Cassazione Sez. Lavoro n. 21621 del 21.10.2010 Lavoro, civile, malattia, depressione, licenziamento, giusta causa, mancata visita

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

Svolgimento del processo

Con ricorso del 1 aprile 2005 Tizio dipendente della s.r.l. O. dal 19.10.xxx al 20.8.xxx [ndr 17 anni], conveniva in giudizio detta societa’ davanti al Tribunale di Taranto per ottenere la pronuncia di nullita’ ed inefficacia del licenziamento disciplinare inflittole, in quanto non sorretto da giusta causa, ai sensi e per gli effetti dell’art. 18 Stat.lav.

La societa’ convenuta si costituiva in giudizio invocando il rigetto della domanda, la quale veniva accolta integralmente dal Tribunale adito, con sentenza n. 9931 del 2005.

Detta sentenza – avverso la quale proponeva appello la societa’ convenuta – veniva confermata dalla Corte di appello di Lecce con sentenza del 1 giugno 2007.

Nel pervenire a questa conclusione, la Corte territoriale riteneva;

a) che l’assenza della C. dal domicilio dichiarato durante le fasce orarie di reperibilita’ non assumeva in se’ e per se’ rilevanza disciplinare;

b) che tale assenza era giustificata sia dalla natura della patologia da cui l’appellata era affetta (sindrome depressiva ansiosa), sia dalla necessita’ sopravvenuta di rivolgersi al suo sanitario di fiducia, per l’insorgere improvviso – documentalmente provato – di un evento morboso diverso da quello prima diagnosticato;

c) che nessun rilievo disciplinare – per l’assenza di intento elusivo – poteva assumere il non essersi presentata alla visita ambulatoriale prescritta dal medico fiscale;

d) che la buona fede della lavoratrice si desume anche dalla certificazione prodotta in atti, dalla quale emerge che essa fu sottoposta a visita di controllo il (…);

e) che comunque vi e’ una sproporzione tra addebiti e la sanzione espulsiva adottata.

Avverso tale sentenza la societa’ datrice di lavoro propone ricorso per cassazione affidato a due motivi, cui replica la C. con controricorso.

Motivi della decisione Col primo motivo denunciando la violazione e falsa applicazione della L. n. 638 del 1983, degli artt.

1175, 1375 e 2687 c.c.; omessa e/o insufficiente motivazione sui punti decisivi della controversia, carenza di indagine in merito alla intenzionalita’ della condotta della lavoratrice ed all’effettivo ricorrere dei dati fattuali posti a fondamento del provvedimento reso; violazione e falsa applicazione dell’art. 1362 c.c. in relazione all’art. 34 del c.c.n.l. di categoria all’epoca vigente – assume la societa’ ricorrente che le decisioni dei giudici di merito sono censurabili almeno per quattro profili;

a) per non avere essi conferito alcuna valenza probatoria – ai fini della determinazione della oggettiva gravita’ della condotta della lavoratrice alla circostanza che la lavoratrice, gia’ assente dal domicilio dichiarato durante le fasce di reperibilita’ in data 28.6.2004, non si era presentata al controllo ambulatoriale il successivo giorno 29.6.2004, come prescritto dal medico fiscale; b) per avere attribuito i Giudici di appello carattere di esimente all’assenza della ricorrente nel domicilio dichiarato, stante la natura della patologia denunciata (sindrome ansioso depressiva), la quale, invece, non ammette deroghe all’obbligo di rispettare le fasce di reperibilita’;

c) per non aver la lavoratrice provato – come era suo onere ex art. 2687 c.c. – che la visita medica cui era sottoposta presso il suo sanitario di fiducia durante le fase di reperibilita’, fosse indifferibile;

d) per avere, la Corte di appello ignorato l’ulteriore inadempienza, posta in essere dalla reclamante, in materia di visite fiscali, per aver violato l’art. 34, lett. b), terzo capoverso del ccnl di categoria all’epoca vigente secondo il quale: “qualora il lavoratore debba assentarsi dal proprio domicilio per sottoporsi a visita specialistica o ambulatoriale ha comunque l’obbligo di avvertire l’amministrazione entro le 19 dello stesso giorno. (Su tale obbligo cfr. la dipendente non puo’ limitarsi a produrre il certificato medico attestante l’effettuazione di una visita specialistica durante l’orario di reperibilita’, ma deve dare dimostrazione della loro urgenza ed indifferibilita’ e cioe’ di una necessita’ di effettuarli solo durante le ore della possibile visita di controllo).

