Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 08-07-2011) 06-10-2011, n. 36230 Sentenza di non luogo a procedere

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con sentenza in data 24.9.2010 il GIP presso il Tribunale di Roma, all’esito dell’udienza preliminare emetteva sentenza ex art. 425 c.p.p., comma 3 nei confronti di I.F., C.G., A.R. e L.G. in ordine al reato di truffa aggravata in danno dei funzionari dell’ATER, perchè gli elementi acquisiti non erano idonei a sostenere l’accusa.

Osservava il giudice che la condotta criminosa ipotizzata dal P.M. consisterebbe nell’avere gli imputati adottato artifici e raggiri consistenti nell’aver contabilizzato e liquidato circa 238.000 Euro in più rispetto a quanto dovuto per lavorazioni mai eseguite o eseguite parzialmente, applicando prezzi non conformi alle lavorazioni svolte, contabilizzando oneri non dovuti, liquidando SAL per lavorazioni non ancora eseguite. Condotta che avrebbe indotto in errore i competenti funzionari dell’ATER con ingiusto profitto da parte degli imputati. Riteneva che gli atti di indagini espletati non erano idonei a sostenere l’accusa. In particolare sottolineava come emergesse il dubbio che la contabilizzazione, così come indicata nel capo di imputazione, fosse frutto di un atteggiamento doloso tipico dei raggiri. Sottolineava inoltre la mancata prova in ordine a rapporti amicali fra gli imputati.

Ricorre per Cassazione il P.M. sottolineando l’illogicità della motivazione che in maniera apodittica a fronte di dati processuali non univoci ritiene superfluo il dibattimento.

Prima di affrontare le ragioni poste a fondamento dell’impugnazione proposta è necessario svolgere alcune considerazioni sulla natura e sull’inquadramento sistematico della sentenza di non luogo a procedere pronunziata all’esito dell’udienza preliminare.

Pur di fronte ad un profondo mutamento della struttura e della disciplina dell’udienza preliminare (soprattutto con l’ampliamento dei poteri istruttori del giudice a seguito della L. 16 dicembre 1999, n. 479, art. 23, comma 1, che modifica l’art. 425 c.p.p.), deve però affermarsi che non muta sostanzialmente la regola di giudizio finale dell’udienza preliminare. La sentenza di non luogo a procedere deve ancora essere pronunziata in presenza dei medesimi presupposti previsti dopo l’entrata in vigore della L. n. 105 del 1993.

In altre parole anche all’esito delle modificazioni portate dalla Legge Carotti l’udienza preliminare non ha subito una modifica della sua originaria natura che era e resta di natura processuale e non di merito. Se è vero infatti che le modifiche portate dalla legge citata hanno conferito all’udienza preliminare aspetti più significativi relativi al merito dell’azione penale – in particolare per l’ampliamento dei poteri officiosi relativi alla prova (il vecchio testo della rubrica dell’art. 422 c.p.p. parlava di sommarie informazioni, adesso si parla di integrazione probatoria), è altrettanto vero che identico è rimasto lo scopo cui l’udienza preliminare è preordinata: evitare i dibattimenti inutili, non accertare se l’imputato è colpevole o innocente.

Non è sicuramente irrilevante se, all’udienza preliminare, emergono elementi di prova che, in dibattimento, potrebbero ragionevolmente condurre all’assoluzione dell’imputato ma il proscioglimento deve essere, dal giudice dell’udienza preliminare, pronunziato solo se ed in quanto questa situazione di innocenza sia ritenuta non superabile in dibattimento dall’acquisizione di nuove prove o da una diversa e possibile rivalutazione degli elementi di prova già acquisiti.

In sintesi il quadro probatorio e valutativo delineatosi all’udienza preliminare deve essere, con un giudizio di ragionevolezza, ritenuto immutabile.

Si può affermare che il giudice dell’udienza preliminare ha il potere di pronunziare la sentenza di non luogo a procedere solo in quei casi nei quali non esista una prevedibile possibilità che il dibattimento possa pervenire ad una diversa soluzione, in altre parole ancora quando il dibattimento appare superfluo.

Non contrasta con questa interpretazione il tenore dell’art. 425 c.p.p., comma 3, che prevede la pronunzia della sentenza di non luogo a procedere, "anche quando gli elementi acquisiti risultano insufficienti, contradditori o comunque non idonei a sostenere l’accusa in giudizio".

Nella norma – che riecheggia la regola di giudizio prevista dall’art. 530 c.p.p. – si trova infatti conferma di quanto indicato. Il parametro ancora una volta non è l’innocenza dell’imputato, ma l’impossibilità di sostenere l’accusa in giudizio.

L’insufficienza e la contraddittorietà degli elementi devono quindi avere caratteristiche tali da non poter essere ragionevolmente considerate superabili nel giudizio.

La situazione non deve poter essere considerata suscettibile di chiarimenti o sviluppi nel giudizio. Questo giudizio prognostico vale sia per l’ipotesi dell’insufficienza che per quella della contraddittorietà. Entrambe queste caratteristiche legittimano la pronunzia di una sentenza di non luogo a procedere solo se non appariranno superabili nel giudizio.

