Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 12-04-2012, n. 5795 Indennità di buonuscita o di fine rapporto

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/
Svolgimento del processo

I lavoratori indicati in epigrafe convenivano in giudizio l’istituto Poligrafico e Zecca dello Stato di cui erano dipendenti e chiedevano, sul presupposto dell’effettuazione di prestazioni di lavoro straordinario reso in modo costante, la declaratoria del diritto al computo dei relativi compensi nella base di calcolo dell’indennità di anzianità e del TFR nonchè il ricalcalo, mediante il computo dei detti compensi, della retribuzione corrisposta per 13^, 14^ e per periodo feriale.

L’adito giudice accoglieva la domanda relativa al ricalcalo dell’indennità di anzianità e del TFR nonchè della retribuzione per il periodo feriale, della 13^ e 14^ per queste ultime, però, sino al 1992.

La Corte di Appello di Roma, riformando parzialmente la sentenza di primo grado,respingeva il capo domanda relativo al ricalcolo del compenso per lavoro straordinario nel periodo feriale.

Avverso questa sentenza l’Istituto in epigrafe ricorre in cassazione sulla base di due censure.

Le parti intimate non svolgono attività difensiva.

Motivi della decisione

Con il primo motivo di censura l’Istituto ricorrente, deducendo violazione delle norme del contratto collettivo e dell’art. 2120cc, assume che la Corte del merito ha erroneamente interpretato il CCNL del 1992 ritenendo, relativamente al TFR, prevista una nozione di retribuzione omnicomprensiva.

La censura, alla luce della giurisprudenza di questa Corte, cui il Collegio in ossequio anche al principio di nomofilachia reputa di aderire, è fondata.

Questo giudice di legittimità infatti ha sancito, nell’interpretare direttamente ex art. 360 c.p.c., n. 3, così come novellato dal D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 2, la denunciata norma collettiva che in tema di determinazione del trattamento di fine rapporto, il principio secondo il quale la base di calcolo va di regola determinata in relazione al principio della onnicomprensivita della retribuzione di cui all’art. 2120 cod. civ., nel testo novellato dalla L. n. 297 del 1982, è derogabile dalla contrattazione collettiva, che può limitare la base di calcolo anche con modalità indirette purchè la volontà risulti chiara pur senza l’utilizzazione di formule speciale od espressamente derogatorie. Ne consegue che, con riferimento al personale dipendente delle aziende grafiche e affini e delle aziende editoriali (nella specie, dell’Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato), a partire dal c.c.n.l. del 1 novembre 1992, la quota annuale di cui alla L. n. 297 del 1982, art. 1, per il calcolo del trattamento di fine rapporto concerne la retribuzione indicata, con definizione non onnicomprensiva, nell’art. 21 del c.c.n.l. medesimo sulla nomenclatura, ossia quella "complessivamente percepita dal quadro, dall’impiegato e dall’operaio per la sua prestazione lavorativa, nell’orario normale", con esclusione delle prestazioni di lavoro straordinario (Cass. 13 gennaio 2010 n. 365 e Cass. 27 maggio 2010 n. 13048).

Con la seconda censura l’Istituto ricorrente, denunciando violazione dell’art. 1362 c.c., in relazione alla normativa collettiva, assume che erroneamente la Corte del merito, quanto al computo della retribuzione corrisposta per lavoro straordinario negli istituti c.d. indiretti (13^ e 14^ mensilità) non ha tenuto conto delle specifiche declaratorie contrattuali che disciplinano siffatti istituti dalle quali non è evincibile un concetto di retribuzione onnicomprensiva.

Il motivo è fondato.

E’ ormai principio consolidato (tra le tante Cass. n. 4341 del 3 marzo 2004) che "Nel vigente ordinamento, in materia di retribuzione dovuta al prestatore di lavoro ai fini dei cc.dd. istituti indiretti (mensilità aggiuntive, ferie, malattia e infortunio), non esiste un principio generale ed inderogabile di omnicomprensività, e, pertanto, nella quantificazione della retribuzione spettante il compenso per lavoro straordinario di turno può essere computato esclusivamente qualora ciò sia previsto da specifiche norme mediante in riferimento alla "retribuzione globale di fatto", ovvero dalla disciplina collettiva, da interpretare nel rispetto dei canoni di cui all’art. 1362 cod. civ., e segg.".

In base al medesimo principio questa Corte con la sentenza n. 2781 del 06/02/2008 e con numerose altre conformi, rese in fattispecie del tutto analoghe, ha affermato che nell’interpretazione della disciplina contrattuale collettiva dei rapporti di lavoro, assume una rilevanza particolare il criterio della interpretazione complessiva delle clausole, di cui all’art. 1363 cod. civ., ed ha annullato con rinvio la sentenza di merito sul presupposto che questa non avesse indagato a sufficienza le norme dei contratti collettivi per i dipendenti dell’Istituto Poligrafico dello Stato del 1989 e del 1992 in materia di incidenza dello straordinario sull’onnicomprensività della retribuzione ed in tema di modalità di determinazione della tredicesima e quattordicesima mensilità.

