T.A.R. Lazio Roma Sez. II quater, Sent., 04-01-2012, n. 99 Silenzio della Pubblica Amministrazione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

RITENUTO in fatto che il cittadino extracomunitario ricorrente agisce per la declaratoria di illegittimità del silenzio-rifiuto serbato sulla pratica di emersione del lavoro irregolare ai sensi della L. n. 102 del 2009;

CONSIDERATO in diritto che:

– il ricorrente si duole del tempo trascorso dalla presentazione della domanda senza che l’Amministrazione abbia ancora concluso il procedimento;

– l’Amministrazione resistente eccepisce in via preliminare la carenza di legittimazione;

– la procedura di emersione risulta attivabile soltanto su istanza del datore di lavoro, unico soggetto con il quale lo S.U.I. intrattiene rapporti, sia per la richiesta di integrazioni documentali, sia per ogni altro tipo di comunicazione, come il preavviso di diniego ex art. 10 bis della L. n. 241 del 1990, e tenuto altresì conto che la stipulazione del contratto di soggiorno (in caso di esito positivo dell’istruttoria) dipende esclusivamente dal datore di lavoro, tant’è vero che la rinuncia all’istanza di emersione comporta l’archiviazione della pratica;

– pertanto l’unico interlocutore dell’Amministrazione nel procedimento di emersione è il datore di lavoro mentre il cittadino extracomunitario beneficia del provvedimento conclusivo favorevole senza peraltro subire un pregiudizio apprezzabile dal ritardo nella definizione della pratica, non essendo passibile nelle more della definizione della procedura di espulsione dal territorio nazionale;

– per mera completezza di esame va rilevato che l’Amministrazione ha altresì eccepito nel merito, non contrastata, di aver inoltrato al datore di lavoro preavviso di rigetto dell’istanza ai sensi dell’art. 10 bis della L. n. 241 del 1990 per mancata comparizione;

– in definitiva soltanto il datore di lavoro risulta essere legittimato ad impugnare il silenzio rifiuto, con conseguente inammissibilità dell’odierno gravame;

– sussistono le ragioni per disporre la compensazione delle spese di giudizio;

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio-sede di Roma, sez. II quater

DICHIARA INAMMISSIBILE

nei sensi di cui in motivazione il ricorso n.6368/2011 in epigrafe.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 13 ottobre 2011 con l’intervento dei magistrati:

Angelo Scafuri, Presidente, Estensore

Stefania Santoleri, Consigliere

Alessandro Tomassetti, Consigliere

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. IV, Sent., (ud. 29-11-2012) 29-01-2013, n. 4505 Ebbrezza Patente

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Svolgimento del processo

1. Il Tribunale di Piacenza, con sentenza del 18/12/2009, condannò L.B., giudicato colpevole dei reati di cui all’art. 186, commi 1 e 2, lett. a) (così qualificata l’originaria rubrica), e 186 C.d.S., comma 7, alle pene reputate di giustizia.

2. La Corte d’appello di Bologna, investita dall’impugnazione dell’imputato, con sentenza del 20/12/2011, in parziale riforma della sentenza di primo grado, che nel resto confermava, assolse il L. dal reato di cui ai commi 1 e 2, lett. a) perchè il fatto non è più previsto dalla legge come reato, applicando la sanzione amministrativa di Euro 2.000,00.

3. Avverso quest’ultima statuizione il L. proponeva ricorso per cassazione.

3.1. Con il primo motivo il ricorrente deduce violazione di legge.

La Corte territoriale, dopo aver correttamente preso atto che la guida in stato di ebbrezza di cui alla citata lett. a) è stata decriminalizzata ad opera della L. n. 120/2010, aveva applicato la relativa sanzione amministrativa. Ciò non avrebbe potuto fare (nè, peraltro, avrebbe potuto trasmettere gli atti all’autorità amministrativa) in quanto vietato dal principio d’irretroattività delle sanzioni amministrative (L. n. 689 del 1981, art. 1), stante che all’epoca della commissione il fatto non era previsto come illecito amministrativo; nè nella citata L. n. 120 era stata disposta deroga del detto principio.