In conclusione, a meno che ci si trovi in presenza di elementi palesemente insufficienti per sostenere l’accusa in giudizio, per l’esistenza di prove positive di innocenza o per la manifesta inconsistenza di quelle di colpevolezza, la sentenza di non luogo a procedere non è consentita quando l’insufficienza o contraddittorietà degli elementi acquisiti siano superabili in dibattimento Si può affermare in aderenza anche a quanto affermato in dottrina che "sfuggono all’epilogo risolutivo i casi nei quali, pur rilevando incertezze, la parziale consistenza del panorama d’accusa è suscettibile di essere migliorata al dibattimento".

Quello indicato è del resto l’orientamento della giurisprudenza di questa Corte che, dopo la riforma del 1999, ha ribadito i principi indicati (si vedano in questo senso Cass., Sez. 6, 16.11.2001 n. 42275, Acampora, rv. 221303; 06.04.2000 n. 1662, Pacifico, rv.

220751; Cass. 19.4.2007; Cass. N. 13163/2008) del resto, in precedenza, fatti propri anche dalla Corte costituzionale (v. sentenza 15.03.1996 n. 71 che così si esprime su questo punto:

"l’apprezzamento del merito che il giudice è chiamato a compiere all’esito della udienza preliminare non si sviluppa, infatti, secondo un canone, sia pur prognostico, di colpevolezza o di innocenza, ma si incentra sulla ben diversa prospettiva di delibare se, nel caso di specie, risulti o meno necessario dare ingresso alla successiva fase del dibattimento: la sentenza di non luogo a procedere, dunque, era e resta, anche dopo le modifiche subite dall’art. 425 c.p.p., una sentenza di tipo "processuale", destinata null’altro che a paralizzare la domanda di giudizio formulata dal Pubblico Ministero").

L’esame della sentenza impugnata dimostra che il giudice di merito non si è attenuto ai principi indicati.

La sentenza, dopo aver richiamato le differenti conclusioni cui erano pervenuti gli esperti (Arch. M., Ing. D.L. e Arch.

B.), sottolinea come gli elementi dagli stessi indicati inducono a dubitare che le contabilizzazioni come indicate nel capo di imputazione siano frutto di un atteggiamento doloso tipico dei raggiri/artifici e quindi di un’intenzionale falsa rappresentazione della realtà e conclude affermando che dagli atti non emergono elementi idonei a fondare la responsabilità penale degli imputati, salva la responsabilità contabile e salve le conclusioni del giudizio civile pendente tra le parti, perchè appare difficoltosa la prova del requisito psicologico del reato.

E’ evidente che la regola di giudizio utilizzata è quella del dibattimento e non quella dell’udienza preliminare. E non si tratta solo di una questione formale ma di un errore di impostazione logico- giuridica reso evidente dalla circostanza che, nella sentenza, alcuna valutazione prognostica viene fatta sulla possibilità di superare, nel dibattimento, l’insufficienza e la contraddittorietà del quadro probatorio. Consegue alle considerazioni svolte l’annullamento della sentenza impugnata.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata con rinvio al Tribunale di Roma per nuovo esame.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. VI, Sent., 11-04-2012, n. 5742 Cassa integrazione guadagni

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1.- Con ricorso al Giudice del lavoro di Torino, N.L. aveva evocato in giudizio il datore di lavoro FIAT Auto spa e, assumendo l’illegittimità della sua collocazione in cassa integrazione guadagni straordinaria (CIGS) per il periodo 17.9- 8.12.2003, ne aveva chiesto la condanna al pagamento della differenza tra quanto percepito a titolo di integrazione e quanto spettante a titolo di retribuzione.

2.- Accolta la domanda, su appello della Fiat Group Automobiles s.p.a. (succeduta a Fiat Auto s.p.a.), la Corte d’appello di Torino con sentenza del 7 giugno 2010 ha confermato la decisione di primo grado.

La Corte di merito ha ritenuto che nel caso di specie i criteri indicati nella comunicazione di avvio della procedura del 31.10.02 erano generici in quanto non consentivano di verificare la coerenza tra il criterio indicato e la selezione dei lavoratori da sospendere, il che rendeva illegittima la sospensione il CIGS dei dipendenti.

Inoltre, gli accordi intervenuti tra datore e OO.SS. in date 18.3.03 e 22.7.03, a conclusione della procedura di consultazione, non assumevano efficacia sanante delle omissioni, in quanto il vizio originario della comunicazione si ripercuoteva sull’intera procedura e comunque non consentivano la conoscenza dei criteri adottati per la scelta.

