche di Campo Calabro e di Villa San Giovanni avesse davvero dovuto risolversi – a tal fine sarebbe stato indispensabile il diretto intervento del B. e la sua personale interlocuzione con C.. Ciò non è avvenuto a riprova della estraneità a reali contesti mafiosi della persona del ricorrente, che finisce per trascinare su di sè l’impronta della precedente e ormai remota condanna ex art. 416 bis c.p. (partecipazione alla cosca Zito) pur dopo essere stato lontano dalla Calabria per circa sei anni, una volta espiata la pena inflittagli.

3.2.3. Nel trascurare i pur dettagliati motivi di gravame, fatta eccezione per quello concernente l’unicità dell’episodio (per altro di non definita valenza penale in chiave di tentativo di estorsione ai titolari del Limoneto) che accrediterebbe l’intraneità mafiosa del prevenuto e che il Tribunale reputa sufficiente e altamente significativo, i giudici del riesame non hanno rilevato che la supposta iniziativa minatoria estorsiva attribuita al V. è a costui riferita dalle stesse potenziali vittime ( Be. e M.) a titolo individuale e non già come il portato di una decisione della ‘ndrina di Campo Calabro o di Villa San Giovanni.

Sicchè gli sviluppi della vicenda con l’intervento "chiarificatore" (e autoindotto) del C., che vede compromesso il proprio controllo sull’area territoriale di "sua" pertinenza, contraddicono – a conferma della distorsione indiziaria alimentata dall’impugnata ordinanza del riesame – e consuete dinamiche dei rapporti interpersonali in ambiti mafiosi e di risoluzione delle ragioni di attrito o dissidio interni in tali specifici ambiti criminali.

3.3. Incongruamente, in subordine, il Tribunale apprezza la persistenza delle esigenze cautelari legittimanti il mantenimento della custodia carceraria del ricorrente, non tenendo conto della palese disparità di trattamento venutasi a creare tra la posizione del V. e quelle dei coindagati S. e I., nei cui confronti il g.i.p. ha respinto la richiesta cautelare del p.m. La sola differenza tra i tre è data dall’unico precedente penale del ricorrente, nonostante sul piano indiziario il ruolo svolto dai coindagati del V. (in special modo dello S.) finisca per rivelarsi, alla stregua delle emergenze investigative esaminate dal Tribunale, "ben più pregnante" ed inserito nelle dinamiche dei rapporti mafiosi del C. e del B..

Con un manoscritto a sua firma il V., riportandosi ai motivi di ricorso, ha inteso riproporre la sua personale lettura della vicenda in base alla quale gli è stato contestato il reato associativo ex art. 416 bis c.p..

4. Il ricorso proposto nell’interesse di V.D. non può trovare accoglimento. I motivi di doglianza che lo sostanziano si mostrano, infatti, privi di fondamento o indeducibili.

4.1. La generale (e, in vero, generica) censura sul difetto di motivazione caratterizzante il provvedimento del riesame, in quanto riferentesi all’analisi dei dati di indagine già vagliati nel precedente giudizio incidentale la cui decisione è stata cassata da questa S.C. (per motivi, ripetesi, esclusivamente formali), non ha pregio.

In primo luogo perchè la tecnica dalla motivazione per relazione adottata dal Tribunale del riesame è stata correttamente applicata in rapporto a tematiche censorie già largamente valutate in precedenza dallo stesso Tribunale e in rapporto a profili di critica enunciati dalla difesa dell’indagato in alcun modo trascurati, come si adduce apoditticamente nell’odierno ricorso.