Si è osservato con la citata decisione che "La sentenza impugnata ritiene che l’incidenza dello straordinario continuativamente prestato su tali istituti derivi dall’art. 21 del C.C.N.L. del 1989 il quale darebbe della retribuzione una nozione onnicomprensiva, senza che nello stesso contratto esistano altri parametri che consentano di scorporare da tale nozione alcuno degli elementi retributivi percepiti viene interpretata nel senso che retribuzione sarebbe quanto percepito non solo per l’orario contrattuale, ma anche per lo straordinario fisso e continuativo (che come tale entrerebbe a far parte nello "orario normale"). Tale ricostruzione è del tutto carente, in quanto manca l’esame delle disposizioni dedicate agli istituti retributivi in parola dai due contratti collettivi in esame, nonchè dal regolamento del personale, che dedica specifiche norme alle modalità di determinazione della tredicesima e quattordicesima mensilità e ne fissa il computo in maniera fissa ed invariabile.

Tale difetto di indagine comporta la violazione del canone ermeneutico della valutazione complessiva delle clausole contrattuali ( art. 1363 c.c.), che la giurisprudenza di questa Corte ritiene di particolare rilievo nell’interpretazione dei contratti collettivi (Cass. 5.6.04 n. 10721 ed altre conformi)".

Ed infatti, una volta ripudiata la tesi della onnicomprensività della retribuzione, non resta all’interprete che esaminare le singole clausole della contrattazione collettiva, ed interpretarle le une per mezzo delle altre, per accertare quale fosse la reale volontà delle parti sul computo delle mensilità aggiuntive.

Nel caso di specie, poichè la sentenza è stata pubblicata dopo l’entrata in vigore del d.lgs. n. 40 del 2006, deve invece procedersi all’interpretazione diretta della normativa contrattuale, come previsto dalla nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 3.

Le disposizioni contrattuali da applicare sono le seguenti: in primo luogo quelle di cui alla "nomenclatura". I CCNL del 1986 e del 1989 recano un’unica definizione (rispettivamente art. 19 ed all’art. 21):

"Le dizioni stipendio, salario, retribuzione devono essere intese come segue:

Stipendio e salario è il corrispettivo spettante al quadro, all’impiegato e all’operaio in base ai valori base contrattuali di cui alla tabella dei minimi di stipendio e di salario riportato nella Parte Settima, ed all’indennità di contingenza; Retribuzione è quanto complessivamente percepito dal quadro, dall’impiegato e dall’operaio per la sua prestazione lavorativa".

Le disposizioni in materia di tredicesima mensilità distinguono tra operai da una parte e quadri ed impiegati dall’altra e sono di identico tenore nel CCNL del 1986 ed in quello del 1989.

Per gli operai all’art. 8 si prevede: "La gratifica natalizia per gli operai e gli apprendisti è stabilita, per ciascun anno, nella misura di duecento ore di retribuzione …..".

Per gli impiegati all’art. 8 (parte impiegati) si prevede: "L’azienda corrisponderà una tredicesima mensilità pari al 30/26 della retribuzione mensile percepita dall’impiegato…".

Quanto alla quattordicesima, essa è prevista all’art. 30 del regolamento del personale, concernente quadri, impiegati ed operai e reca la seguente previsione" …. L’ammontare di essa per i quadri e gli impiegati è pari ad una mensilità di retribuzione per gli operai è pari al salario orario ragguagliato alla retribuzione ordinaria di un mese".

L’uso del termine "complessivamente" a cui si fa riferimento nella definizione di "retribuzione" vale a segnarne la distinzione rispetto al termine "stipendio o salario", perchè quest’ultimo è comprensivo solo di paga base e contingenza, mentre la "retribuzione" è comprensiva di voci ulteriori che possono competere, come gli scatti di anzianità, spettanti sia agli operai sia agli impiegati (cfr. art. 9 di entrambe le parti del CCNL del 1989), o come l’indennità di turno che spetta agli operai delle aziende grafiche, o anche come l’indennità di cassa spettante agli impiegati (art. 11 CCNL 1989).

Il termine "complessivamente" non indica quindi inequivocabilmente che la "retribuzione" cui far riferimento, per quanto riguarda la tredicesima degli impiegati, debba includere il compenso per lavoro straordinario, perchè essa si riferisce alla inclusione di voci stipendiali diverse.

Inoltre, nelle disposizioni concernenti compenso per il lavoro straordinario, che pure recano minuziose prescrizioni (art. 2 parte operai e art. 2 parte impiegati), non si prevede in alcun modo la inclusione dei relativi compensi nelle mensilità aggiuntive.

Va poi considerato elemento significativo il fatto che le parti stipulanti abbiano omesso di indicare le modalità attraverso le quali inserire, nella base di calcolo degli istituti indiretti, i compensi percepiti per lavoro straordinario, i quali, sia pur ricorrenti, sono sicuramente di importo variabile per ciascun mese.