La Corte territoriale ha infine respinto l’eccezione di improponibilità della domanda proposta dalla società fin dal primo grado (e quivi accolta) in ragione del fatto che con verbale di conciliazione in sede sindacale del 3 ottobre 2003, la lavoratrice aveva accettato il licenziamento con collocazione in mobilità dietro corresponsione di un incentivo all’esodo, rinunziando "comunque ad ogni ulteriore pretesa, domanda o azione, dedotta e deducibile che nel suddetto licenziamento e conseguente definitiva cessazione del rapporto di lavoro con Fiat Auto s.p.a. e collocazione in mobilità possa trovare origine e fondamento a qualsiasi titolo legale, contrattuale e risarcitorio". 3.- Avverso questa sentenza propone ricorso per cassazione FIAT Group Automobiles s.p.a. con sette motivi.

Si difende con controricorso la lavoratrice.

La società ha depositato una memoria.

4.- Il procedimento è regolato dall’art. 360 c.p.c., e segg. con le modifiche e integrazioni successive, in particolare quelle apportate dalla L. 18 giugno 2009, n. 69. 5.- I motivi di ricorso di Fiat Group Automobiles possono essere riassunti come segue:

5.1.- Il rigetto dell’eccezione di improponibilità dell’azione per intervenuta transazione in sede sindacale violerebbe l’art. 411 c.p.c., comma 3 artt. 1965, 2113 c.c. e sarebbe argomentato con una motivazione viziata.

5.2 – Nel merito, la questione fondamentale posta a base del ricorso è se il giudice abbia correttamente applicato la L. n. 223 del 1991, art. 1, comma 7 e 8, o se la norma in questione debba ritenersi abrogata per l’intervento del D.P.R. n. 218 del 2000. Fiat sostiene che tale decreto, emanato in forza della L. 15 marzo 1997, n. 59, art. 20 avrebbe delegificato il procedimento amministrativo di autorizzazione e concessione della CIGS e, quindi, tutti i suoi momenti od atti coordinati e collegati in serie (frase preparatoria, introduttiva, di istruzione e di decisione), con abrogazione implicita di tutte le disposizioni già vigenti.

5.3.- Ne deriverebbe che le modalità di rotazione e l’indicazione delle ragioni che eventualmente l’escludono, potrebbero essere indicate non solo con la comunicazione di apertura della procedura inviata alle OO.SS., ma anche all’esito dell’esame congiunto tra imprenditore e il sindacato sulla crisi aziendale e le conseguenti esigenze di organizzazione della produzione.

Nel caso di specie, le parti collettive avevano raggiunto un accordo circa le modalità della rotazione il 18.3.03, all’esito dell’esame congiunto, dopo che Fiat nel dicembre 2002 aveva aderito al più generale accordo di programma, il cui perfezionamento costituiva la base per l’assunzione di impegni amministrativi da parte del Governo a supporto del superamento della più generale crisi aziendale.

Avrebbe dunque errato il giudice di merito a ritenere preminente il presupposto formale della comunicazione e consultazione rispetto al contenuto dell’accordo raggiunto con le Oo.ss. il 18.3.03, che assumeva invece valore sanante; ne sarebbe, infatti, rimasta esclusa la possibilità per le parti stipulanti di elaborare in corso di trattativa diversi criteri di gestione della crisi.

5.4.- Conseguenza di tale erronea preminenza assegnata al dato formale, sarebbe stata la disapplicazione del verbale di esame congiunto del Ministero del Lavoro del 5.12.02 (avente natura di atto pubblico a contenuto certificativo, costituente prova della procedura di consultazione svolta con la mediazione governativa).

5.5.- La comunicazione 31.10.02 di avvio della procedura di CIGS, che fissava il criterio di scelta nelle esigenze tecniche, organizzative e produttive, in relazione alle esigenze professionali e funzionali, era comunque idonea allo scopo di esternare le intenzioni del datore di lavoro in relazione alle ricadute del programma di superamento della crisi aziendale in relazione alla situazione dei singoli lavoratori, pur residuando la possibilità di procedere a specificazione in sede di esame congiunto, all’esito dell’acquisizione da parte delle OO.SS. di una completa informazione.

Con riferimento alla posizione specifica il giudice avrebbe dovuto, inoltre, considerare che la lavoratrice era stata posta in CIGS in esecuzione dell’accordo 22.7.03, il quale enunciava il criterio obiettivo e determinato relativo alla lavorazione del modello Panda.

In ogni caso, avrebbe dovuto valutarsi in concreto la posizione soggettiva della dipendente, in quanto, ove pure per ragioni formali fosse dichiarata illegittima tutta la procedura, pur tuttavia avrebbe dovuto valutarsi se la risoluzione di collocare i lavoratori in CIGS fosse coerente con i criteri di scelta concretamente indicati ab initio nella comunicazione di avvio della procedura sindacale.

6.- La questione relativa alla improponibilità della domanda (5.1) è manifestamente infondata.

Essa, nonostante la deduzione di violazione delle norme sopraindicate, investe in realtà, oltre alla motivazione della Corte territoriale, l’interpretazione da questa operata del significato della conciliazione intervenuta tra le parti in data 3 ottobre 2003, in particolare della rinuncia in essa contenuta, che secondo la società riguarderebbe ogni diritto nascente dal rapporto di lavoro e dalla sua estinzione e in particolare le eventuali pretese nascenti dalla legittimità o meno della collocazione del lavoratore in CIGS, come dovrebbe desumersi dagli accordi sindacali che si erano succeduti nel tempo in materia di cassa integrazione e poi di collocazione in mobilità, da ritenere noti alla lavoratrice.