In secondo e congiunto luogo perchè, a quest’ultimo riguardo, nessuno dei rilievi critici espressi dal ricorrente nel corso dell’incidente cautelare risulta realmente ignorato o sottovalutato nella dettagliata motivazione del provvedimento del Tribunale (oltre quaranta pagine non formate dalla trasposizione di meri dati processuali, ma dall’individuazione di fatti specifici e dalle susseguenti diffuse valutazioni dei giudici del riesame). Premesso che nel caso di specie la supposta motivazione per relazione del Tribunale ha natura autoreferenziale, facendo riferimento ad una propria precedente decisione e non già alla decisione di altra diversa autorità giudiziaria, tale tecnica redazionale è senz’altro legittima, quando – come nel caso di specie – il gravame riproponga questioni di fatto o di diritto già adeguatamente esaminate e correttamente risolte (secondo il giudizio dell’organo decidente) ovvero prospetti critiche generiche, superflue o palesemente infondate (come, nel caso del V., per i rilievi espressi in tema di esigenze cautelari). E merita aggiungere che, in ogni caso, il Tribunale ha proceduto ad una autonoma disamina delle risultanze investigative e alla loro rinnovata ed estesa valutazione, soltanto all’esito della quale ha confermato l’ordinanza cautelare del g.i.p. L’impugnata ordinanza del Tribunale di Reggio Calabria non è venuta meno, per tanto, all’obbligo di completezza e logicità della motivazione in conformità ai principi stabiliti sul tema da questa Corte regolatrice (cfr: Cass. Sez. 1, 1.10.2004 n. 43464, Perazzolo, rv. 231022; Cass. Sez. 2, 25.11.2010 n. 44378, Schiavulli, rv.

248946).

4.2. Depurati dai profili di natura eminentemente fattuali, attraverso i quali il ricorso prospetta una rivisitazione sequenziale della condotta dell’indagato volta a dimostrare l’estraneità del V. al reato associativo contestatogli, profili estranei all’odierno giudizio e sottratti a scrutinio di legittimità, ove si abbia riguardo alla linearità logica della decisione del riesame, i motivi di impugnazione incentrati sulla coerenza ricostruttiva e valutativa del Tribunale del riesame sono privi di fondamento.

La qualificazione della condotta del ricorrente quale partecipe dell’associazione mafiosa riconducibile a B.P. è formulata sulla base di una stringente e rigorosa analisi delle evenienze processuali, costantemente sorretta dai riferimenti alle molteplici fonti conoscitive (gli innumerevoli dialoghi captati tra i vari protagonisti della vicenda integrante la regiudicanda e specificamente afferenti al ruolo in essa svolto dal V.) ed in piena aderenza ai principi regolatori dell’adesione ad un reato associativo di matrice mafiosa delineati dalla stabile giurisprudenza di legittimità. Di tal che le considerazioni svolte dal Tribunale reggino finiscono per sgombrare il campo anche dai dati fattuali di presunta criticità del paradigma accusatorio espressi dalla difesa del ricorrente.

4.3. Per un verso i ripetuti richiami del ricorso, segnatamente in punto di ritenuta sussistenza delle esigenze cautelari giustificanti la custodia carceraria, alla ipotizzata disparità di trattamento per il comportamento del V. e per quello dei due coindagati non hanno alcuno spessore fino a rendere, per l’appunto, manifestamente infondati i motivi di doglianza attinenti al vaglio delle esigenze cautelari. Il diverso apprezzamento dell’attività dello S. e dell’ I. operato prima dal g.i.p. e poi dal Tribunale reggino non è frutto di una stravagante analisi del compendio indiziario, ma il risultato di una scrupolosa verifica delle inferenze comportamentali sottese alle posizioni dei tre coindagati, che hanno condotto con piena razionalità a configurare come marginali e defilate le posizioni dello S. e dell’ I. nel quadro del progetto estorsivo tentato ai danni dei due gestori del villaggio (OMISSIS), ben diversamente dal rilevantissimo ruolo in esso dispiegato dal V..

4.4. Per altro verso il Tribunale ha con corretto ragionamento considerato inconferente l’assunto difensivo della unicità dell’episodio dimostrativo della caratura mafiosa del V., ppichè il costante monitoraggio della condotta del prevenuto consentito dalle indagini nei giorni dal 25 al 27 marzo 2010 (oltre che, ovviamente, per i suoi precedenti rapporti non limpidi e potenzialmente conflittuali con il M. e lo stesso C. portati in luce dalle captazioni) ha evidenziato come l’episodio sia espressione di una complessa e ben articolata vicenda rappresentativa di una allarmante e pervasiva presenza maliosa nelle aree di Campo Calabro e di Villa San Giovanni e di complessi rapporti di alleanze e interdizioni reciproche tra i gruppi criminali che si contendono l’assoluto dominio sui territori di rispettiva influenza.