Si tratta, dunque, per la societa’ ricorrente, di rispondere al quesito di diritto formulato con il ricorso principale, se debbono dirsi violati dai giudici di merito i principi generali di correttezza e buona fede, posti dall’art. 1375 c.c., la cui osservanza e’ indispensabile per assicurare la corretta esecuzione del rapporto stesso, e se deve accertarsi il presupposto della intenzionalita’, decisivo ai fini di perseguire disciplinarmente la condotta della dipendente.

Col secondo motivo – denunciando la violazione o falsa applicazione dell’art. 1362 c.c. in relazione all’art. 41 del CCNL, ed alla L. n. 638 del 1983, art. 8; insufficiente e contraddittoria motivazione circa punti decisivi della controversia; incongruita’ ed illogicita’ delle conclusioni della Corte di appello per mancata ed erronea valutazione delle risultanze processuali soprattutto in ordine alla natura recidivante delle mancanze commesse e della maggiore perseguibilita’ di detta infrazione.

Valutazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale; omessa o erronea valutazione delle deduzioni avanzate dal convenuto Istituto su punti decisivi della controversia – rileva la ricorrente che;

a) i Giudici di merito non hanno conferito alcun rilievo al fatto che la lavoratrice non si sia presentata alla visita di controllo nell’ambulatorio medico disposta dal medico fiscale. Sul punto non e’ necessario ricordare (cfr. la sentenza appellata) la “buona fede dell’appellata desumibile anche dal fatto che dalla certificazione prodotta dal suo difensore emerge che essa fu sottoposta alla visita di controllo in data 20.7.2004, e cioe’ ben 22 giorni dopo il verificarsi dell’assenza della lavoratrice dal domicilio dichiarato durante le fasce di reperibilita’;

b) il Giudici di merito non hanno mai dato rilievo alla natura recidivante delle ripetute mancanze poste in essere dalla C., influendo essa certamente sulla determinazione della sanzione disciplinare adottata (cfr. Cass., 13536 del 2002; n. 7391 del 1999 ecc).

Entrambi i motivi di ricorso sono infondati.

Le motivate e argomentate valutazioni dei Giudici di merito, sia di primo che di secondo grado, resistono decisamente alle critiche della ricorrente le quali, in buona sostanza, integrano una richiesta di diversa valutazione delle risultanze istruttorie e del materiale di causa del tutto inammissibile in questa sede di legittimita’.

I Giudici di merito hanno, invero, approfondito tutti i comportamenti addebitati alla C., partendo dalle due contestazioni: la prima, del 5 luglio 2004 relativa alla sua assenza – alle ore 18,30 del 28 giugno 2004 – dal suo domicilio, in occasione del primo controllo medico fiscale, e la seconda, per essere stata vista, nei giorni 6 ed 8 luglio 2004, rimanere in spiaggia per qualche ora.

A differenza dei Giudici di merito, la societa’ ricorrente ha trascurato la gravita’ dello stato patologico a carico della C. e le sue manifestazioni di tipo emorragico, tutte richiedenti specifici trattamenti terapeutici anche urgenti.

Questa Corte ha piu’ volte statuito – in casi simili – che “per giustificare l’obbligo di reperibilita’ in determinati orari non e’ richiesta l’assoluta indifferibilita’ della prestazione sanitaria da effettuare, ma e’ sufficiente un serio e fondato motivo che giustifichi l’allontanamento dal proprio domicilio”.

Anche quanto alla seconda contestazione (l’essere stata vista recarsi al mare, a trecento metri di distanza dal suo domicilio, e restare ivi per qualche ora della mattinata), la decisione adottata dai Giudici di merito appare del tutto ragionevole, una volta escluso, nel particolare caso, che la breve esposizione al sole da parte della lavoratrice potesse pregiudicare o ritardare la sua guarigione.