3.2. Con il successivo motivo viene denunziato vizio motivazionale rilevabile in sede di vaglio di legittimità per essere state negate le circostanze attenuanti generiche, valorizzandosi illogicamente precedenti eterogenei e lontani nel tempo.
Motivi della decisione

4. Il primo motivo risulta fondato.

Il ricorrente, Infatti, ha correttamente posto la questione, siccome risolta a partire dalla statuizione a S.U. del 16/3/1994, n. 7394, che ha trovato plurime successive conferme (cfr. Sez. 4, 19/5/1994, n. 9814; Sez. 3, 3/5/1996, n. 5617; Sez. 1, 23/9/1996, n. 4678; Sez. 4, 16/3/2011, n. 22157; S.U., 29/3/2012, n. 25457) e, pertanto, sul punto la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio e la sanzione amministrativa di Euro 2,000,00 irrogata, eliminata.

5. Destituito di giuridico fondamento, invece, appare il secondo motivo.

Invero, non è, in questa sede, censurabile la decisione del giudice di merito, il quale per negare l’invocata attenuante ha fatto specifico e persuasivo riferimento ai plurimi e gravi precedenti penali dell’imputato, senza che, peraltro, il predetto sia stato in grado di addurre specifico motivo di meritevolezza, che giustificasse la concessione.
P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente all’applicazione della sanzione amministrativa di Euro 2.000,00;

sanzione che elimina. Rigetta il ricorso nel resto.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 31-01-2013) 16-05-2013, n. 21120

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Svolgimento del processo

La Corte di appello dell’Aquila, con sentenza del 13.1.2012, ha confermato la sentenza 9.4.2010 del Tribunale di Avezzano, che aveva affermato la responsabilità penale di C.A. in ordine al reato di cui:

– all’art. 110 c.p., e D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, (coltivazione – in concorso con L.L. – di n. 24 piante di canapa indiana, di altezza compresa tra 29 e 128 cm., in una piantagione recintata con rete metallica – acc. in agro di (OMISSIS)) e, riconosciute circostanze attenuanti generiche, lo aveva condannato alla pena, condizionalmente sospesa, di mesi otto di reclusione ed Euro 2.000,00 di multa.

Avverso tale sentenza ha proposto ricorso il difensore dell’imputato, il quale – sotto i profili della violazione di legge e del vizio di motivazione – ha eccepito: – l’erronea applicazione del principio di offensività, prospettando che, nella specie, le piante non erano giunte a maturazione e, comunque, "il quantitativo di piante e di sostanza stupefacente eventualmente prodotte sarebbe stato talmente irrisorio che avrebbe potuto essere utilizzato soltanto per uso personale";

– l’incongruità del non effettuato giudizio di prevalenza delle riconosciute attenuanti "rispetto all’aggravante";

– la mancata concessione del beneficio della non menzione della condanna.

Motivi della decisione

Il ricorso deve essere rigettato, perchè infondato.

1. Le Sezioni Unite di questa Corte – con la sentenza n. 28605 del 24.4.2008 – hanno affermato il principio secondo il quale costituisce condotta penalmente rilevante qualsiasi attività non autorizzata di coltivazione di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, anche quando sia realizzata per la destinazione del prodotto ad uso personale.

Hanno affermato pure, però, la necessità, in ogni caso, della verifica – demandata al giudice del merito – dell’offensvità specifica della singola condotta in concreto accertata.

Il principio di offensività – in forza del quale non è concepibile un reato senza offesa ("nullum crimen sine iniuria") – secondo la consolidata giurisprudenza costituzionale, opera su due piani, "rispettivamente, della previsione normativa, sotto forma di precetto rivolto al legislatore di prevedere fattispecie che esprimano in astratto un contenuto lesivo, o comunque la messa in pericolo, di un bene o interesse oggetto della tutela penale (offensività in astratto), e dell’applicazione giurisprudenziale (offensività in concreto), quale criterio interpretativo – applicativo affidato al giudice, tenuto ad accertare che il fatto di reato abbia effettivamente leso o messo in pericolo il bene o l’interesse tutelato" (così testualmente Corte Cost. n. 265/05).

Quanto alla previsione normativa, la stessa Corte Costituzionale, con la sentenza n. 360 del 1995, ha ritenuto che la condotta di coltivazione di piante da cui sono estraibili i principi attivi di sostanze stupefacenti integra un tipico reato di pericolo presunto, connotato dalla necessaria offensività della fattispecie criminosa astratta.