Sarebbe allora indebito ogni intervento dell’interprete che dettasse una disposizione "di riempimento", per decidere in qual modo il compenso per lavoro straordinario dovrebbe essere inserito nella retribuzione spettante per le mensilità aggiuntive.

Il silenzio serbato dalle parti sul punto è ancor più significativo se si considera il disposto dell’art. 22 della parte generale del CCNL, laddove figura "Compensi perequativi per le aziende grafiche" ove si dispone che le maggiorazioni per lavoro a turno, e quelle previste dalle norme tecniche delle singole specializzazioni, salvo i casi in cui questo sia prestato occasionalmente, saranno computate per la tredicesima mensilità a la gratifica natalizia "in base alle media maturata nell’anno…". Segno quindi che nei casi in cui si è davvero voluto includere nella tredicesima un compenso di importo mensilmente variabile, lo si è previsto espressamente e si è anche determinata la modalità di calcolo, a differenza di quanto risulta per il compenso per lavoro straordinario, su cui, appunto le parti tacciono. Ancor più arduo sarebbe ritenere incluso il compenso per lavoro straordinario nella tredicesima degli operai, questa infatti è determinata a ore, perchè, come sopra rilevato, spetta "per ciascun anno, nella misura di duecento ore di retribuzione …..". Di talchè si dovrebbe preliminarmente determinare la retribuzione oraria comprendendovi il lavoro straordinario e quindi moltiplicare per duecento. Ma della applicabilità di questo tipo di conteggio non vi è traccia nel CCNL. Si deve quindi concludere, alla luce delle molteplici clausole collettive esaminate, per la infondatezza della pretesa di inclusione del compenso per lavoro straordinario nella tredicesima nel vigore dei CCNL del 1986 e del 1989.

E’ parimenti infondata la pretesa di inclusione del compenso per lavoro straordinario nella quattordicesima mensilità.

Invero nè nel CCNL del 1986, nè in quello del 1989 si fa menzione del diritto ad una quattordicesima mensilità, che si ravvisa, così sostengono le parti in causa, nell’art. 30 del Regolamento del personale. In detta disposizione, mentre per gli impiegati si fa riferimento ad una mensilità di retribuzione, per gli operai si richiama il "salario orario ragguagliato alla retribuzione ordinaria di un mese". Ed il riferimento alla "retribuzione ordinaria" conduce pianamente alla esclusione dal computo del compenso per lavoro straordinario, quanto meno per gli operai, rilevando peraltro che sarebbe incongruo ritenerlo invece incluso per gli impiegati, non essendovi ragioni per discriminare tra i due tipi di lavoratori e restando comunque fermo il ravvisato vuoto, nel contratto, del sistema con cui si dovrebbe procedere a detta inclusione.

La sentenza impugnata conseguentemente va cassata con rinvio, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla Corte di Appello di Roma, in diversa composizione, che farà applicazione dei principi sopra enunciati.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla Corte di appello di Roma in diversa composizione.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. III, Sent., 16-05-2012, n. 7634 Genitori, tutori, precettori e maestri d’arte

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con atto 20 aprile 2005 e date successive A.H. e B. M. hanno convenuto in giudizio innanzi al tribunale di Alessandria L.M.R. (titolare della sub agenzia Ina- Assitalia di (OMISSIS)) e F.D. (agente generale di Alessandria dell’Ina Assitalia), chiedendone la condanna in via tra loro solidale al pagamento, in favore della A., della somma di Euro 170.937,97, in favore della B. di Euro 232.400,00, oltre al risarcimento dei danni da lucro cessante e morali, da liquidare in via equitativa.

Le attrici, premesso di avere stipulato presso la sub agenzia della L. diverse polizze di capitalizzazione a premio unico, hanno esposto che la L. – falsificando i relativi documenti – si era appropriata dei versamenti eseguiti da esse concludenti per gli importi sopra indicati, che per tali fatti la stessa era stata tratta a giudizio innanzi al tribunale penale di Alessandria per rispondere dei reati di falso, truffa e appropriazione indebita e il relativo procedimento si era concluso con applicazione – ai sensi dell’art. 444 c.p.p. – della pena della reclusione per tre anni, che il F. doveva rispondere per tali fatti sia ai sensi dell’art. 2043 c.c., per omesso controllo nella gestione delle polizze sull’operato del subagente infedele, sia ai sensi degli artt. 1218 e 2049 c.c..

Costituitisi in giudizio i convenuti hanno eccepito la L. l’infondatezza della domanda mancando la documentazione degli asseriti versamenti, il F. la non autenticità delle polizze prodotte in copia fotostatica, la propria estraneità rispetto ai fatti descritti in citazione nonchè, infine, il compimento – da parte sua – dei controlli sulla attività del sub agente.