La sentenza impugnata ha altresi’ compiuto una attenta disamina della complessiva condotta della C., prima e dopo la malattia. Cio’ ha consentito – da una parte – di evidenziare la sua totale incensuratezza, oltre all’assenza di precedenti addebiti a suo carico, nell’intero arco di 17 anni di carriera lavorativa alle dipendenze della societa’ ricorrente, e dall’altra, il suo spirito collaborativo nel manifestare la sua disponibilita’ a sottoporsi ad una serie di visite fiscali anche a distanza di un giorno l’una dall’altra, il che depone chiaramente per la sua buona fede e l’assenza di intenti elusivi.

Ma anche a non voler trascurare qualche aspetto negativo della sua condotta, resta inconfutabile la sproporzione esistente tra la medesima condotta ed il licenziamento disciplinare il quale costituisce la estrema ratio (cfr. Cass., n. 21213 del 2005).

In conclusione, una volta escluso che possano ritenersi sussistenti le condizioni le condizioni individuate dalla giurisprudenza, al fine di considerare gravemente inadempiente la condotta complessiva del lavoratore che si allontani dal luogo in cui questi deve trascorrere il periodo di malattia, appare condivisibile il giudizio espresso dalla Corte di appello di Lecce, secondo cui la breve assenza della resistente non assume rilevanza in se’ e per se’, in mancanza di altri elementi che ne evidenzino l’influenza negativa sia sullo stato di salute, che sull’assetto funzionale del rapporto di lavoro.

Sulla base di quanto precede, il ricorso non merita accoglimento e, dunque va respinto con onere a carico della societa’ ricorrente, delle spese del presente giudizio.

P.Q.M.

La Corte respinge il ricorso. Pone a carico della societa’ ricorrente le spese del presente giudizio pari ad Euro 41,00 oltre ad Euro 2.500,00 per onorari, e spese, IVA e CPA. Cosi’ deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 22 settembre 2010.

Depositata in Cancelleria il 21.10.2010

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 22-12-2010) 21-01-2011, n. 2201

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Svolgimento del processo e motivi della decisione

Con sentenza 25.2.10 la Corte d’Appello di Lecce confermava la condanna emessa il 14.3.07 dal Tribunale di Brindisi nei confronti di C.M. per il delitto di riciclaggio di un’autovettura di provenienza delittuosa.

Tramite il proprio difensore il C. ricorreva contro la sentenza, di cui chiedeva l’annullamento per i motivi qui di seguito riassunti nei limiti prescritti dall’art. 173 disp. att. c.p.p., comma 1:

a) l’impugnata pronuncia aveva attribuito al ricorrente l’aver alterato il numero di telaio dell’auto e l’averla munita di una carta di circolazione relativa ad altro autoveicolo successivamente immatricolato: a tale conclusione i giudici del merito erano pervenuti in base al rilievo che il C., nel dare l’auto in questione a S.A. in parziale permuta di altro autoveicolo, lo aveva rassicurato in ordine alla non coincidenza fra il modello (successivo) cui si riferiva la carta di circolazione e l’auto, dicendogli che ciò dipendeva dal fatto che il mezzo, dapprima incidentato, era stato oggetto di opere di riparazione (delle quali il C. aveva esibito fattura) che giustificavano la dissonanza rispetto all’epoca di immatricolazione; si obiettava – invece – in ricorso che proprio tale condotta dimostrava la buona fede dell’imputato, che non voleva in alcun modo ostacolare l’identificazione dell’origine del bene; pertanto – concludeva – al più sarebbe stato configurabile il reato p. e p. ex art. 648 cpv. c.p.;

b) erroneamente la Corte territoriale aveva negato le attenuanti dell’art. 62 bis c.p. in base a precedenti penali del C. che, in realtà, erano molto risalenti nel tempo; infine aveva trascurato lo scarso valore commerciale dell’auto, che avrebbe fatto rientrare il reato nella categoria prevista dall’art. 62 c.p., n. 4. 1- Il ricorso è inammissibile.