In questa ottica appare inconfutabile l’analisi argomentativa del Tribunale sul coinvolgimento mafioso del V. alla luce del dato per cui il capo cosca di Campo Calabro C.G. si è premurato, nel rispetto dei delicati equilibri tra i gruppi mafiosi locali, di prendere contatto con il capo della cosca di appartenenza del V. prima di chiedergli spiegazioni (spiegazioni che in realtà, come si evince dall’ordinanza del riesame, egli richiede in prima persona allo stesso B.) su eventuali anomale iniziative criminose avviate nei confronti dell’impresa commerciale del Limoneto avviata dalla potente consorteria dei Tegano-Condello. Nè trova alcun serio e non labiale riscontro la tesi difensiva esposta in ricorso che vorrebbe il B., consenziente all’incontro C. – V., disinteressato alla vicenda e alle sorti di un suo accolito. Vuoi perchè, come osserva il Tribunale, non è ragionevole credere (a meno di ipotizzare reconditi propositi autolesivi del V.) che l’indagato si sia permesso di venire alle mani con un capo cosca senza avere la certezza di una "copertura" del "suo" capo o comunque del gruppo mafioso di suo personale riferimento. Vuoi perchè il B. non è affatto estraneo alla soluzione pacificatrice trovata in tempi rapidissimi con l’intervento dei sodali mafiosi "della montagna" (cosche Imerti, Buda, Zito), soluzione di un palese conflitto endomafioso di cui non vi sarebbe stata alcuna necessità, se il ruolo e il contegno di V. dovesse credersi mero frutto di sue individuali e autonome decisioni, estranee alla compagine mafiosa del B..

Dalla meticolosa analisi svolta nel provvedimento del riesame discende, in termini di piena logicità e senza le discrasie lamentate con il ricorso, che la condotta di partecipazione associativa del V. è stata valutata in ragione di un rapporto di stabile ed organica compenetrazione (riferito agli anni contigui e prossimi alla vicenda che sostanzia l’accusa verificatasi nel 2010) del prevenuto con la trama organizzativa delle espressioni ‘ndranghetistiche attive nell’area Nord di Reggio Calabria in una ottica dinamica e funzionale alla sopravvivenza e al rafforzamento degli assetti di criminalità organizzata monopolizzanti quell’area urbana (cfr.: Cass. Sez. 1,11.12.2007 n. 1470/08, P.G. in proc. Addante, rv. 238838-238839; Cass. Sez. 2,3.5.2012 n. 23687, D’Ambrogio, rv. 253222).

Al rigetto dell’impugnazione segue per legge la condanna del V. al pagamento delle spese processuali. La cancelleria curerà gli incombenti informativi connessi allo stato di detenzione del ricorrente.
P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Manda alla cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.

Così deciso in Roma, il 10 dicembre 2012.

Depositato in Cancelleria il 22 luglio 2013

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. I, Sent., 02-08-2012, n. 13920

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/




Svolgimento del processo

La Corte d’Appello di Caltanissetta, sulle contrapposte opposizioni alla stima dell’espropriante Consorzio per l’area di sviluppo industriale della provincia di Enna (d’ora in poi Consorzio ASI) e dell’espropriato sig. T.G., ha determinato in Euro 17.991,60 l’indennità di espropriazione e negli interessi legali su detta somma l’indennità di occupazione legittima, in relazione all’esproprio di un suolo nel territorio del Comune di Enna per la realizzazione di insediamenti industriali, artigianali, terziario produttivo e dei servizi disposto con decreto 11 settembre 2002 dell’Assessorato all’Industria della Regione Siciliana, previa dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità e urgenza delle opere con decreto 5 aprile 2000 del medesimo Assessorato e precedente individuazione e sottoposizione a vincolo di destinazione con decreto 3 luglio 1997, n. 317 dell’Assessorato regionale al Territorio e Ambiente.

La Corte ha applicato il criterio di cui al D.L. 11 luglio 1992, n. 333, art. 5 bis, conv. con modif. in L. 8 agosto 1992, n. 359 avendo ritenuto il carattere edificatorio dell’area in quanto destinata appunto ad insediamenti industriali secondo il piano regolatore generale adottato dal Comune di Enna sin dal 23 aprile 1979.

Il Consorzio ASI ha proposto ricorso per cassazione con sei motivi di censura. L’intimato si è difeso con controricorso e memoria.