Svoltasi la istruttoria del caso, nel corso della quale era autorizzato il sequestro conservativo sui beni della L. in favore delle attrici, l’adito tribunale con sentenza 3 settembre 2007 ha condannato i convenuti, in via tra loro solidale, al pagamento, in favore della A. e della B. delle rispettive somma di Euro 179.482,12 e Euro 244.020,00 oltre rivalutazione e interessi, dichiarando altresì la L. tenuta a tenere indenne il F. da ogni esborso nei confronti delle attrici.

Gravata tale pronunzia dal solo F., nel contraddittorio della A. e della B. che, costituitesi in giudizio, hanno chiesto il rigetto del proposto gravame, nonchè della L., rimasta contumace, la Corte di appello di Torino con sentenza 9 marzo 2010 ha rigettato l’appello con condanna dell’appellante al pagamento delle spese del grado.

Per la cassazione di tale ultima pronunzia, notificata l’11 giugno 2010 ha proposto ricorso, affidato a tre motivi e illustrato da memoria, F.D..

Resistono con controricorso A.H. e B.M..

Non ha svolto attività difensiva in questa sede L.M.R..

Motivi della decisione

1. In limine rileva la Corte che l’art. 83 c.p.c., comma 3, nel testo risultante per effetto delle modifiche introdotte, con decorrenza dal 4 luglio 2009, dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 45, – secondo cui, per quanto qui interessa, la procura speciale può essere anche apposta in calce o a margine… della memoria di nomina del nuovo difensore in aggiunta o in sostituzione del difensore originariamente designato e in tali casi l’autografia della sottoscrizione della parte deve essere certificata dal difensore – si applica, giusta la non equivoca formulazione della ricordata L. n. 69 del 2009, art. 58, comma 1, esclusivamente ai giudizi instaurati dopo la data di entrata in vigore della detta L. n. 69 del 2009, cioè successivamente al 4 luglio 2009.

Non controverso quanto precede, pacifico che il presente giudizio è stato introdotto, in primo grado, con atto 20 aprile 1995 (e, quindi, ben anteriormente al 4 luglio 2009) è di palmare evidenza la inammissibilità della memoria 21 marzo 2012 con la quale le contro ricorrenti hanno nominato proprio difensore – in sostituzione del precedente – l’avv. Olimpia Criscuolo.

Il mandato a tale ultimo difensore, infatti, è stato rilasciato in margine alla detta memoria (e la autenticità della sottoscrizione delle mandanti risulta certificata dallo stesso avv. Criscuolo) e non – come previsto dall’art. 83 c.p.c. comma 3, nella formulazione applicabile ratione temporis con atto pubblico o scrittura privata autenticata (ex plurimis nel senso che nel giudizio di cassazione la procura speciale non può essere rilasciata a margine o in calce di atti diversi dal ricorso o dal controricorso, poichè l’art. 83 c.p.c., comma 3, nell’elencare gli atti in margine o in calce ai quali può essere apposta la procura speciale, indica, con riferimento al giudizio di cassazione, soltanto quelli suindicati e, pertanto, se la procura non è rilasciata in occasione di tali atti, è necessario il suo conferimento nella forma prevista dal comma 2 del citato articolo, cioè con atto pubblico o con scrittura privata autenticata, facenti riferimento agli elementi essenziali del giudizio, quali l’indicazione delle parti e della sentenza impugnata, Cass. 24 novembre 2010, n. 23816, che sottolinea come non può pervenirsi a una conclusione diversa nel caso in cui sopraggiunga la sostituzione del difensore nominato con il ricorso, da parte degli eredi del ricorrente deceduto nelle more del giudizio, non rispondendo alla disciplina del medesimo giudizio di cassazione, dominato dall’impulso d’ufficio a seguito della sua instaurazione con la notifica e il deposito del ricorso e non soggetto agli eventi di cui all’art. 299 c.p.c. e ss., il deposito di un atto redatto dal nuovo difensore su cui possa essere apposta la procura speciale).

2. Con il primo motivo il ricorrente censura la sentenza impugnata denunziando violazione dell’art. 2049 c.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, atteso che la disciplina di cui alla ricordata disposizione non trova applicazione con riguardo al rapporto intercorso tra esso concludente (agente di assicurazione) e la L. (subagente), non essendo questa ultima assimilabile a un agente di assicurazione e, ancor meno, a un dipendente.

Si invoca, al riguardo, l’autorità dell’insegnamento contenuto nella pronunzia di questa Corte 28 agosto 2007, n. 18191 secondo la quale, in particolare, l’agente di assicurazione non risponde dei danni causati all’assicurato dal subagente il quale, millantando poteri rappresentativi di cui era privo, abbia indotto l’assicurato alla stipula di un contratto inefficace.

3. Il motivo, manifestamente infondato – non può trovare accoglimento.

Alla luce delle considerazioni che seguono.

3.1. I padroni e committenti – prevede l’art. 2049 c.c. – sono responsabili per i danni arrecati dal fatto illecito dei loro domestici e commessi nell’esercizio delle incombenze a cui sono adibiti.