Il motivo che precede sub a) si colloca al di fuori del novero di quelli spendibili ex art. 606 c.p.p., perchè in esso sostanzialmente si svolgono mere censure sulla valutazione operata in punto di fatto dai giudici del gravame, che con motivazione esauriente, logica e scevra da contraddizioni hanno affermato che nel vendere l’auto al S. il C. aveva dimostrato di essere ben al corrente dell’avvenuta alterazione degli identificativi del bene e da ciò hanno desunto che egli ne era stato l’autore.

Le contrarie argomentazioni svolte in ricorso sollecitano soltanto un nuovo e diverso apprezzamento in punto di fatto della vicenda, il che non è consentito in sede di legittimità.

Nè per ravvisare una manifesta illogicità argomentativa denunciabile per cassazione basta rappresentare la mera possibilità di un’ipotesi alternativa -magari altrettanto logica in via di astratta congettura – rispetto a quella ritenuta in sentenza: a riguardo la giurisprudenza di questa S.C. è antica e consolidata (cfr. Cass. Sez. 1^ n. 12496 del 21.9.99, dep. 4.11.99; Cass. Sez. 1^ n. 1685 del 19.3.98, dep. 4.5.98; Cass. Sez. 1^ n. 7252 del 17.3.99, dep. 8.6.99; Cass. Sez. 1^ n. 13528 dell’11.11.98, dep. 22.12.98;

Cass. Sez. 1^ n. 5285 del 23.3.98, dep. 6.5.98; Cass. S.U. n. 6402 del 30.4.97, dep. 2.7.97; Cass. S.U. n. 16 del 19.6.96, dep. 22.10.96; Cass. Sez. 1^ n. 1213 del 17.1.84, dep. 11.2.84 e numerosissime altre).

2- Il motivo che precede sub b) è manifestamente infondato.

E’ noto nella giurisprudenza di questa Corte Suprema che ai fini della determinazione della pena e dell’applicabilità delle circostanze attenuanti di cui all’art. 62 bis c.p. non è necessario che il giudice, nel riferirsi ai parametri di cui all’art. 133 c.p., li esamini tutti, essendo invece sufficiente che specifichi a quale di essi ha inteso fare riferimento.

Ne deriva che, con il rinvio ai precedenti penali dell’imputato (ancorchè relativi a fatti non recentissimi, come si legge nella gravata pronuncia), indice concreto della personalità del reo, la Corte territoriale ha adempiuto l’obbligo di motivare sul punto (cfr. ad esempio Cass. Sez. 1^ n. 707 del 13.11.97, dep. 21.2.98; Cass. Sez. 1^ n. 8677 del 6.12.2000, dep. 28.2.2001 e numerose altre).

Infine, con il cenno sull’asserito scarso valore commerciale del bene, che avrebbe fatto rientrare il reato nella categoria prevista dall’art. 62 c.p., n. 4 (come si legge in ricorso), il C. non lamenta la mancata concessione della relativa attenuante comune, ma segnala soltanto un elemento di giudizio disponibile ai fini dell’invocata concessione delle attenuanti dell’art. 62 bis c.p.: in tal modo il ricorrente – lungi dal denunciare vizi di legittimità – in sostanza mira soltanto ad ottenere una nuova delibazione in punto di entità del trattamento sanzionatorio, il che non è consentito innanzi a questa S.C..

3- All’inammissibilità del ricorso consegue, ex art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente alle spese processuali e al versamento a favore della Cassa delle Ammende di una somma che stimasi equo quantificare in Euro 1.000,00 alla luce dei profili di colpa ravvisati nell’impugnazione, secondo i principi affermati dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 186/2000.

P.Q.M.

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SECONDA PENALE dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 alla Cassa delle Ammende.

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Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 09-12-2010) 08-02-2011, n. 4557

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1 – Il Procuratore Generale presso la Corte di Catania ricorre per violazione di legge contro sentenza del Giudice di Pace, che dichiara n.d.p. per remissione tacita di querela contro T.F., perchè la persona offesa querelante, citata con allegato avviso delle implicazioni potenziali della sua mancata comparizione, non compariva.

2 – Il ricorso è fondato.