Motivi della decisione

1. – Vanno anzitutto esaminate le eccezioni preliminari di inammissibilità del ricorso, formulate dal controricorrente sui rilievi della tardività del medesimo, notificato il 20 marzo 2006 mentre il termine per ricorrere scadeva il 19 marzo essendo stata la sentenza impugnata notificata il 18 gennaio 2006, e della inapplicabilità dell’art. 366 bis c.p.c. – a norma del quale i motivi di ricorso recano la finale formulazione di un quesito di diritto – in quanto la sentenza impugnata è stata pubblicata prima dell’entrata in vigore di esso.

1.1. – Le eccezioni non hanno pregio, dato che il 19 marzo 2006 era domenica, dunque la scadenza del termine era spostata al giorno successivo, e che la formulazione del quesito di diritto, per quanto non dovuta, certamente non inficia il motivo cui accede.

2. – I primi tre motivi di ricorso sono connessi. E’ dunque opportuno esaminarli congiuntamente.

2.1. – Con il primo motivo, denunciando violazione di norme di diritto, si sostiene che in tema di espropri per insediamenti industriali nel territorio siciliano si applica esclusivamente la L.R. Sicilia 4 gennaio 1984, n. 1.

2.2. – Con il secondo motivo, sempre denunciando violazione di norme di diritto, si sostiene che, in base alla predetta legge regionale, sui piani regolatori comunali prevalgono i piani delle aree di sviluppo industriale, come il piano territoriale del Consorzio ASI di Enna approvato con il già menzionato decreto assessoriale 3 luglio 1997, n. 317, il quale all’art. 3 richiama modalità e termini di cui all’art. 21 L.R. cit., che a sua volta richiama le procedure di cui al D.P.R. 6 marzo 1978, n. 218, art. 53 (testo unico delle leggi sugli interventi nel Mezzogiorno), il quale al sesto comma prevede che la determinazione dell’indennità di esproprio avvenga secondo i criteri di cui alla L. 22 ottobre 1971, n. 865, artt. 16 e 17, ossia in base al valore agricolo medio tabellare corrispondente al tipo di coltura in atto nell’area da e-spropriare.

2.3. – Con il terzo motivo, denunciando violazione di norme di diritto e vizio di motivazione, si contesta che al suolo espropriato potesse essere attribuito carattere edificatorio, considerato che per la legislazione siciliana soltanto i consorzi ASI possono procedere alla edificazione nelle aree di sviluppo industriale e dunque è esclusa ogni forma di edificazione a iniziativa dei privati.

2.4. – Tali motivi non possono essere accolti. Questa Corte, infatti, ha già avuto occasione di chiarire, con riguardo al meccanismo di determinazione dell’indennità di esproprio previsto dal D.P.R. n. 218 del 1978, art. 53, richiamato dalla L.R. Sicilia n. 1 del 1984, art. 21, che la dichiarazione di incostituzionalità dei criteri di stima al valore agricolo tabellare (corte cost. n. 5 del 1980 e n. 223 del 1983), già anteriormente alla legge regionale, relativamente alle aree edificabili, rende applicabili per queste ultime il D.L. n. 333 del 1992, art. 5 bis, cit., che, costituendo norma di riforma economico-sociale, si pone come limite all’esercizio della stessa potestà legislativa esclusiva regionale, restando applicabile la legge regionale al solo procedimento espropriativo (Cass. 11742/2006, 5565/2009); e tale principio vale anche dopo la declaratoria di illegittimità costituzionale del predetto art. 5 bis (Corte cost. n. 348 del 2007), che non si è estesa alla bipartizione tra aree agricole ed edificabili (Cass. 2108/2011).

Con riguardo, poi, ai rapporti fra piani regolatori delle aree e dei nuclei di sviluppo industriale e piani regolatori generali, è stato chiarito che i primi implicano vincoli di carattere conformativo che non discendono direttamente da essi, bensì dalla concreta attuazione data al piano dal comune, mediante adozione delle consequenziali modifiche del piano regolatore generale, le quali soltanto sono idonee a fornire la qualificazione urbanistica della zona, costituente il parametro della determinazione dell’indennità di espropriazione (cfr. Cass. 4200/2001, 7616/2009, 5861/2011).

Infine, come già osservato da questa Corte in una precedente pronuncia riguardante proprio il Consorzio ASI di Enna (sent.