In ossequio, invece, al principio di offensività inteso nella sua accezione concreta, spetta al giudice verificare se la condotta, di volta in volta contestata all’agente ed accertata, sia assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico protetto, risultando in concreto inoffensiva si da comportare l’applicabilità della disciplina del reato impossibile ex art. 49 c.p..

In relazione al delitto di coltivazione di piante da sostanze stupefacenti la condotta è "inoffensiva" soltanto se gli interessi tutelati dall’incriminazione penale (la salute, la sicurezza e l’ordine pubblico, secondo l’individuazione operata dalle Sezioni Unite con la sentenza 24.6.1998, Kremi) non sono stati lesi o messi in pericolo anche in grado minimo (irrilevante, infatti, è a tal fine il grado dell’offesa), sicchè la "offensività" non ricorre se la sostanza ricavatole dalla coltivazione non è idonea a produrre un effetto stupefacente in concreto rilevabile.

E’ noto al Collegio che un’isolata sentenza di questa Corte (Sez. 6^, 14.1.2009, n. 1222, Nicoletti) ha affermato la non punibilità della condotta di coltivazione di piante da stupefacenti allorchè si tratti di piante non ancora giunte a maturazione e che, quindi, non abbiano ancora prodotto sostanza avente efficacia stupefacente o psicotropa.

Tale principio, però, non può essere condiviso, dovendo considerarsi inaccettabile qualsiasi automatismo interpretativo che escluda sempre e comunque l’offensività per il solo fatto che, in concreto, il ricavato della coltivazione sia risultato non contenere principio attivo stupefacente.

L’inidoneità offensiva della condotta, infatti, deve essere assoluta e non può dipendere da circostanze occasionali e contingenti quale è quella della scoperta della piantagione da parte della polizia giudiziaria. Diversamente opinando si perverrebbe irrazionalmente ad affermare l’irrilevanza penale anche di una coltivazione di notevoli dimensioni per il numero di piante messe a dimora per il solo fatto che essa sia stata scoperta all’inizio del processo di maturazione ed esclusivamente per tale circostanza fattuale sia risultata non caratterizzata dalla presenza di principio attivo.

Nella vicenda che ci occupa, comunque, la Corte di merito ha confutato le argomentazioni dell’appellante con motivazione adeguata e razionale, evidenziando anche che le analisi effettuate presso i laboratori dell’ARTA (Agenzia regionale per la tutela dell’ambiente) dell’Aquila hanno portato all’accertamento della presenza nelle piantine, già nel momento in cui erano state estirpate, di una quantità di principio attivo (tetraidrocannabinolo) pari a 469 mg..

Tale situazione di produzione già attuale di principio attivo drogante, oltre che l’assenza di ostacoli alla futura incrementabilità di una produzione siffatta, rende evidente l’offensività della condotta accertata.

2. La pena è stata determinata con corretto computo delle concesse attenuanti, in una situazione in cui non doveva essere effettuato alcun giudizio di comparazione poichè nessuna aggravante era stata contestata.

3. Il beneficio della non menzione della condanna non era stato richiesto e non costituiva oggetto dell’appello, sicchè sul punto la Corte di merito non aveva un obbligo di motivazione.

4. Al rigetto del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 31 gennaio 2013.

Depositato in Cancelleria il 16 maggio 2013

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Cass. pen., sez. VI 25-11-2008 (05-11-2008), n. 43885 Impossibilità assoluta a comparire – Infermità fisica – Fattispecie – Patologia agli arti inferiori con difficoltà di deambulazione.