Senonchè è noto che a norma dell’art. 1362 c.c. e segg. l’interpretazione dei contratti fonda principalmente sul significato desumibile dal tenore letterale del negozio, sia pure letto in connessione tra le varie parti dello stesso, mentre gli ulteriori canoni legali sulla interpretazione del contratti e quelli di interpretazione intervengono in caso che dall’applicazione di quello principale residui un dubbio.

Applicando correttamente tale regola, la Corte territoriale ha valutato, con articolata, congrua motivazione, che il tenore letterale dell’accordo in questione fosse di una chiarezza rara nell’indicare come oggetto della rinuncia unicamente gli eventuali diritti nascenti dalla risoluzione del rapporto di lavoro, escludendo pertanto che esso possa riguardare anche la materia della sospensione in CIGS intervenuta nel corso del rapporto medesimo.

Trattasi di valutazione di merito, che nè la riproduzione del tenore della rinuncia, sopra indicato, nè il richiamo a quello degli accordi sindacali appare in grado minimamente di inficiare.

7 – Per quel che riguarda la questione principale nel merito (v. 5.2- 5.3), deve osservarsi che la L. 23 luglio 1991, n. 223 – che introduce una visione organica della CIGS ricollegandone la fruizione a particolari requisiti soggettivi dell’impresa e all’esistenza di uno stato di crisi aziendale, nonchè alla proposizione da parte dell’imprenditore di precisi programmi, limitati nel tempo – prevede che dopo l’accertamento dello stato di crisi e l’approvazione dei programmi di superamento della stessa e per tutta la loro durata, all’esito di una articolata procedura, il Ministero del Lavoro con proprio decreto conceda il trattamento straordinario di integrazione salariale (artt. 1-2).

Il datore di lavoro deve scegliere i lavoratori da collocare in CIGS adottando meccanismi di rotazione tra i dipendenti che svolgono le stesse mansioni e sono occupati nell’unità produttiva interessata. I "criteri di individuazione dei lavoratori" e "le modalità della rotazione" sono oggetto di consultazione sindacale, in forza del dettato normativo, che impone la loro comunicazione alle 00.SS. e l’esame congiunto di cui alla L. 20 maggio 1975, n. 164, art. 5.

Qualora il datore, per ragioni di carattere tecnico-organizzativo connesse al mantenimento dei normali livelli di efficienza, non intenda attuare meccanismi di rotazione dovrà indicarne i motivi nel programma di ristrutturazione, riorganizzazione o conversione aziendale ( L. n. 223, art. 1, commi 7 e 8).

Il Ministro del lavoro, pur approvando il programma e concedendo la cassa integrazione, può ritenere non giustificata la non adozione della rotazione e promuovere un incontro tra le parti sul punto. Ove non si pervenga ad un accordo entro tre mesi dalla data della concessione del trattamento di integrazione il Ministro stesso stabilisce l’adozione di meccanismi di rotazione sulla base delle proposte formulate dalle parti (comma 8, secondo periodo).

8.- Su tale assetto intervenne il D.P.R. 10 giugno 2000, n. 218, emanato per delega conferita dalla Legge di semplificazione amministrativa 15 marzo 1997, n. 59, art. 20 che inserì il procedimento per la concessione della cassa integrazione guadagni straordinaria – come regolato dalla L. n. 223 del 1991 – tra quelli sottoposti a delegificazione mediante regolamento emesso ai sensi della L. 23 agosto 1988, n. 400, art. 17, comma 2 (art. 20, comma 8, in relazione al n. 90 dell’allegato 1 alla legge stessa).

9.- I rapporti tra le due fonti sono stati definiti dalla giurisprudenza di questa Corte nel senso che la disciplina del D.P.R. 218 non abroga la L. n. 223 del 1991 e lascia, quindi, intatti gli oneri di comunicazione fissati dall’art. 1 di quest’ultima. Il D.P.R. n. 218 non incide, infatti, sulle disposizioni del combinato disposto della L. n. 164 del 1975, art. 5 e della L. n. 223 del 1991, art. 1, comma 7, – riguardanti l’obbligo datoriale di comunicare in avvio della procedura per l’integrazione salariale alle organizzazioni sindacali i criteri di individuazione dei lavoratori da sospendere nonchè le modalità di rotazione poste da tali disposizioni in capo dell’imprenditore -atteso che la disciplina da esso fissata attiene unicamente alla fase propriamente amministrativa del procedimento di concessione della integrazione salariale (Cass. 28.11.08 n. 28464).

