Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 02-08-2012, n. 13862

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/




Svolgimento del processo

L.A. ha convenuto in giudizio l’Inps dinanzi al Tribunale di Brindisi chiedendo l’accertamento del diritto ad essere iscritta nell’elenco nominativo dei lavoratori agricoli a tempo determinato per gli anni 1993 e 1994. Costituendosi in giudizio, l’Inps ha eccepito la decadenza dall’azione giudiziaria e contestato nel merito la fondatezza della pretesa.

Il Tribunale di Brindisi, ritenuta la ricorrente decaduta dall’azione giudiziaria perchè esercitata oltre il termine (120 giorni) previsto dal D.L. n. 7 del 1970, art. 22, conv. in L. n. 83 del 1970, ha dichiarato inammissibile il ricorso.

Con sentenza del 3/5/2007, emessa a seguito di appello dell’Inps, la Corte d’appello di Lecce, in riforma della decisione di primo grado, ha accolto la domanda. Ha osservato il giudice dell’appello che il termine (di decadenza sostanziale) di cui all’art. 22 cit. decorre dall’adozione di un provvedimento amministrativo formale, da portare a conoscenza dell’interessato mediante notificazione, mentre, nella specie, il procedimento amministrativo contenzioso, introdotto con il ricorso della lavoratrice ai sensi del D.Lgs. n. 375 del 1993, art. 11 si era concluso senza che l’autorità competente si fosse pronunciata. Pertanto, secondo il giudice a quo, l’azione giudiziaria doveva considerarsi tempestiva, così come fondata era la pretesa di iscrizione, stante la provata esistenza del dedotto rapporto di lavoro subordinato negli anni e per il numero di giornate indicate dall’appellante.

Contro la sentenza l’INPS ha proposto ricorso fondato su un unico motivo.

La L. non ha svolto attività difensiva.

Motivi della decisione

Deduce l’INPS la violazione e/o falsa applicazione del D.L. 3 febbraio 1970, n. 7, art. 22 convertito con modifiche dalla L. 11 marzo 1970, n. 83, della L. 11 agosto 1973, n. 533, art. 8 e in connessione con questi dell’art. 15 disp. gen. e dell’art. 148 disp. att. cod. proc. civ. nel testo introdotto dalla L. n. 533 del 1973, art. 9 nonchè del D.Lgs. 11 agosto 375, art. 11 (art. 360 c.p.c., n. 3). Censura la sentenza impugnata per non avere tenuto conto che la norma da ultimo citata attribuisce all’inutile decorso dei termini da essa stabiliti per la decisione del ricorso in sede amministrativa valore di provvedimento tacito di rigetto, che deve ritenersi legalmente conosciuto dal destinatario in coincidenza con lo scadere dei termini anzidetti, con la conseguenza che anche dalla definizione in questa forma del procedimento amministrativo contenzioso decorre il termine di 120 giorni per opporsi in sede giudiziaria al provvedimento di non iscrizione o di cancellazione.

Il punto controverso posto all’attenzione della Corte concerne l’individuazione del dies a quo di decorrenza del termine stabilito dal D.L. 3 febbraio 1970, n. 7, art. 22, convertito nella L. 11 marzo 1970, n. 83, per l’esercizio dell’azione giudiziaria intesa a contestare i provvedimenti amministrativi adottati in materia di collocamento e di accertamento dei lavoratori agricoli, ritenuto, per orientamento consolidato di legittimità, di decadenza sostanziale, così da non essere suscettibile di sanatoria.

Resta da stabilire quando inizi a decorrere detto termine nel caso in cui il lavoratore abbia presentato ricorso amministrativo contro il provvedimento di non inclusione ovvero di cancellazione dagli elenchi nominativi.