La pacifica giurisprudenza di questa Corte in margine alla richiamata disposizione è – come noto – consolidata nell’affermare che la responsabilità del preponente ex art. 2049 c.c., sorge per il solo fatto dell’inserimento dell’agente cioè di colui che ha posto in essere la condotta dannosa nell’impresa, senza che assumano rilievo nè la continuità dell’incarico affidatogli, nè l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato: basta che il comportamento illecito del preposto sia stato agevolato o reso possibile dalle incombenze a lui demandate dall’imprenditore e che il commesso abbia svolto la sua attività sotto il controllo del primo (in termini, ad esempio, Cass. 5 marzo 2009, n. 5370, specie in motivazione) atteso che il debitore che nell’adempimento dell’obbligazione si avvale dell’opera di terzi, ancorchè non alle sue dipendenze, risponde anche dei fatti dolosi o colposi dei medesimi (Cass. 13 aprile 2007, n. 8826).

In altri termini, con riferimento alla responsabilità dei padroni e committenti, ai fini dell’applicabilità della norma di cui all’art. 2049 c.c., non è richiesto l’accertamento del nesso di causalità tra l’opera dell’ausiliario e l’obbligo del debitore, nonchè della sussistenza di un rapporto di subordinazione tra l’autore dell’illecito ed il proprio datore di lavoro e del collegamento dell’illecito stesso con le mansioni svolte dal dipendente, essendo sufficiente, per il detto fine, un rapporto di occasionalità necessaria, nel senso che l’incombenza disimpegnata abbia determinato una situazione tale da agevolare o rendere possibile il fatto illecito e l’evento dannoso, anche se il dipendente (o, comunque il collaboratore dell’imprenditore) abbia operato oltre i limiti delle sue incombenze, purchè sempre nell’ambito dell’incarico affidatogli, così da non configurare una condotta del tutto estranea al rapporto di lavoro (Cass. 24 gennaio 2007, n. 1516).

Con riguardo – ancora – al particolare rapporto di agenzia non si dubita che gli agenti imprenditori possono avvalersi dell’operato di subagenti, cui rimane estranea l’impresa assicuratrice.

Il subagente assume lo stabile incarico di promuovere la conclusione di contratti di assicurazione nella zona affidata all’agente o in ambito più ristretto.

In una tale fattispecie il contratto di agenzia assicurativa va tenuto distinto da quello di subagenzia in quanto in quest’ultimo si promuove la conclusione dei contratti di assicurazione solo per conto dell’agente e non per conto di un’impresa assicuratrice.

I contratti di agenzia e subagenzia, pur avendo sostanzialmente un identico contenuto, si differenziano nettamente con riguardo alla persona del preponente (che nel contratto di agenzia è l’impresa, mentre in quello di subagenzia è l’agente) (cfr., ad esempio, Cass. 10 aprile 1999, n. 3545).

La subagenzia, quindi, costituisce un caso particolare di contratto derivato (subcontratto), unilateralmente funzionalmente collegato al contratto principale di agenzia, che ne è il necessario presupposto e ad esso si applica la disciplina del contratto principale, nei limiti consentiti o imposti dal collegamento funzionale.

La disciplina del rapporto di subagenzia è quindi sottoposta alla normativa in materia di agenzia di cui agli artt. 1742 – 1753 c.c., (Cass. 15 giugno 1994, n. 5795; Cass. 6 agosto 2004, n. 15190).

Come – pertanto – non si dubita – come del resto ammette la stessa difesa di parte ricorrente – che nel contratto di agenzia di assicurazione il preponente (cioè l’assicuratore) risponde anche ex art. 2049 c.c., dei fatti illeciti posti in essere dal proprio agente (pertanto, nella specie, l’Ina – Assitalia sarebbe stata responsabile di eventuali illeciti, ai danni degli assicurati, posti in essere nell’esercizio delle sue attribuzioni dal F.) non si comprende perchè – giusta l’assunto del ricorrente – debba essere esclusa la sua responsabilità per le condotte illecite realizzate dal proprio subagente L., certo essendo che nell’ambito di tale rapporto (di subagenzia) preponente è l’agente, collaboratore è il subagente.

3.2. Pacifico quanto precede si osserva che nella specie i giudici del merito hanno accertato, in linea di fatto, la sussistenza – in concreto – di tutte le condizioni per il sorgere della responsabilità del F. per la condotta del proprio subagente L..

E’ incontroverso, infatti, in causa, che la L. era inserita nella organizzazione di impresa del F., risultando la circostanza sia dal diritto di quest’ultimo di vigilanza e di controllo di tutta la organizzazione amministrativa della subagenzia (attività di vigilanza e controllo non solo prevista nella lettera di incarico per subagente professionista alla L. ma in concreto esercitata come risulta da tutte le deposizioni raccolte in causa, e dalle stesse difese del F.), sia dallo svolgimento dell’attività della L. in locali condotti in locazione in nome e nell’interesse del titolare prò tempore dell’agenzia generale (Id est del F.), sia dal divieto alla L. di occuparsi di affari di assicurazioni per compagnie diverse, sia dal divieto – per la L. – di accettazione di somme a qualsiasi titolo, senza preventiva autorizzazione scritta dell’agenzia generale, salvi gli incassi del portafogli, sia, ancora, l’accertata autorizzazione di tutti i subagenti a firmare assegni in girata per conto dell’INA esclusivamente allo scopo di versarli sui conti di direzione INA e Assitalia.