Può, dunque, affermarsi con questa impostazione (successivamente ripresa da numerose altre sentenze, tra le quali v. Cass. 31.1.11 n. 2155, n. 2156, n. 2157, Cass. 21.2.11 n. 4151 e 4152) che per la scelta dei lavoratori da porre in cassa integrazione, la L. n. 223 del 1991, art. 1, comma 7, prescrive che il datore di lavoro comunichi alle Organizzazioni sindacali i criteri di scelta dei lavoratori da sospendere, in relazione a quanto previsto dalla L. n. 164 del 1975, art. 5. Tale disposizione tutela, nella gestione della cassa integrazione, i diritti dei singoli lavoratori e le prerogative delle Organizzazioni sindacali, anche dopo l’entrata in vigore della disciplina del D.P.R. 10 giugno 2000, n. 218, atteso che tale disciplina non incide con effetto abrogativo o modificativo sulle suddette disposizioni ma è volta unicamente a diversamente regolamentare il procedimento amministrativo, di rilevanza pubblica, di concessione di integrazione salariale.

Ad analoga conclusione questa Corte è pervenuta per quel che riguarda gli obblighi di rilevanza collettiva del datore di lavoro ( L. n. 223, art. 1, commi 7 e 8), precisando, altresì, che la richiamata normativa regolamentare non ha spostato l’informazione circa i criteri di scelta e le modalità della rotazione dal momento iniziale della comunicazione di avvio della procedura a quello immediatamente successivo dell’esame congiunto, in quanto, altrimenti, il contenuto della norma di cui al D.P.R. n. 218 cit., art. 2 sarebbe estraneo all’esigenza di semplificazione del procedimento amministrativo e avrebbe come conseguenza solo l’alleggerimento degli oneri della parte datoriale con compressione dei diritti di informazione spettanti al sindacato, dando luogo ad un sistema di consultazione sindacale palesemente inadeguato (Cass. 9.6.09 n. 13240 e 1.7.09 n. 15393, entrambe emanate a conclusione del procedimento per condotta antisindacale promosso dalle OO.SS. nei confronti di Fiat con riferimento alla procedura di CIGS ora in esame avviata con la comunicazione del 31.10.02).

10.- Sulla base di queste considerazioni, all’esito dell’esame delle questioni sub 5.2 e 5.3, può ritenersi corretto l’assunto del giudice di merito che – pur dopo l’entrata in vigore del D.P.R. n. 218 del 2000 – la comunicazione che il datore, ai sensi della L. n. 164 del 1975, art. 5 è tenuto a dare alle rappresentanze sindacali aziendali debba contenere l’indicazione dei criteri di individuazione dei lavoratori da sospendere e le modalità della rotazione, i quali solo successivamente dovranno costituire oggetto del successivo esame congiunto.

11.- Consegue l’irrilevanza della questione attinente il rilievo assegnato alla documentazione di provenienza ministeriale (n. 5.5).

Ove si ritenga che criteri di individuazione e modalità di rotazione debbono essere indicate ab initio nella comunicazione di avvio, è superfluo esaminare la tesi che assegna valore asseverativo ad un documento che attesta che quell’indicazione è avvenuta solo in un momento successivo, e cioè in sede di esame congiunto.

12.- Neppure può sostenersi che gli accordi 18.3.03 e 22.7.03 avrebbero sanato ogni eventuale vizio della procedura attivata con la lettera 31.10.02.

In proposito va precisato che la giurisprudenza richiamata dalla ricorrente (Cass. 2.8.04 n. 14721, 21.8.03 n. 12307 ed altre) parte dal presupposto che l’accordo sia di per sè esaustivo delle esigenze conoscitive e di esternazione imposte dal combinato normativo della L. n. 164, art. 5 e della L. n. 223, art. 1, commi 7-8, in quanto in tal caso sarebbe solo inutile formalismo imporre al datore di comunicare alle OO.SS. quei criteri di selezione che proprio con esse ha elaborato (Cass. 3.5.04 n. 8353).

Nel caso di specie, tuttavia, l’accordo – intervenuto a procedura già iniziata e quando molte centinaia di lavoratori erano già stati posti in cassa integrazione – si limita a formulare un generale sistema di rotazione a partire dall’aprile 2003, senza indicare il procedimento di individuazione dei soggetti interessati, il che esclude quel carattere esaustivo sopra rilevato.

Inoltre, per il fatto di essere intervenute a procedura già iniziata, le modalità concordate in sede di accordo non possono soddisfare all’essenziale esigenza cui la preventiva comunicazione è preposta, e cioè quella di consentire (non solo alle Oo.ss. di confrontarsi sul punto, ma anche) ai lavoratori coinvolti nella procedura – tanto prima che dopo il raggiungimento dell’accordo – di verificare se l’utilizzo della cassa integrazione da parte del datore di lavoro sia coerente al programma di superamento della crisi adottato e, quindi, di consentire la tutela della loro posizione individuale, nella sostanza controllando il potere del datore di collocarli in cassa integrazione (v. anche Cass. 10.5.10 n. 11254).