La giurisprudenza di questa Corte (si veda per tutte Cass. 813/2007) è da tempo consolidata nel ritenere che il riferimento fatto dal D.L. n. 7 del 1970, art. 22, ai "provvedimenti definitivi adottati in applicazione del presente decreto" va inteso come comprensivo sia dei provvedimenti degli organi preposti alla gestione degli elenchi, che siano divenuti definitivi perchè non fatti oggetto dei previsti gravami amministrativi, sia dei provvedimenti che siano divenuti definitivi in esito al procedimento amministrativo contenzioso aperto su ricorso dell’interessato. Per questo secondo caso viene in considerazione la disposizione del D.Lgs. n. 375 del 1993, art. 11, la quale, modificando la disciplina posta dal citato D.L. n. 7 del 1970, art. 17 – che assegnava alla mancata decisione del ricorso nei prescritti termini valore di accoglimento del ricorso medesimo – attribuisce al silenzio dell’autorità preposta valore di provvedimento di rigetto. Ne discende che, per le decisioni espresse, vale la regola della decorrenza del termine di decadenza dalla data della loro comunicazione all’interessato (salva la possibilità, per chi eccepisca la decadenza, di provarne l’acquisita conoscenza in un momento precedente), mentre, per l’ipotesi di mancata decisione da parte dell’autorità competente nei termini previsti dal D.Lgs. n. 375 del 1993, art, 11, citato, vale la regola della decorrenza del termine di decadenza dalla scadenza dei termini richiamati, essendo questa una scadenza che, per essere direttamente prevista dalla legge, deve intendersi conosciuta o, comunque, conoscibile ex lege da chi ha proposto il ricorso. Deve ribadirsi, pertanto, anche con riguardo alla controversia in oggetto, il principio secondo cui "Nel caso di avvenuta presentazione dei ricorsi amministrativi previsti dal D.Lgs. n. 375 del 1993, art. 11, contro i provvedimenti di mancata iscrizione (totale o parziale) negli elenchi nominativi dei lavoratori agricoli, ovvero di cancellazione dagli elenchi medesimi, il termine di 120 giorni per l’esercizio dell’azione giudiziaria, stabilito dal D.L. n. 7 del 1970, art. 22 (convertito dalla L. n. 83 del 1970) decorre dalla definizione del procedimento amministrativo contenzioso; definizione che coincide con la data di notifica al ricorrente del provvedimento conclusivo espresso, se adottato nei termini previsti dell’art. 11 citato, ovvero con la scadenza di questi stessi termini nel caso di loro inutile decorso, dovendosi equiparare l’inerzia della competente autorità a un provvedimento tacito di rigetto del proposto gravame, conosciuto ex lege dall’interessato al verificarsi della descritta evenienza".

Alla stregua di tale principio il ricorso dell’INPS va accolto, pacifico essendo tra le parti il fatto che il ricorso introduttivo del giudizio di primo grado era stato depositato il 13 ottobre 1999, mentre il ricorso amministrativo alla Commissione provinciale per la manodopera agricola risaliva al 21 gennaio 1997.

Da ciò consegue la cassazione della sentenza impugnata e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa direttamente da questa Corte nel merito, nel senso del rigetto della domanda di cui al ricorso introduttivo del giudizio di primo grado.

Nulla deve disporsi per le spese dell’intero processo ai sensi dell’art. 152 disp. att. c.p.c., nel testo vigente anteriormente alle modifiche introdotte dal D.L. n. 269 del 2003 (convertito dalla L. n. 326 del 2003), nella specie inapplicabile ratione temporis.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta la domanda proposta da L. A.; nulla per le spese in ordine all’intero processo.

Così deciso in Roma, il 10 maggio 2012.

Depositato in Cancelleria il 2 agosto 2012

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen., sez. I 26-11-2008 (11-11-2008), n. 44079 Questioni relative all’entità delle singole voci di spesa – Rimedio esperibile.

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

OSSERVA
Nei confronti di G.O. il 22/10/03 il GIP del Tribunale di Padova ha emesso sentenza di applicazione di pena su richiesta per concorso in violazioni delle leggi sugli stupefacenti (capo A) con altri tre imputati ai quali sono stati contestati anche altri analoghi reati (capi B e C).
Con detta sentenza, divenuta irrevocabile, tutti gli imputati sono stati condannati in solido al pagamento delle spese processuali di elevato importo, derivanti soprattutto dalle eseguite intercettazioni.
L’incidente con cui la G. ha chiesto che le spese venissero ripartite proporzionalmente ai rispettivi addebiti è stato respinto dal GIP, in funzione di giudice dell’esecuzione, con ordinanza in data 19/3/08 sul rilievo che quanto stabilito, in fase di cognizione trovava giustificazione, anche se tra i reati di cui ai capi B e C e quello di cui al capo A vi era connessione solo soggettiva e probatoria non rilevante ai sensi dell’art. 535 c.p.p., comma 2, nel fatto che le intercettazioni avevano consentito di accertare i fatti nel loro complesso, e quindi anche quello di cui al capo A, e che le spese relative non erano praticamente scindibili.
Contro tale pronuncia il difensore dell’interessata ha proposto ricorso per Cassazione con il quale deduce violazione di legge e vizio di motivazione per non avere il giudice dell’esecuzione tenuto conto che le spese di intercettazione riguardavano principalmente le utenze degli altri imputati, con possibilità quindi di operare una scissione tra le varie voci di spesa, e per non avere tratto le dovute conseguenze dalla riconosciuta assenza di connessione rilevante trai reati.
Il gravame deve essere dichiarato senz’altro inammissibile, con le conseguenze previste dall’art. 616 c.p.p..
Ed invero, come esattamente rilevato dal Procuratore generale presso questa Corte, la legittimità della statuizione della condanna solidale al pagamento delle spese, che appare peraltro ineccepibile essendo le intercettazioni telefoniche servite anche per l’accertamento del reato contestato a titolo concorsuale alla ricorrente, non poteva più essere più messa in discussione in fase esecutiva perchè la questione doveva essere dedotta impugnando la sentenza.
Ciò per quanto concerne il titolo per l’esercizio dell’azione di recupero, mentre le questioni attinenti alla determinazione dell’ammontare delle singole voci di spesa potevano essere sollevate solo attivando il procedimento di opposizione all’esecuzione ex art. 615 c.p.c. (cfr. al riguardo le sentenze di questa Sezione 2/4/04, Confl., in proc. Lunardon, rv. 227.983 e 23/3/07, Martinelli, rv.
236.436).
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro Mille alla Cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