3.3. Quanto, da ultimo, al precedente di questa Corte ricordato in ricorso (Cass. 28 agosto 2007, n. 18191), il principio invocato dalla difesa del ricorrente non risulta enunciato nelle massime ufficiali, tratte da tale sentenza dall’Ufficio del Massimario di questa Corte.

Tale principio, inoltre, non si ricava dalla lettura di tale sentenza per esteso.

In particolare non solo non risulta in alcun modo che la invocata pronunzia abbia affermato il principio riportato in ricorso, ma pur discutendosi – in quella occasione – della condotta del subagente, la fattispecie esaminata era totalmente diversa da quella ora in esame.

Si invocava, infatti, in ricorso, di poter opporre alla società assicuratrice quanto posto in essere senza poteri – dal subagente e non risulta in quella fattispecie in alcun modo eccepita, dall’assicurato, una responsabilità ex art. 2049 c.c., dell’agente per la condotta del proprio subagente.

4. Con il secondo motivo il ricorrente censura la sentenza impugnata denunziando violazione dell’art. 2697 c.c., e dell’art. 115 c.p.c., in rapporto all’art. 360 c.p.c., n. 4, per avere il giudice del merito ritenuto integrata la prova del danno tramite la sola dichiarazione extragiudiziale della L., parte in giudizio.

Intimamente connesso al riferito motivo e, quindi, da esaminarsi congiuntamente a questo è il terzo, e ultimo motivo del ricorso (con il quale, ancorchè apparentemente sotto una diversa ottica, si ripropongono le stesse questioni sviluppate nel secondo motivo).

Con il terzo motivo – in particolare – il ricorrente censura la sentenza gravata lamentando, sotto il profilo di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, la insufficienza di motivazione su un fatto controverso e decisivo attesa la stranezza della posizione delle parti contro ricorrenti le quali affermano di avere versato alla L., in plurime occasioni, la considerevole somma di 440 mila Euro senza un solo documento a sostegno (assegno, bonifico, ricevuta, quietanza di polizza) sì che la pretesa delle stesse non può fondarsi esclusivamente sulle dichiarazioni della sola L. corroborata dalla sentenza di patteggiamento).

5. I motivi non possono trovare accoglimento.

Alla luce delle considerazioni che seguono.

5. 1. Per aversi violazione dell’art. 2697 c.c., – rilevante sotto il profilo di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3, nella specie peraltro neppure espressamente dedotto, è indispensabile che il giudice abbia attribuito l’onere della prova a una parte diversa da quella che ne è gravata, secondo le regole dettate da quella norma, non anche quando, a seguito di una incongrua valutazione delle acquisizioni istruttorie il giudice abbia errato nel ritenere che la parte onerata abbia assolto tale onere, perchè in questo caso vi sarà solo un erroneo apprezzamento sull’esito della prova, sindacabile in sede di legittimità solo per il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 (tra le tantissime Cass. 5 settembre 2006, n. 19064; Cass. 10 febbraio 2006, n. 2935; Cass. 22 luglio 2004, n. 13618; Cass. 24 febbraio 2004, n. 362; Cass. 14 febbraio 2001, n. 2155).

5.2. Deve escludersi – contemporaneamente – che la sentenza impugnata sia censurabile sotto il profilo di cui all’art. 360 c.p.c., n. 4, (per nullità della sentenza o del procedimento) per avere posto, a fondamento della conclusione raggiunta, la confessione stragiudiziale resa da una delle parti in causa.

Deve ribadirsi, infatti, al riguardo, che nel vigente ordinamento processuale, improntato al principio del libero convincimento del giudice, è ammessa la possibilità che egli ponga a fondamento della decisione anche prove non espressamente previste dal codice di rito, purchè sia fornita adeguata motivazione della relativa utilizzazione (Cass. 5 marzo 2010, n. 5440; Cass. 8 maggio 2006, n. 10499).

In altri termini nell’ordinamento processuale vigente manca una norma di chiusura sulla tassatività tipologica dei mezzi di prova.

Deriva da quanto precede che il giudice può legittimamente porre a base del proprio convincimento anche prove cosiddette atipiche, purchè idonee a fornire elementi di giudizio sufficienti, se ed in quanto non smentite dal raffronto critico – riservato al giudice di merito e non censurabile in sede di legittimità, se congruamente motivato – con le altre risultanze del processo (Cass. 25 marzo 2004, n. 5965).