13.- Escludendo il carattere sanante degli accordi 18.3.03 e 22.7.03 ed assegnando natura ostativa alle omissioni della comunicazione, il giudice di merito si è attenuto ad una lettura della norma basata su un principio pacifico, affermato da Cass. S.u., 11.5.00 n. 302, secondo cui in caso di intervento straordinario di integrazione salariale per l’attuazione di un programma di ristrutturazione, riorganizzazione o conversione aziendale che implichi una temporanea eccedenza di personale, il provvedimento di sospensione dall’attività lavorativa è illegittimo qualora il datore, sia che intenda adottare il meccanismo della rotazione sia nel caso contrario, ometta di comunicare alle OO.SS., ai fini dell’esame congiunto, gli specifici criteri, eventualmente diversi dalla rotazione, di individuazione dei lavoratori che debbono essere sospesi (in base al combinato disposto della L. n. 223 del 1991, art. 1, comma 7 e L. n. 164 del 1975, art. 5, commi 4 e 5). Ove l’illegittimità può essere fatta valere dai lavoratori interessati davanti al giudice ordinario, in via incidentale, per ottenere il pagamento della retribuzione piena e non integrata.

14.- Quanto all’incidenza della comunicazione 31.10.82 sulla posizione della lavoratrice (n. 5.5). deve rilevarsi che la giurisprudenza della Corte di cassazione ha precisato che "i criteri di individuazione dei lavoratori da sospendere …", di cui alla L. n. 223 del 1991, art. 1 debbono essere connotati dal requisito della specificità, ovvero, dalla "idoneità dei medesimi ad operare la selezione e nel contempo a consentire la verifica della corrispondenza della scelta ai criteri", precisandosi che l’aggettivazione "non individua una specie nell’ambito del genere criterio di scelta ma esprime la necessità che esso sia effettivamente tale, e cioè in grado di operare da solo la selezione dei soggetti da porre in cassa integrazione", atteso che "un criterio di scelta generico non è effettivamente tale, ma esprime soltanto, non un criterio, ma un generico indirizzo nella scelta" (v. Cass. 1.7.09 n. 15393, che richiama Cass. 23.4.04 n. 7720, e fa chiaro riferimento a S.u. n, 302 del 2000, citata).

Tale specificità non è stata riscontrata dal giudice di merito, che – analizzando il contenuto specifico dei documenti in considerazione – ha ritenuto non evidenziato con sufficiente specificità il percorso aziendale che ha portato all’individuazione dei singoli lavoratori da sospendere in cassa integrazione, tanto nell’originaria comunicazione del 31.10.02, quanto nell’accordo 22.7.03 (e nella prodromica comunicazione 18.7.03), il quale pure faceva riferimento ai lavoratori adibiti alla produzione di un singolo modello di vettura.

Trattasi di valutazioni di merito che, in quanto congruamente motivate, non sono suscettibili di censura in sede di legittimità. 15.- In conclusione, sulla base delle considerazioni svolte, il Collegio valuta non fondato il ricorso, che rigetta con le normali conseguenze in ordine al regolamento delle spese di questo giudizio, liquidate in dispositivo.

Il collegio ha deliberato che la motivazione della sentenza venga svolta in forma semplificata.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a rimborsare alla parte resistente le spese di questo giudizio, liquidate in Euro 30,00 per esborsi ed Euro 1.000,00 per onorari, oltre accessori di legge, che distrae agli avv.ti Giuseppe e Benedetto Pellerito e Silvio Chiodo.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. V, Sent., 16-05-2012, n. 7685

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Svolgimento del processo

La commissione tributaria regionale del Piemonte, con sentenza in data 1.10.2009, ha confermato la decisione con la quale la commissione tributaria provinciale di Torino aveva respinto un ricorso della Officine meccaniche Castellazzo di Castellazzo Luigi & C. s.a.s contro il diniego di rimborso di un credito Iva, indicato nella dichiarazione annuale senza presentazione dell’apposito modello VR. Ha motivato la decisione sostenendo che la sola esposizione del credito in dichiarazione annuale non potevasi ritenere sufficiente a manifestare la volontà del contribuente di ricevere il rimborso. E che, in difetto di un’apposita istanza mediante utilizzazione del modello ministeriale, la domanda di restituzione andava presentata nel rispetto del termine di decadenza previsto dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 21, comma 2, applicabile anche al di là dei casi di versamento d’imposta non dovuta, e "a tutte le categorie di crediti in cui il legislatore non abbia indicato altri termini di riferimento".

Avverso la sentenza di secondo grado la società contribuente ha proposto ricorso per cassazione sorretto da due motivi.

L’amministrazione intimata non ha svolto difese.

Motivi della decisione

1. – Col primo motivo, la ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 21 e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 38 bis, per avere la commissione regionale ritenuto applicabile alla fattispecie il termine di decadenza biennale, anzichè l’ordinario termine di prescrizione.

La società assume a premessa di aver compilato, nella dichiarazione modello unico 2001, il quadro RX1 (relativo a compensazioni-rimborsi- rateazione), inserendo l’importo di L. 26.001.000 nella casella relativa alla richiesta di rimborso. Assume ancora che la volontà di ottenere il detto rimborso era stata altresì dettata dalla imminente cessazione di attività, in concreto avvenuta nel dicembre dell’anno 2000. Essendo la domanda relativa all’eccedenza d’imposta risultata dalla cessazione di attività, dovevasi ritenere applicabile l’insegnamento che vuole simile fattispecie sottratta all’ambito applicativo sussidiario e residuale del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 21.