Nel rito del Giudice di pace si distingue l’ipotesi in cui il processo sia promosso dall’offeso con ricorso immediato ex D.Lgs. n. 274 del 2000, artt. 21 e 28, da quella in cui si procede come d’ordinario ai sensi dell’art. 20. Nel primo caso la mancata comparizione dell’offeso implica dichiarazione d’improcedibilità, nel secondo si è talora ritenuto di potersi far luogo al rilievo di remissione tacita ai sensi dell’art. 152 c.p..

Dopo segnalazione di contrasto (1065/01), è divenuto prevalente l’indirizzo che la mancata comparizione dell’offeso non significa remissione tacita (cfr. Cass 5, n. 15093/04, CED rv. 228761; n. 12861/05, rv. 231688, n. 6771/06, rv. 234000).

Il contrasto è stato risolto da S.U. n. 46088, del 30.10.08, P.M. Viele, che ha affermato il seguente principio: "Nel procedimento davanti al giudice di pace instaurato a seguito di citazione disposta dal PM, ex D.Lgs. n. 274 del 2000, art. 20, la mancata comparizione del querelante – pur previamente avvisato che la sua assenza sarebbe stata ritenuta concludente nel senso della remissione tacita della querela – non costituisce fatto incompatibile con la volontà di persistere nella stessa, sì da integrare la remissione tacita, ai sensi dell’art. 152 c.p., comma 2".

Il giudice, pertanto, non può ipotizzare il mutamento di volontà della persona offesa che abbia proposto querela, per via della sua scelta di non comparire.
P.Q.M.

Annulla l’impugnata sentenza con rinvio per nuovo giudizio al Giudice di pace di Catania.

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Cass. civ. Sez. V, Sent., 11-04-2011, n. 8182 Accertamento

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Svolgimento del processo

P.E. impugnava, con tre distinti ricorsi poi riuniti, gli avvisi di accertamento ricevuti in rettifica delle dichiarazioni dei redditi presentate per gli anni 1992, 1993 e 1994. Sulla scorta degli elementi acquisiti mediante accertamenti bancari disposti nell’ambito di un procedimento penale, dei quali l’autorità giudiziaria aveva autorizzato l’utilizzo ai fini fiscali, l’Ufficio aveva recuperato a tassazione, per i tre anni, un imponibile evaso di oltre L. 27 miliardi. Il contribuente contestava la legittimità ed il merito degli accertamenti. La Commissione Tributaria Provinciale di Roma respingeva le eccezioni formali ma riduceva il reddito tassabile recependo le conclusioni di una consulenza tecnica d’ufficio all’uopo disposta. Proponevano appello, per i capi di soccombenza, entrambe le parti. La CTR ha respinto le impugnazioni e confermato la prima decisione. Per la cassazione di tale decisione ricorrono con un motivo l’Amministrazione, e con otto motivi il contribuente.
Motivi della decisione

I ricorsi vanno riuniti ( art. 335 c.p.c.). La CTR ha così motivato:

"Esaminati gli atti, si può rilevare come il comportamento dell’Ufficio appare corretto sul piano prettamente formale, mentre per quanto si riferisce alla effettiva determinazione del reddito non appare chiara la valutazione effettuata, in quanto non risultano movimentazioni in entrata ed in uscita complessivamente considerate.

Appare perciò corretta ogni valutazione del CTU anche per quanto riguarda un errore materiale. Tutte le altre eccezioni formulate dal ricorrente in sede incidentale appaiono ripetitive ed i motivi di censura soltanto enunciativi e perciò scarsamente validi, tenuto conto che le motivazioni degli avvisi sono largamente enumerate, sono state adottate le disposizioni più favorevoli al contribuente, nè può ritenersi superata la presunzione di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32 più volte contestata dallo stesso contribuente, che, peraltro, non ha addotto adeguate prove a suo supporto. Pertanto non può che confermarsi la sentenza dei primi giudici che si sono ispirati a ponderazione ed equità, anche sulla base delle risultanze del C.T.U., che ha effettuato una ricerca ed un esame approfondito ed obiettivo".