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

FATTO
Il ricorrente impugna per cassazione la sentenza di cui in epigrafe, che ne ha confermato la penale responsabilità per il delitto di calunnia (art. 368 c.p.), per avere, con denuncia presentata ai Carabinieri, incolpato P.A., che sapeva innocente, del reato di peculato aggravato, consistito nell’avere usato un’autovettura di Stato senza averne titolo. Deduce che:
1.- illegittimamente e con illogica motivazione è stato escluso un legittimo impedimento dell’imputato a partecipare all’udienza fissata per la trattazione del giudizio di appello;
2.- illegittimamente sono state utilizzate nel giudizio le dichiarazioni predibattimentali di un teste chiave, sulla base della mera attestazione dei CC che lo stesso aveva abbandonato il suo domicilio, ed è stata respinta la richiesta di audizione di due testi della difesa;
3.- il fatto riferito nella denuncia non integrava un’effettiva ipotesi di reato, dovendosi escludere la configurabilità del peculato in relazione a un uso meramente occasionale di un bene pubblico;
4.- non è stata adeguatamente valutata l’incidenza, sul dolo del reato, della accertata condizione di alterazione psichica in cui versava l’imputato all’epoca del fatto;
5.- non è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della L. n. 251 del 2005, art. 10, comma 3 in materia di prescrizione.
DIRITTO
E’ fondato il primo motivo di ricorso, il cui accoglimento comporta l’assorbimento degli altri motivi.
La motivazione con cui, invero, il giudice d’appello (in contrasto con il P.G. di udienza) ebbe a disattendere, all’udienza del 20.02.2007, l’allegato impedimento dell’imputato a comparire in giudizio per motivi di salute, è radicalmente viziata. Da un lato, infatti, essa valorizza del tutto impropriamente il dato, puramente estrinseco, della identità, quanto a diagnosi e prognosi, della certificazione sanitaria prodotta con altra presentata in precedenza, laddove, com’è evidente, quello che rilevava era la portata, valenza e attualità intrinseca della ultima certificazione prodotta, relativa alle condizioni in atto del soggetto. Dall’altro, a fronte dell’attestazione di una sindrome algica lombo-sacrale acuta irradiata a entrambi gli arti inferiori, di grado severo, richiedente l’assunzione giornaliera di terapia analgesica con oppioidi forti e confinante il paziente a letto o su sedia, non poteva certo la Corte di merito limitarsi a rilevare, senza alcun accertamento diretto, che la patologia segnalata era sì indice di uno stato di malessere e di incerta deambulazione, ma non di totale impossibilità a comparire con idoneo accompagnamento, familiare o sanitario.
In tal modo la Corte d’appello, dando rilievo solo alla difficoltà deambulatoria dell’imputato, ha ritenuto fosse suo onere procurarsi ausilii idonei ad assicurarne il trasporto e la presenza in udienza.
Così facendo, però, ha inaccettabilmente inteso l’assoluta impossibilità a comparire derivante da infermità fisica come impedimento esclusivamente meccanico dell’imputato a fare ingresso nell’aula di udienza, senza considerare che la facoltà di comparire è estrinsecazione dell’esercizio del diritto di difesa, implicante che l’imputato sia in grado di presenziare al processo a suo carico in modo vigile e attivo (cfr. Corte cost. sent. n. 39 del 2004 e sent. n. 341 del 1999; Cass. n. 12836 del 06.04.2005; n. 4242, c.c. 20.06.1997).
La condizione patologica da cui era affetto l’imputato, oltre ad aver prodotto una seria insicurezza deambulatoria, gli produceva, stando alla certificazione (non superata da verifiche tecniche o argomenti dirimenti), una sintomatologia dolorosa diffusa e grave, richiedente un trattamento continuativo con oppiodi forti. In una situazione del genere, richiedere all’imputato, interessato a comparire all’udienza, di impegnarsi mentalmente e materialmente, sia per assicurarsi il tempestivo ausilio di mezzi di trasporto atti a sopperire alla sua difficoltà locomotoria, sia per assistere, in una condizione di sofferenza fisica e/o pesante sedazione farmacologica, allo svolgimento della udienza, va al di là di ciò che può legittimamente esigersi da chi voglia esercitare effettivamente, con la necessaria tranquillità d’animo e capacità intellettiva, il suo diritto di difesa, evitando, altresì, stress psico-fisici suscettibili di aggravare le sue condizioni di salute o provocare sofferenze apprezzabili, in modo incompatibile con la tutela (costituzionalmente garantita) del diritto alla salute. La situazione di insicurezza locomotoria accompagnata da una sintomatologia dolorosa quale quella riferibile alla patologia nella specie riscontrata, comportava, quindi, nella sostanza, una assoluta impossibilità a comparire dell’imputato. Dal che deriva la nullità dell’ordinanza dichiarativa della contumacia e degli atti conseguenti, fino alla sentenza di secondo grado.
P.Q.M.
Visti gli artt. 615 e 623 c.p.p., annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo giudizio alla Corte di appello di Napoli.

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