Col secondo motivo deduce ancora violazione e falsa applicazione delle medesime norme, sul rilievo, invece, che, contrariamente a quanto sostenuto dalla commissione regionale, l’esposizione del credito in dichiarazione annuale dovevasi considerare sufficiente a manifestare la volontà del contribuente di ottenere il rimborso, al punto da doversi comunque ritenere la relativa azione sottratta all’indicato termine di decadenza e soggetta al solo termine decennale di prescrizione.

2. – Dev’essere prioritariamente evidenziato che la dedotta cessazione di attività non risulta dalla sentenza impugnata, nè emerge dal ricorso in quali termini il riferimento a consimile condizione (legittimante il rimborso ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 30) sia stato consegnato al giudizio d’appello.

Ciò nondimeno le censure sopra sintetizzate, tra loro connesse e suscettibili di unitario esame, appaiono nei termini che seguono fondate quanto al residuo delle prospettate critiche.

3. – La sentenza riferisce che la società aveva presentato la dichiarazione annuale indicando in essa il credito Iva maturato nell’anno d’imposta (ancorchè erroneamente, in motivazione, il detto credito sia stato riferito all’anno 2002, anzichè – come pare pacifico in base a quanto riportato nell’intestazione della sentenza medesima e nell’odierno ricorso – all’anno 2000).

Ha quindi affermato che la sola esposizione del credito nella dichiarazione annuale ai fini dell’Iva non è sufficiente a manifestare la volontà del contribuente di ricevere il rimborso, rimanendo aperte le varie opzioni da ciò discendenti. Ha aggiunto che tale volontà "può essere manifestata solamente con la presentazione del modello VR o con un’istanza di rimborso";

cosicchè, in mancanza di una simile formale manifestazione di volontà entra in gioco il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 21, applicabile anche al di là dei casi di versamento di un’imposta non dovuta.

In tal senso l’impugnata sentenza ha orientato il proprio ragionamento a principi astratti, e come tali non condivisibili.

4. – Nella giurisprudenza di questa Corte è in effetti rinvenibile l’affermazione per cui, in materia di Iva, soltanto una domanda di rimborso (dell’eccedenza detraibile) conforme al modello legale, ossia contenente tutti gli elementi necessari stabiliti dalla legge e indicati nell’apposito modello ministeriale (il citato mod. VR), corrisponde allo schema tipico di cui al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 30. Con la conseguenza che una domanda difforme, da un lato non è idonea a determinare il decorso degli interessi, sulla somma di cui sia riconosciuto il diritto al rimborso, dal novantesimo giorno successivo a quello di sua presentazione (v. Cass. n. 21053/2005 e n. 1935/1999); e dall’altro può rimanere assoggettata alla decadenza biennale prevista, in via residuale, dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 21 (cfr. Cass. n. 18920/2011) dal momento che codesta norma opera anche al di là delle domande di restituzione di imposte versate in eccedenza sul dovuto (v. Cass. n. 27057/2008; n. 8461/2005; n. 16477/2004).

Sennonchè, seppur movendosi nel solco di siffatti insegnamenti, l’impugnata sentenza non ha fatto buon governo dei medesimi, avendo omesso ogni concreto accertamento in ordine alla decisiva questione se il credito – semplicemente indicato nella dichiarazione Iva -fosse stato poi chiesto a rimborso all’atto della traslazione dei dati nella dichiarazione unica, che la ricorrente assume di aver presentato con contestuale compilazione del quadro RX1, e con inserimento dell’importo "nella casella relativa alla richiesta di rimborso"; dichiarazione unica che soprattutto la contribuente assume di aver prodotto (sub doc. 1) dinanzi al giudice tributario di primo grado.

5. – In proposito il collegio intende dare, invero, continuità all’orientamento secondo il quale, in tema di rimborso dell’Iva, deve tenersi distinta la domanda di rimborso del credito d’imposta maturato dal contribuente, da considerarsi presentata a mezzo della compilazione, nella dichiarazione annuale, del quadro di riferimento (che configura formale esercizio del diritto), dalla presentazione del mod. VR, che costituisce, ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 38-bis, comma 1, un adempimento necessario solo a dar inizio al procedimento di esecuzione del rimborso medesimo; sicchè, una volta tempestivamente esercitato – in dichiarazione – il diritto al rimborso, la presentazione del mod. VR non può considerarsi assoggettata al termine biennale di decadenza previsto dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 21, ma solo al termine decennale di prescrizione di cui all’art. 2946 c.c. (cfr. Cass. n. 20039/2011).

Codesto orientamento non è in contrasto coi principi più sopra enunciati a proposito della necessaria completezza della domanda di rimborso, il punto di equilibrio trovandosi nella considerazione – evidenziata anche dalla citata Cass. n. 18920/2011 – che l’indicazione del credito nella dichiarazione Iva non implica, di per sè, la manifestazione di volontà di ottenimento del rimborso, dovendo al riguardo verificarsi se nella compilazione della dichiarazione annuale possa in concreto rinvenirsi l’esplicitazione di una tale volontà.