Col ricorso principale l’Amministrazione Finanziaria censura la decisione di violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32 e art. 2697 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3; nonchè di motivazione contraddittoria ed insufficiente su punto decisivo in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5. Osserva in particolare che l’art. 32 citato dispone che i dati dei conti correnti bancari "sono posti a base delle rettifiche e degli accertamenti previsti dagli artt. 38, 39, 40 e 41 se il contribuente non dimostra che ne ha tenuto conto per la determinazione del reddito soggetto ad imposta che non hanno rilevanza allo stesso fine; alle stesse condizioni sono altresì posti come ricavi a base delle stesse rettifiche ed accertamenti, se il contribuente non ne indica il soggetto beneficiario, i prelevamenti annotati sugli stessi conti e non risultanti dalle scritture contabili". Nella specie la CTR ha riconosciuto la correttezza formale del comportamento dell’Ufficio e la applicabilità della presunzione stabilita dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32 ed ha dato atto che il contribuente non aveva prove adeguate al suo superamento; concludendo tuttavia per il pur parziale accoglimento dei ricorsi introduttivi.

Il motivo è fondato. La frase "non appare chiara la valutazione effettuata, in quanto non risultano movimentazioni in entrata ed in uscita complessivamente considerate" è priva di un significato compiuto; la considerazione che le prove offerte dal contribuente, definite inadeguate a sostenerne la tesi difensiva, non consentivano di ritenere superata la presunzione di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32 non costituisce legittima premessa della conclusione di annullamento degli accertamenti, che su quella insuperata presunzione erano dichiaratamente fondati; la condivisione della sentenza dei primi giudici – in quanto "ispirata a ponderazione ed equità", e fondata "sulla base delle risultanze del CTU, che ha effettuato una ricerca ed un esame approfondito ed obiettivo" – muove da una premessa di libertà nella valutazione delle risultanze istruttorie che contrasta con la presunzione legale posta dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32 pur riconosciuta applicabile.

Col ricorso incidentale si deducono violazioni di legge e vizi di motivazione in relazione a diverse questioni che sarebbero state prospettate nei gradi di merito (concernenti l’utilizzo dei dati acquisiti nel corso delle indagini penali in violazione del segreto istruttorio e nei confronti di indagato prosciolto dall’addebito (motivi nn. 1 e 2); la insufficienza del termine assegnato D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 32, comma 2 per fornire chiarimenti in ordine alle contestazioni poi trasfuse negli avvisi di accertamento (n. 3);

la acritica riproduzione, negli avvisi, dei rilievi contenuti nel p.v.c. della polizia tributaria (n. 4); la incongruenza dei rilievi contestati in relazione alla natura della attività economica del contribuente (n. 5); la disapplicazione delle disposizioni più favorevoli in ordine alle sanzioni, ex D.Lgs. n. 472 del 1997 (n. 6);

il regolamento delle spese del giudizio di primo grado (n. 7); le conseguenze sul processo del pagamento del 25% degli importi iscritti a ruolo operato dopo la sentenza di primo grado in base alla L. n. 289 del 2002, art. 12 (n. 8)).

La censura n. 7 critica il merito di una decisione discrezionale (la formulazione dell’art. 92 c.p.c. invocata dal ricorrente si applica ai procedimenti iniziati dopo il 1 marzo 2006). Tutte le altre (prima che infondate) sono del pari inammissibili per difetto di autosufficienza, perchè stilate in termini di sommari riferimenti alle deduzioni che sarebbero state formulate nei gradi di merito, delle quali non riproducono il letterale tenore nè precisano in quali atti processuali sarebbero state rappresentate. Questa corte, che – in relazione alla natura dei vizi denunciati – non può prendere diretta cognizione dell’incartamento processuale, non è in grado di valutarne il fondamento.

Va dunque accolto il ricorso principale e respinto quello incidentale. La sentenza impugnata va cassata in relazione al motivo accolto e la causa rimessa, per nuovo esame, ad altra sezione della CTR del Lazio, che deciderà anche sulle spese di questo giudizio di legittimità.
P.Q.M.

Riunisce i ricorsi. Accoglie quello principale e rigetta l’incidentale. Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia la causa, anche per le spese, ad altra sezione della CTR del Lazio.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.