Cassazione, sez. II, 25 marzo 2011, n. 6978 Valido il testamento privo della sottoscrizione del de cuius se il notaio ha attestato che la mancata apposizione della firma non dipendeva da alcuna incapacità mentale?

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

Svolgimento del processo

Con citazione del 1998, E.C. conveniva di fronte al tribunale di Torino alcuni soggetti, nominati nei testamento di C.G.C., deceduto nel corso dello stesso anno, onde ottenere la declaratoria di nullità del testamento di quest’ultimo, redatto per atto pubblico nel 1997, per incapacità naturale del testatore al momento dell’atto.

Si costituivano F..N., C.G., M.E., Gu., Gi., L. e C., questi ultimi quali subentranti nella successione del de cuius, per rappresentazione, a C.S. e P. e resistevano alla domanda attorea. Con sentenza del 2001, l’adito Tribunale respingeva la domanda e regolava le spese; avverso tale decisione proponeva appello C.E. , cui resistevano tutti i predetti, mentre, come già in prime cure, il comune di Racconigi e F..P. restavano contumaci. Previa ammissione ed espletamento della prova testimoniale formulata sin dal primo grado dati appellante, con sentenza in data 20.7/29.1 1.2004, la Corte di appello di Torino respingeva il gravame e regolava le spese.

Osservava la Corte subalpina, che lo stato di incapacità naturale del testante al momento dell’atto non era risultata provata dal testimoniale escusso, mentre era condivisibile la CTU disposta ed espletata in primo grado e la mancata sottoscrizione del testatore era stata registrata dal notaio rogante come giustificata da spossatezza e sfinimento, clementi questi che non attestavano una incapacità di intendere e di volere in capo al de cuius.

In esisto ad una compiuta analisi di tutti gli elementi acquisiti agli atti, la Corte distrettuale riteneva inconsistenti i motivi di appello come proposti.

Per la cassazione di tale sentenza ricorre, sulla base di due motivi, illustrati anche con memoria, E.C..

Resistono con separati controricorsi, il N. da un lato e i C. dall’altro, mentre gli altri intimati non hanno svolto attività difensiva.

Motivi della decisione

Con il primo motivo, si lamenta vizio di motivazione su di un punto decisivo della controversia: la capacità del testatore al momento in cui fu redatto il testamento e la sua situa/ione di continua infermità mentale.

Con riferimento alla testimonianza resa da A.M..N.D.V. , già direttrice della Casa di riposo (OMISSIS) nel periodo in cui vi fu ricoverato G.C..C. , la quale ha deposto nel senso che il predetto fu spostato in un’area della casa di cura destinata a persone non autosufficienti, in ragione delle sue manifestazioni, quali gridare, buttarsi in terra e così via.

Si lamenta che la valutazione della Corte subalpina sarebbe stata impropriamente conclusa nel senso che le manifestazioni suddette sarebbero state dovute ad una situazione di incapacità fisica e non mentale, mentre le stesse, o almeno alcune di esse, dimostravano una grave incapacità psichica.

Premesso che la valutazione de qua è tipicamente di fatto e, come tale, insindacabile in sede di legittimità, devesi aggiungere che le manifestazioni descritte dalla teste appaiono obiettivamente opinabili, non tali da attestare uno stato di permanente incapacità mentale.