E’ infatti necessario rammentare che la disciplina del credito Iva, associata al corretto impiego della modulistica fiscale, presupponeva, per i contribuenti che avessero presentato (come nella specie è dedotto) il modello unico, la compilazione (giustappunto in detto modello) del quadro RX siccome derivante dalla preventiva compilazione, a scopo liquidatorio, del quadro VL della dichiarazione Iva.

Il quadro RX traeva cioè i dati dal ripetuto quadro VL della dichiarazione Iva, non dal modello VR. Donde la funzione del mod. VR era (ed è) rapportata al fatto di doversi esplicitare il presupposto legittimante la domanda di rimborso secondo la serie tassativamente prevista dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 30, in coerenza con la ratio di rendere più tempestive e meno onerose le successive verifiche dell’amministrazione finanziaria.

6. – Consegue che il dato identificativo della differenza tra gli importi dell’Iva esposti a credito e quelli, viceversa, esposti a debito finiva in ogni caso con l’essere rappresentato da quanto riportato nel quadro VX della dichiarazione Iva, ovvero nel quadro RX per i soggetti che avessero optato per la presentazione del modello unico, giacchè nel corrispondente rigo del mod. VR4 (campo 3), finanche in base alle istruzioni ministeriali relative alle richieste di rimborso, doveva essere indicato l’importo coincidente con la risultante del rigo VX3 (della dichiarazione annuale Iva) ovvero, in caso di dichiarazione unificata, con la risultante del rigo RX del mod. unico. E, in quest’ultimo modello, il rigo RX4 conteneva, tra gli altri, proprio il riferimento al "credito di cui si chiede il rimborso".

Tale era l’accertamento che si imponeva nel caso di specie, e che il giudice del merito avrebbe dovuto effettuare per rendere efficace (e concreta) l’affermazione di principio; sicchè l’impugnata sentenza, avendolo completamente omesso, va cassata con rinvio alla medesima commissione tributaria regionale, diversa sezione, per nuovo esame delle emergenze documentali.

In particolare il giudice di rinvio renderà la valutazione uniformandosi al seguente principio di diritto: "in tema di rimborsi dell’Iva, la compilazione del quadro RX del modello di dichiarazione unica, nel campo attinente al credito di cui si chiede il rimborso, è legittimamente considerata alla stregua di manifestazione di volontà di ottenere il rimborso; tale manifestazione di volontà identifica, invero, ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 38-bis, la domanda di rimborso fatta nella dichiarazione, e, ancorchè non accompagnata dalla presentazione del mod. VR ai fini della determinazione dell’importo richiesto a rimborso nella dichiarazione Iva, sottrae la fattispecie al termine biennale di decadenza sancito, in via residuale, dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 21".

La commissione regionale provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa l’impugnata sentenza e rinvia, anche per le spese del giudizio di cassazione, alla commissione tributaria regionale del Piemonte.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 06-10-2011) 25-11-2011, n. 43742 Detenzione, spaccio, cessione, acquisto

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con ordinanza 13/12/10 il Gip del Tribunale di Napoli, giudice dell’esecuzione, in accoglimento delle richieste avanzate nell’interesse di M.M. riconosceva il vincolo della continuazione tra i reati di droga giudicati da due coppie di sentenze: Gup Trib. Napoli 26/11/07 (rif. da CdA 11/6/08) e 5/12/08 (rif. da CdA 1/7/09); Tribunale Napoli 2/12/02 e Gup Trib. Napoli 18/9/03 (rif. da CdA 18/3/04).

Ricorreva per cassazione il Pm a quo, deducendo violazione di norme processuali stabilite a pena di nullità: la competenza a decidere come giudice dell’esecuzione era della Corte di Appello di Napoli, posta la sentenza 1/7/09 di quella Corte (di riforma sostanziale della sentenza 5/12/08 del Gup del Tribunale di Napoli), ultima passata in giudicato (l’1/10/09). Chiedeva l’annullamento.

Nel suo parere scritto il PG presso questa Corte chiedeva l’annullamento con rinvio dell’ordinanza.

L’ordinanza impugnata va annullata senza rinvio. Infatti, come correttamente rilevato dal Pm ricorrente (e ribadito dal PG presso questa Corte), competente a decidere, se l’esecuzione concerne più provvedimenti emessi da giudici diversi (art. 665 c.p.p., comma 4), è il giudice che ha emesso il provvedimento divenuto irrevocabile per ultimo. E poichè nel caso in esame (v.) la sentenza 1/7/09 della Corte di Appello di Napoli è stata di riforma sostanziale di quella 5/12/08 del Gup di quel Tribunale, la competenza era ed è del giudice di appello (art. 665 c.p.p., comma 2).

P.Q.M.

visto l’art. 620 c.p.p., annulla senza rinvio l’ordinanza impugnata.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.