7616/2009, cit.), non è sufficiente ad escludere l’edificabilità legale la sola previsione dell’iniziativa pubblica per l’attuazione del piano di zona mediante costruzione di edifici industriali, posto che l’esercizio dell’industria non è riservato in via di principio alla mano pubblica; del resto anche i piani di edilizia economica e popolare sono piani di edilizia residenziale ad iniziativa pubblica, senza che ciò sia di ostacolo al riconoscimento dell’edificabilità legale delle aree che vi sono incluse.

3. – Con il quarto motivo, denunciando violazione di norme di diritto, si lamenta l’omissione della decurtazione del 40%, sull’importo dell’indennità calcolata dalla Corte d’appello, ai sensi del D.L. n. 333 del 1992, art. 5 bis, cit.

3.1. – Il motivo è infondato perchè il criterio di determinazione dell’indennità di esproprio previsto dal richiamato art. 5 bis, nell’ambito del quale è inserita la falcidia invocata dal ricorrente, è stato dichiarato incostituzionale con la sentenza n. 348 del 2007, cui sopra già si è fatto cenno, con conseguente ripristino del criterio del valore venale pieno; criterio al quale qui non può darsi applicazione in difetto di censura dell’espropriante, ma la cui vigenza impedisce comunque l’ulteriore scostamento dal medesimo invocato dal ricorrente.

4. – Con il quinto motivo, denunciando vizio di motivazione, si lamenta genericamente che la Corte d’appello abbia disatteso le valutazioni del consulente tecnico di ufficio.

4.1. – La genericità della censura è causa d’inammissibilità della stessa.

5. – Con il sesto motivo, denunciando violazione di norme di diritto, il ricorrente censura la condanna alle spese subita in primo grado, osservando che l’incertezza normativa e giurisprudenziale avrebbero giustificato una pronuncia di compensazione.

5.1. – Il motivo è inammissibile, essendo la scelta di dichiarare o meno compensate fra le parti le spese processuali riservata alla discrezionalità del giudice di merito, tenuto peraltro a specifica motivazione solo nel caso in cui disponga la compensazione, non anche allorchè si attenga alla regola dell’addebito delle spese alla parte soccombente.

6. – In conclusione il ricorso va respinto.

Le spese del giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese processuali, liquidate in Euro 2.700,00, di cui Euro 2.500,00 per onorari, oltre spese generali ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 18 luglio 2012.

Depositato in Cancelleria il 2 agosto 2012

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. III CIVILE – SENTENZA 8 aprile 2010, n.8366 IN DUE SUL MOTORINO: NON BASTA PER IL CONCORSO DI COLPA DEL DANNEGGIATO

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

Motivi della decisione

1. – I ricorsi vanno riuniti in quanto proposti avverso la stessa sentenza.

2. – Il ricorso (r.g.n. 27542/06) proposto con atto notificato nel settembre del 2006 dall’Azienda Ospedaliera omissis, cui il ricorso principale (r.g.n. 12155/06) era stato notificato il 10 aprile 2006, è inammissibile perché tardivo. Tanto alla stregua del principio secondo il quale il ricorso incidentale, ancorché l’art. 371, primo comma, cod. proc. civ. prescriva che esso debba essere proposto con l’atto contenente il controricorso, può essere proposto, non essendo detta modalità da considerare essenziale, anche con atto a sé stante, indipendentemente dalla proposizione del controricorso – come nella specie accaduto – ferma peraltro l’esigenza che esso sia notificato nel termine (di quaranta giorni dalla notifica del ricorso principale) stabilito, in base al combinato disposto degli artt. 370 e 371 cod. proc. civ., per la proposizione del ricorso incidentale, non valendo ad escludere l’inammissibilità derivante dall’inosservanza di detto termine la circostanza che l’impugnazione sia tempestiva a norma degli artt. 325 e 327 cod. proc. civ., atteso che la regola fondamentale della concentrazione delle impugnazioni contro la stessa sentenza comporta che tanto l’impugnazione che si intende proporre contro parte non impugnante, quanto quella con cui si intenda impugnare capi diversi da quelli oggetto della già proposta impugnazione, siano vincolate al canone della incidentalità di tutte le impugnazioni successive alla prima (Cass., sez. un, n. 11678/1990, cui adde, ex multis, Cass., nn. 1701/2009, 491/2003, 10226/2002, 8929/2000, 3738/95 e 3293/93).