Con riguardo alla valutazione delle censure mosse dall’odierna ricorrente alla CTU, la sentenza impugnata ha affermato che non era risultato che lo stato di malattia all’apparato gastrointestinale del C. ed il conseguente suo progressivo deperimento organico avessero cagionato incapacità di autodeterminarsi. Ci si duole per un verso del metodo seguito dal CTU per giungere alla conclusioni rassegnate e per altro verso della mancata valutazione di tutte le condizioni personali del de cuius, che nel loro complesso, avrebbero cagionato incapacità di intendere e di volere.

Trattasi anche in tal caso di valutazioni di natura tecnica, cui il CTU è pervenuto in esito ad una attività accertali va svolta post mortem e quindi documentale, che con giudizio né incongruo, né illogico, la Corte distrettuale ha ritenuto valide e sostanzialmente condivisibili; è comprensibile che a quegli stessi dati possa essere attribuito un significato diverso, ma tanto non toglie valenza alle conclusioni raggiunte nella sentenza impugnata.

Quanto ancora alla valutazione complessiva degli elementi probatori, non vengono evidenziati vizi obiettivamente idonei a scalfire la correttezza dell’iter argomentativo seguito né la plausibilità dello stesso, per cui, trattandosi di valutazione discrezionale, istituzionalmente demandata al giudice del merito, il prospettare una lettura diversa di quegli stessi elementi non è sufficiente a svilire il ragionamento svolto al riguardo nella sentenza impugnata, ma solo a ipotizzare una possibile diversa tesi, inidonea peraltro a togliere valenza a quella ritenuta più congrua nella sentenza impugnata.

In base a tali considerazioni, il primo motivo di ricorso non può trovare accoglimento.

Con il secondo mezzo, ci si duole di vizio di motivazione in ordine alla mancata sottoscrizione del testamento pubblico da parte del testatore.

Il profilo in questione, più volte esaminato dalla giurisprudenza, trova, secondo la Corte subalpina, idonea spiegazione nella attestazione del notaio rogante, che ha dato contezza nei fatto delle ragione che avevano indotto il C. a non sottoscrivere il testamento pubblico.

Invero, la presenza dell’Ufficiale rogante alla redazione di tutto l’atto, e la successiva attestazione delle dichiarazioni rese dal testatore circa il proprio stato di spossatezza e sfinimento sono state considerate elementi convergenti e sufficienti a dimostrare che la mancata apposizione della firma non dipendevano da volontà di invalidare l’atto né da incapacità di intendere e di volere.

Tale conclusioni, segnatamente rafforzate dalla presenza del notaio, che, ovviamente non sia ravvisato nel testatore segni di incapacità di intendere e di volere, possono essere certamente discusse, ma non private della intrinseca valenza che le contraddistingue, atteso anche che le condizioni fisiche del C. , ampiamente documentale, ben potevano essere causa di sfinimento e di spossatezza, fenomeni di incapacità fisica che non attingevano a profili di incapacità mentale.

Anche il secondo motivo pertanto non può trovare accoglimento.

Trattasi di situazione particolarmente delicata, la cui soluzione peraltro è stata basata su elementi concreti, debitamente valutati e plausibili, non contrastanti in modo assoluto con emergenze processuali inidonee, da sole, a svilire le argomentazioni utilizzate onde pervenire alla decisione adottata.

Tali considerazioni conclusive appaiono valido motivo per compensare interamente tra le parti le spese relative al presente procedimento per cassazione.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; spese compensate.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cons. Stato Sez. V, Sent., 18-01-2011, n. 305 Bilancio comunale e provinciale; Trattamento economico; Pensioni, stipendi e salari

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

La ricorrente, nella qualità di erede di O.S., ex dipendente della Provincia di Napoli, ha proposto ricorso dinanzi al Tar Campania per il riconoscimento del diritto alla rivalutazione monetaria ed agli interessi legali maturati sulle somme corrisposte in ritardo al suo dante causa in esecuzione della delibera di Giunta del 17.10.1979 n. 4063, ai sensi del disposto dell’art. 228 del T.U.L.C.P. n. 383/1934 per il periodo 1972/1975.

Il Tar, riconducendo l’insorgenza del credito da lavoro, al più tardi, al giudicato formatosi con sentenza del Consiglio di Stato.n. 468 del 1983, con cui veniva confermata la legittimità della delibera di Giunta n. 4063/1979, ha respinto il ricorso, notificato in data 18 novembre 1998, per intervenuta prescrizione, eccepita in prima difesa dall’amministrazione provinciale.

Propone appello l’interessata, sostenendo che con atti successivi alla pronuncia del Consiglio di Stato (delibere n. 71 e 72 del 15.7.1991, n. 40 del 15.4.1992 e n. 879 del 15.5.1992) l’Ente avrebbe compiuto un riconoscimento del debito da intendersi come atto interruttivo della prescrizione.