5.3. A prescindere dal considerare che non è controverso il rilascio da parte della L. delle polizze di capitalizzazione a premio unico per gli importi di cui si discute palesemente a fronte della avvenuta ricezione da parte della L. delle somme ivi indicate, come puntualmente – e correttamente – evidenziato dai giudici di secondo grado la circostanza che la L. abbia percepito le somme in questione risulta:

– dalla confessione stragiudiziale della stessa L., confessione che ex art. 2735 c.c., comma 1, è liberamente valutabile dal giudice (cfr., ad esempio, Cass. 15 dicembre 2011, n. 27042);

– dalla sentenza resa ai sensi dell’art. 444 c.p.p., la quale – per pacifica giurisprudenza sul punto – costituisce un importante elemento di prova per il giudice, il quale, ove intenda disconoscere tale efficacia probatoria, ha il dovere di motivarne le ragioni (Cass. 26 marzo 2012, n. 4804; Cass. 6 dicembre 2011, n. 26203; Cass. 20 luglio 2011, n. 15889);

– dalla stessa condotta sia extraprocessuale che processuale del F. (art. 116 c.p.c., comma 2) il quale, oltre a presentare denuncia querela nei confronti della L. per i fatti che ora assume non adeguatamente provati, ha chiesto (e ottenuto) per gli stessi fatti, dal tribunale di Alessandria, in funzione di giudice del lavoro, sequestro conservativo su tutti i beni della stessa L. sino alla concorrenza di un milione e trecentomila Euro, sequestro eseguito presso terzi e trascritto sui beni immobili della stessa L..

E’ evidente, conclusivamente, che non sussiste una insufficiente motivazione della sentenza gravata per avere questa ritenuto provato il danno subito dalle contro ricorrenti a causa del comportamento del proprio subagente.

Specie tenuto presente che il vizio di insufficiente motivazione, deducibile in sede di legittimità ex art. 360 c.p.c., n. 5, sussiste solo se nel ragionamento del giudice di merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile il mancato o deficiente esame di punti decisivi della controversia e non può invece consistere in un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello preteso dalla parte, perchè la citata norma non conferisce alla Corte di legittimità il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico- formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice del merito al quale soltanto spetta di individuare le fonti del proprio convincimento e, a tale scopo, valutare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, e scegliere tra le risultanze probatorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione (Tra le tantissime, ad esempio, Cass. 17 giugno 2011, n. 13398).

6. Risultato infondato in ogni sua parte, il proposto ricorso, in conclusione, deve rigettarsi, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese di questo giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

LA CORTE rigetta il ricorso;

condanna il ricorrente al pagamento delle spese di questo giudizio di legittimità liquidate in Euro 200,00, oltre Euro 5.000,00 per onorari e oltre spese generali e accessori come per legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 10-11-2011) 28-11-2011, n. 44069

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con la sentenza impugnata la Corte di Appello di Caltanisetta ha confermato la dichiarazione di colpevolezza di G.S. in ordine al reato: a) di cui all’art. 44, lett. b).

La Corte territoriale ha, invece, assolto l’imputato dal reato: b) di cui al D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181 perchè il fatto non sussiste.

In sintesi, si accertava che in data (OMISSIS) il G. stava eseguendo lavori edili sul terrazzo di copertura del fabbricato di sua proprietà, consistiti nella realizzazione di muri di perimetrazione ed altri di varia altezza, nonchè nella posa di pilastrini in cemento armato, senza il permesso di costruire, in zona sottoposta a vincolo paesaggistico. Si accertava successivamente che all’imputato era stata rilasciata in pari data una concessione edilizia per la realizzazione di una copertura a falde sul fabbricato e di altri interventi.

La Corte territoriale, preso atto che la predetta concessione era stata preceduta in data 30.9.2005 dal nulla osta della competente Soprintendenza, ha assolto l’imputato dal reato paesaggistico, mentre ha confermato la condanna per la violazione edilizia in base alla valutazione che i manufatti di cui all’accertamento da parte degli organi di polizia giudiziaria erano stati realizzati prima del rilascio del permesso di costruire.

Avverso la sentenza ha proposto ricorso il difensore dell’imputato, che la denuncia per violazione di legge e vizi di motivazione.

Motivi della decisione

Con il primo mezzo di annullamento il ricorrente denuncia la violazione ed errata applicazione del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 3, lett. b) e artt. 10, 22 e 23.

In sintesi, si sostiene che gli interventi eseguiti alla data dell’accertamento non avevano comportato aumento di volumetria, sicchè gli stessi non erano soggetti al rilascio del permesso di costruire, ma potevano essere realizzati mediante DIA, ai sensi del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 22, comma 1, potendo configurarsi quali opere di manutenzione straordinaria; DIA che era stata presentata al Comune di Caltanisetta nella prima decade di maggio 2006 e che rispecchiava la concessione edilizia successivamente rilasciata dall’ente locale.

Con il secondo mezzo di annullamento si censura l’affermazione della sentenza secondo la quale i lavori erano iniziati prima del rilascio della concessione edilizia e si contesta il valore probatorio attribuito alle fotografie delle opere realizzate. Il ricorso non è fondato.