Nella specie era peraltro decorso anche il termine annuale, risalendo la sentenza impugnata all’8.6.2005.

3. – Il ricorso principale è stato notificato alla A.U.S.L. n. omissis per integrazione del contraddittorio sul rilievo che quello era il soggetto succeduto alla U.S.L. n. omissis e che era stato erroneamente indicato nella sentenza impugnata come “USL n. omissis e Azienda Ospedaliera omissis in persona del legale rappresentante pro tempore” per erronea autoprospettazione della propria denominazione all’atto in cui la parte si era costituita in appello.

Va subito detto che l’errore è evidente e che la sentenza d’appello deve considerarsi emessa nei confronti della A.U.S.L. n. omissis, il cui direttore generale M. aveva del resto conferito la procura ai difensori nel giudizio di appello, sicché l’errore materiale cui s’è fatto cenno non ha influito sulla costituzione del contraddittorio nei confronti della parte legittimata.

3.1. – Tutti e quattro i motivi del ricorso principale del D.L. attengono all’apprezzamento dell’incidenza causale del concorso della vittima – stimato nel 50% dal tribunale con apprezzamento ritenuto corretto dalla corte di merito – in ordine all’incidente stradale verificatosi.

Nessuno pone, invece, il diverso problema della correttezza della liquidazione del danno nel 50% allorché, essendo due le cause materiali (incidente stradale e inadeguatezza delle cure successive) di un evento finale produttivo di danno (amputazione di una gamba, preceduto dalle lesioni), il comportamento della vittima si esaurisca nel paritetico concorso colposo al solo verificarsi delle lesioni e non anche delle cure male eseguite cui sia conseguita l’inevitabilità dell’amputazione dell’arto.

Secondo l’impostazione seguita dalla sentenza (che ha ridotto il risarcimento in relazione al concorso della stessa vittima in ordine all’incidente stradale), se il danneggiato si fosse procurato le lesioni per fatto solo a lui ascrivibile, non sarebbe stato possibile risarcirgli alcunché nonostante il riconosciuto apporto causale colposo della struttura ospedaliera (per inadeguata diagnosi dei medici e carenza degli strumenti tecnici necessari). Il che è, all’evidenza, paradossale, in quanto, in caso di concorrenza di più cause al verificarsi di un evento dannoso, il comportamento del danneggiato al verificarsi di una sola di esse giustifica, ai sensi dell’art. 1227, primo comma, cod. civ., una riduzione del risarcimento in proporzione da rapportarsi a quella concausa e non al danno finale che ne sia derivato per effetto anche delle altre cause concorrenti.

Ma, come s’è osservato, non di questo si duole il ricorrente, né consta che lo abbia fatto in appello.

Sicché in questa sede deve solo scrutinarsi se sia effettivamente apodittica l’affermazione della corte d’appello secondo la quale “l’incidenza della condotta colposa della vittima nella ritenuta misura del 50% ha formato oggetto di corretta e condivisibile valutazione da parte del primo decidente, stante che la presenza a bordo del ciclomotore della seconda persona ha certamente contribuito alla instabilità del mezzo, inserendosi quale elemento giuridicamente rilevante, nelle particolari circostanze del caso, nella determinazione dell’evento con nesso eziologico. Vanno pertanto tenute ferme le valutazioni in merito espresse dal tribunale” (così la non numerata diciassettesima pagina della manoscritta sentenza).

E la risposta sull’apoditticità dell’affermazione è senz’altro positiva, non essendo stato in alcun modo chiarito in sentenza perché la minore stabilità del mezzo provocata dalla presenza del passeggero abbia potuto concorrere, essa stessa, all’urto contro la barriera protettiva conseguito all’abbagliamento, ovvero perché abbia in ipotesi impedito una conservazione dell’equilibrio del ciclomotore dopo l’urto; ed è errata in diritto nella parte in cui è stata dalla corte territoriale posta in relazione con quanto affermato dal tribunale, che aveva sostanzialmente correlato la sua conclusione sull’efficienza causale della presenza del passeggero in ordine all’incidente al solo fatto che quella presenza fosse normativamente vietata (pagina 11 della sentenza del tribunale di Caltanissetta n. 99/248, riprodotta in ricorso, a pagina 8): tanto perché non la violazione di una norma disciplinante la circolazione stradale può essere di per sé fonte di responsabilità (o di limitazione dell’altrui responsabilità) in sede risarcitoria, ma il comportamento integrante la violazione, purché abbia esplicato incidenza causale sull’evento dannoso.