Poiché ai sensi dell’art. 2, c. 4 L.195/1939, la prescrizione decorre dal giorno in cui il provvedimento da cui sorge il diritto sia portato a conoscenza del creditore, la mancanza di un provvedimento formale di determinazione e liquidazione non avrebbe fatto mai decorrere il termine di prescrizione.

Non sarebbe poi stata necessaria, contrariamente a quanto affermato dal Tar, una espressa domanda dell’interessato di riconoscimento degli emolumenti ex art. 228 T.U.L.C.P. stando il riconoscimento di debito da parte dell’amministrazione.

Si è costituita l’amministrazione provinciale controdeducendo al ricorso.

L’appellante ha depositato memoria ad ulteriore illustrazione delle proprie tesi difensive, sostenendo altresì che la dichiarazione dello stato di dissesto dell’amministrazione provinciale del 26.5.1993 avrebbe prodotto la sospensione dei termini di prescrizione fino all’approvazione del rendiconto, di cui alla delibera n. 269 del 9.7.1997.

All’udienza del 19 novembre 2010 il ricorso è stato trattenuto in decisione.

Motivi della decisione

In primo luogo, il Collegio ritiene di non poter prendere in esame il motivo in base al quale la prescrizione sarebbe stata sospesa per effetto della dichiarazione dello stato di dissesto in quanto inammissibilmente proposto solo in memoria conclusionale.

Peraltro, è appena il caso di richiamare a riguardo una consolidata giurisprudenza (Cons. St. Sez. V, 28.5.2009, n. 3261; 19.9.2007, n. 4878) secondo cui lo stato di dissesto preclude nei confronti dell’ente unicamente le azioni esecutive per i debiti che rientrano nelle competenze dell’organo straordinario, ma non impedisce il decorso del termine di prescrizione dei diritti vantati nei confronti dell’ente, né l’instaurazione di azioni di accertamento dei crediti.

Ciò premesso, il Collegio valuta l’appello da respingere perchè infondato.

Costituisce principio generale quello per cui rivalutazione monetaria ed interessi corrispettivi sui crediti di lavoro dei pubblici dipendenti decorrono dalla data di maturazione del diritto.

Quando il diritto di credito da lavoro del pubblico dipendente trova la fonte in un provvedimento amministrativo, la data della sua maturazione, e dunque la relativa decorrenza del termine di prescrizione anche degli accessori, è quella del provvedimento, ancorchè questo abbia efficacia retroattiva (art. 2, comma 4 R.D.L. n. 295/ 1939; Cons. St. IV, 3.5.2000 n. 2615, 29.5.1998, n. 893).

Nella specie, il provvedimento con cui è insorto il diritto alla corresponsione delle competenze economiche è costituito dalla delibera di Giunta n. 4063/1979, da intendersi quale atto formale che ha applicato l’art.228 del t.u.l.c.p. n. 383 del 1934, riconoscendo l’istituto dell’equa proporzione della retribuzione dei dipendenti degli enti locali con quella del segretario generale dell’ente, la cui legittimità è stata confermata con decisione del Consiglio di Stato n. 468 del 1983, dalla cui emissione il Tar ha fatto decorrere il termine di prescrizione.

Rispetto a tale momento deve considerarsi maturata la prescrizione anteriormente all’instaurazione del giudizio (18.11.1998).

Quanto alla sussistenza di validi atti interruttivi di provenienza della parte debitrice, a partire dalla decisione dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato 22.12.2004, n. 13, è stato chiarito che, ai fini dell’interruzione del termine di prescrizione ai sensi dell’art. 2944 c.c., il pagamento della sorte capitale operato da una pubblica amministrazione debitrice ha solo un effetto estintivo del debito per il capitale, senza che vi si possa riconoscere il significato di riconoscimento di debito relativo agli accessori.

Nella specie, gli atti con cui sono stati determinati e liquidati i crediti retributivi costituiscono adempimento dell’obbligazione retributiva, ma ad essi non può riconnettersi una univoca manifestazione della volontà di riconoscimento del debito, per quanto qui interessa, relativamente alla rivalutazione monetaria ed agli interessi sulle somme dovute per il periodo 1972/ 1975 cui l’appellante vorrebbe far risalire l’effetto interruttivo della prescrizione.

La reiezione dei motivi contro l’accertamento dell’intervenuta estinzione del diritto per prescrizione esime il Collegio dal valutare l’ulteriore motivo di merito.

Sussitono tuttavia giusti motivi per compensare le spese di giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge e, per l’effetto, conferma la sentenza di primo grado.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.