Preliminarmente la Corte rileva che il reato non è prescritto, stante la sospensione del decorso del termine per rinvio dell’udienza su richiesta di parte dal 5.7.2007 al 13.12.2007 per mesi cinque e giorni otto.

L’intervento in corso di realizzazione rientra tra quelli di ristrutturazione edilizia per i quali è necessario il permesso di costruire ai sensi del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 10, comma 1 lett. c), comportando una modificazione del volume e della sagoma del fabbricato preesistente. Tali interventi non possono essere qualificati di manutenzione straordinaria, non avendo interessato i lavori parti preesistenti del fabbricato, ma la realizzazione di elementi aggiuntivi su di esso, mentre a nulla rileva che i lavori non avessero ancora comportato un aumento di volumetria, essendo evidentemente a ciò finalizzati mediante la realizzazione sulla copertura a terrazza di un tetto a falde.

I lavori di cui alla contestazione, pertanto, non potevano essere eseguiti mediante la presentazione di una denuncia di inizio attività ai sensi del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 22, comma 1.

Peraltro, deve essere rilevato che anche se la DIA presentata avesse risposto ai requisiti di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 22, comma 3, prova sul punto che doveva essere data dall’imputato, ai sensi dell’art. 23, comma 1, dello stesso testo unico, in ogni caso, i lavori non potevano essere iniziati prima del decorso di almeno trenta giorni dalla data di presentazione della dichiarazione.

Il secondo motivo di ricorso si esaurisce in una contestazione in fatto della valutazione dei giudici di merito in ordine al tempo occorso per eseguire le opere accertate; valutazione fondata su elementi certi quali le risultanze dei rilievi fotografici e, perciò, non censurabile in sede di legittimità.

Il ricorso, pertanto, deve essere rigettato con le conseguenze di legge.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. IV, Sent., (ud. 27-11-2012) 29-01-2013, n. 4498 Detenzione, spaccio, cessione, acquisto

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Il Tribunale di Bologna condannava K.H., all’esito di giudizio celebrato con rito abbreviato, alla pena di mesi nove e giorni dieci di reclusione ed Euro 3.000,00 di multa, escluso l’aumento per la contestata recidiva, per violazione della legge sugli stupefacenti, con l’aggravante di cui all’art. 61 c.p., n. 11 bis, riconosciuta l’attenuante dell’ipotesi lieve di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5 valutata prevalenti rispetto a detta aggravante; il giudicante negava le attenuanti generiche. A seguito di gravame ritualmente proposto, relativo esclusivamente al trattamento sanzionatorio la Corte d’Appello di Bologna evidenziava che: a) l’invocata attenuante dell’ipotesi della lieve entità del fatto era stata già concessa dal primo giudice con valutazione di prevalenza sulla contestata aggravante; b) l’imputato non appariva meritevole delle attenuanti generiche avuto riguardo non solo al precedente specifico – sia pure risalente – ma anche ad altra condanna riportata dall’imputato, con generalità diverse, nell’anno (OMISSIS); d) la pena detentiva inflitta all’appellante risultava superiore di un solo mese al minimo edittale.

Ricorre per cassazione l’imputato denunciando vizio motivazionale in ordine al trattamento sanzionatorio, in particolare per il diniego delle attenuanti generiche che avrebbero potuto ulteriormente mitigare la pena.
Motivi della decisione

Le censure, per come formulate, risultando del tutto generiche e manifestamente infondate, porterebbero alla declaratoria di inammissibilità del ricorso: ed invero le attenuanti generiche sono state motivatamente negate da entrambi i giudici di merito con argomentazioni prive di connotazioni di illogicità.

Va tuttavia rilevato che all’imputato era stata contestata anche l’aggravante di cui all’art. 61 c.p., n. 11 bis, poi dichiarata incostituzionale dal Giudice delle leggi con la sentenza n. 249/2010 e non formalmente eliminata dalla Corte territoriale con la sentenza oggetto del presente ricorso, pur emessa successivamente alla data di pubblicazione di detta declaratoria di incostituzionalità sulla Gazzetta Ufficiale (G.U. 028 del 14/07/2010). Detta aggravante deve essere quindi formalmente eliminata, con conseguente annullamento senza rinvio dell’impugnata sentenza limitatamente a tale punto.

Giova evidenziare che, come sopra ricordato nella parte narrativa, già il Tribunale aveva formulato il giudizio di prevalenza della riconosciuta attenuante del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5 sull’aggravante de qua; l’aggravante in parola non ha dunque in alcun modo inciso sull’entità della pena, così risultando sostanzialmente eliminata: non si è quindi in presenza di una pena illegale. Tale questione, pur non dedotta con il ricorso e rilevabile di ufficio, vale dunque a neutralizzare i profili di inammissibilità del ricorso che, pertanto, per il resto, deve essere oggetto di decisione di rigetto, con esonero per il ricorrente – per le ragioni appena indicate – dal pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alla riconosciuta aggravante prevista dall’art. 61 c.p., n. 11 bis;

aggravante che elimina. Rigetta il ricorso nel resto.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.