È quanto fondatamente affermato con i primi due motivi di ricorso (vizio della motivazione e violazione e falsa applicazione degli artt. 2043 e 1223 c.c., 40 e 41 c.p.), che vanno dunque accolti.

3.2. – Del pari fondato è il quarto motivo, col quale è denunciato vizio della motivazione in ordine alla determinazione nella misura del 50% dell’apporto causale colposo della vittima senza alcuna indicazione delle ragioni per le quali si fosse addivenuti a siffatta quantificazione.

3.3. – È invece infondato il terzo motivo (contraddittoria motivazione su punto decisivo), concernente l’efficienza causale del comportamento del conducente del veicolo non identificato, mai in alcun modo revocata in dubbio dalla corte d’appello, che lo ha anzi dichiaratamente considerato.

4. – La sentenza va conclusivamente cassata in relazione alle censure accolte, con rinvio alla stessa corte d’appello in diversa composizione perché rivaluti l’apprezzamento relativo all’incidenza causale del comportamento del danneggiato e lo faccia nel rispetto dell’enunciato principio di diritto.

Il giudice del rinvio liquiderà anche le spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte di Cassazione riunisce i ricorsi, accoglie il primo, il secondo ed il quarto motivo del ricorso di G.D.L. e rigetta il terzo, dichiara inammissibile il ricorso dell’Azienda Ospedaliera omissis, cassa in relazione alle censure accolte e rinvia, anche per le spese, alla corte d’appello di Caltanissetta in diversa composizione.

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

Cass. Civ. Sez. I 14.03.2011 n. 5995 – equa riparazione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

C.G., con ricorso alla Corte d’appello di Napoli depositato nel luglio 2006, proponeva, ai sensi della L. n. 89 del 2001, domanda di equa riparazione per violazione dell’art. 6 della C.E.D.U. a causa della irragionevole durata del procedimento penale instaurato nei suoi confronti con decreto di citazione a giudizio – per il reato di ricettazione-dinanzi al Tribunale di Nocera Inferiore notificatogli nel gennaio 1995, procedimento concluso nel maggio 2006 con sentenza di non doversi procedere per intervenuta prescrizione del reato.

La Corte d’appello, con decreto depositato il 21 marzo 2007, rigettava la domanda, rilevando in sintesi: a)che il mancato rispetto del termine di durata ragionevole del processo – che nella specie poteva ben essere determinato in tre anni, tenuto conto della relativa celerità di soluzione e dell’esigenza di procedere alla audizione di pochi testi – non era imputabile al "giudice inteso come apparato giustizia" bensì all’utilizzo di tecniche dilatorie da parte dell’imputato, che avevano condotto a numerosi rinvii delle udienze, peraltro fissati a date lontane per cause riconducibili non all’organo giudicante ma alle difficoltà di gestione dell’Ufficio, per la soppressione della Sezione distaccata del Tribunale che aveva reso necessario il trasferimento degli atti e dell’organo giudicante presso la sede di Nocera Inferiore; b) che del resto la durata del processo non poteva aver determinato alcun danno all’immagine del ricorrente il quale, già condannato per il reato di furto, non aveva nemmeno rinunciato alla prescrizione del reato.

Avverso tale provvedimento il C. ha proposto ricorso a questa Corte con atto notificato al Ministero della Giustizia il 5 maggio 2008, formulando tre motivi. Resiste il Ministero con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1.- Il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2 e dell’art. 6, comma 1 CEDU (come interpretato dalla giurisprudenza della Corte europea) nonchè vizio di motivazione con riguardo: a) alla ritenuta ascrivibilità della irragionevole durata del procedimento a tecniche dilatorie dell’imputato, che non risultano dagli atti e in ogni caso non escludono il diritto alla riparazione, almeno per la differenza del tempo irragionevolmente impiegato per la conclusione del processo (motivo 1); b) alla ritenuta non addebitabilità all’apparente giustizia dei lunghi rinvii delle udienze, anche ove dipendenti dalle difficoltà organizzative derivanti dalla soppressione di una Sezione distaccata o dalle richieste del P.M. per assenza dei propri testi (motivo 2); c) alla ritenuta esclusione che una persona già condannata per reato analogo possa aver subito danno all’immagine per il protrarsi irragionevole del processo penale (motivo 3).

2.- Tali censure, da esaminare congiuntamente in quanto connesse, sono fondate. L’errore di fondo emergente dalla motivazione del provvedimento impugnato consiste nel non aver considerato che il diritto all’equa riparazione sorge per il protrarsi della durata del processo oltre il termine che, in rapporto alle caratteristiche specifiche del processo medesimo, appare ragionevole, indipendentemente dal fatto che ciò sia dipeso da comportamenti colposi di singoli operatori del processo o da fattori organizzativi di ordine generale riconducibili all’attività o all’inerzia dei pubblici poteri deputati a far funzionare il servizio giurisdizionale. In tal senso è l’orientamento consolidato di questa Corte, ben chiarito sin dalle prime pronunce (cfr. Cass. n. 15852/02;

n. 14885/02; n. 13422/02) e tenuto fermo: il disposto della L. n. 39 del 2001, art. 2, va inteso nel senso che ciò che rileva ai fini dell’accertamento della violazione dell’art. 6, comma 1 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali non è il comportamento dei singoli operatori, in quanto tali, bensì la inottemperanza dei fondamentale dovere dello Stato, nella sua veste di erogatore del servizio giurisdizionale, di fornire a ciascuno tale servizio in un tempo ragionevole, da commisurarsi alla complessità del caso specifico.

Erroneamente dunque la Corte di merito, stabilita in tre anni la durata ragionevole del procedimento penale in questione tenute conto della sua non complessità, ha ritenuto che delle disfunzioni organizzative derivanti dalla soppressione di una Sezione distaccata, che abbiano contribuito alla protrazione del procedimento oltre il suddetto limite ragionevole impedendo al giudice di fissare le udienze di rinvio a date prossime, l’Amministrazione non debba rispondere, in netto contrasto con il principio sopra ricordato. Vero è che, nella determinazione del periodo eccedente la durata ragionevole del quale l’Amministrazione debba rispondere, il giudice deve anche valutare se, ed in quale misura, a tale protrazione abbia contribuito il comportamento della stessa parte che chiede di essere indennizzata, e dei suoi difensori. Ma, da un lato, la individuazione, espressa nel decreto impugnato, dei rinvii ritenuti imputabili alla parte si mostra non chiara, non risultando fornita alcuna spiegazione delle ragioni che hanno indotto la Corte ad includere in tale ambito numerosi rinvii per "assenza testi", che non appaiono per ciò solo ascrivibili alla difesa dell’imputato. D’altro lato, non va comunque trascurato che anche i rinvii richiesti dalla parte possono essere imputati in parte all’apparato giudiziario, se e nella misura in cui la lunghezza di ciascun rinvio non risulti giustificata dalle ragioni per le quali è stato richiesto, dovendo essere piuttosto ascritta ad obiettive disfunzioni ed insufficienze dell’apparato stesso (cfr. ex multis Cass. n. 11037/2010; n. 24356/2006; n. 21020/2006).

Fondata infine è anche la terza doglianza: la circostanza della preesistenza di una condanna per delitto contro il patrimonio non è invero di per sè sufficiente per escludere che l’imputato abbia sofferto quello stato di ansia e patema d’animo che normalmente consegue alla pendenza del processo. Tantomeno può ritenersi sufficiente a tal fine la circostanza che il C. non abbia rinunciato alla prescrizione, atteso che anche la parte che resista infondatamente alla pretesa avanzata nei suoi confronti ha diritto ad una definizione del processo in un tempo ragionevole.

3.- Conclusivamente, i ricorso va accolto, il decreto impugnato va cassato e la causa rinviata alla Corte d’appello di Napoli in diversa composizione, perchè proceda al riesame della domanda alla stregua dei principi e delle regole di argomentazione indicate. Al giudice del rinvio incomberà anche di regolare le spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte, accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’appello di Napoli in diversa composizione, che provvederà anche alla liquidazione della spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 25 gennaio 2011.

Depositato in Cancelleria il 14 marzo 2011

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