T.A.R. Campania Salerno Sez. I, Sent., 14-10-2011, n. 1669 Albo professionale

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Come è stato rappresentato ai difensori delle parti presente alla camera di consiglio fissata per l’esame della domanda cautelare, ricorrendo i presupposti di cui all’art. cod. proc. amm, il ricorso può essere immediatamente definito nel merito con sentenza redatta in forma semplificata in quanto manifestamente infondato.

Ed infatti:

1) È infondata la censura con cui parte ricorrente lamenta l’insufficienza della motivazione espressa dalla commissione giudicatrice con l’attribuzione del mero punteggio numerico, non consentendo un effettivo sindacato sulle ragioni poste a base della valutazione negativa.

Sul punto, occorre tener conto dell’elaborazione giurisprudenziale del Consiglio di Stato, secondo cui, in tema di esami per l’abilitazione all’esercizio della professione di avvocato, anche dopo l’entrata in vigore dell’art. 3 della legge n. 241 del 1990, i provvedimenti della commissione esaminatrice che rilevano l’inidoneità delle prove scritte e non ammettono all’esame orale il partecipante vanno di per sé considerati adeguatamente motivati, quando si fondano su voti numerici (Consiglio di Stato, Sez. IV, 12 maggio 2008, n. 2190; 19 febbraio 2008, n. 540, 4 febbraio 2008, n. 294; T.A.R. Campania Napoli, Sez. VIII, 24 settembre 2008, n. 10731).

Quindi, l’obbligo di motivazione del giudizio reso dalla commissione giudicatrice è sufficientemente adempiuto con l’attribuzione di un punteggio numerico, configurandosi questo come una formula sintetica ma eloquente che, oltre a rispondere ad un evidente principio di economicità dell’attività amministrativa di valutazione, assicura la necessaria chiarezza sulle valutazioni di merito compiute dalla commissione e sul potere amministrativo da quest’ultima espletato esternando compiutamente la valutazione tecnica eseguita dall’organo collegiale (Consiglio di Stato, Sez. IV, 1 marzo 2003 n. 1162, 17 dicembre 2003 n. 8320, 7 maggio 2004 n. 2881, 6 settembre 2006 n. 5160), specie quando la commissione abbia utilizzato criteri predeterminati in base ai quali procedere alla valutazione (Consiglio di Stato, Sez. IV, 4 febbraio 2008 n. 294).

A sciogliere definitivamente ogni residua perplessità sulla sufficienza dell’attribuzione di un punteggio numerico alle valutazioni degli elaborati scritti, espresse dalla Commissione esaminatrice in sede di esami di abilitazione all’esercizio della professione forense, è intervenuta la Corte Costituzionale che, nell’affermare che la soluzione interpretativa offerta in giurisprudenza costituisce ormai un vero e proprio diritto vivente, ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale riferita alla mancata previsione, nelle norme che disciplinano gli esami di abilitazione in argomento, dell’obbligo di giustificare e motivare il voto verbalizzato in termini alfanumerici in sede di valutazione delle prove scritte d’esame (Corte Costituzionale, sentenza 30 gennaio 2009, n. 20).

2)Contrariamente a quanto successivamente dedotto dal ricorrente, dalla mancanza di segni grafici apposti sugli elaborati dalla commissione esaminatrice non può farsi discendere l’assenza di errori ed incongruenze tali da giustificare la valutazione negativa.

In proposito, giova rammentare che, in base all’art. 23, R.D. 22 gennaio 1934 n. 37, come modificato dalla l. 27 giugno 1988 n. 243, la commissione giudicatrice non svolge un’attività "scolastica" di correzione degli elaborati scritti dei candidati, che non rientra tra i suoi compiti, e neppure ha il dovere di evidenziare con segni grafici i punti dai quali, più degli altri, risulti l’insufficienza o l’erroneità dell’elaborato ovvero la non rispondenza alla traccia (Consiglio Stato, Sez. IV, 06 luglio 2009, n. 4295). Infatti, l’apposizione di annotazioni sugli elaborati, di chiarimenti ovvero di segni grafici o specificanti eventuali errori, costituisce una mera facoltà di cui la commissione può avvalersi nel caso in cui ne ricorrano i presupposti, mentre l’inidoneità della prova risulta dalla stessa attribuzione del voto numerico in base ai criteri fissati dalla Commissione sia per la correzione che in sede di giudizio (Consiglio di stato, sez. IV, 24 aprile 2009, n. 2576).

3)Proseguendo nell’esame delle censure contenute in ricorso, il Collegio osserva che il giudizio formulato comporta una valutazione essenzialmente qualitativa della preparazione scientifica del candidato ed attiene così alla sfera della discrezionalità tecnica, censurabile unicamente, sul piano della legittimità, per evidente superficialità, incompletezza, incongruenza, manifesta disparità, emergenti dalla stessa documentazione, tali da configurare un palese eccesso di potere, senza che con ciò il giudice possa o debba entrare nel merito della valutazione (Consiglio di Stato, Sez. IV, 17 gennaio 2006, n. 172).

Nella specie, le argomentazioni attoree non danno conto della sussistenza di un siffatto vizio.

4)Non meritano infine favorevole considerazione le argomentazioni che il ricorrente svolge con specifico riferimento all’11 comma 5 D.L.vo 166/2006 in quanto trattasi di norma riferita a fattispecie del tutto diversa qual è il "concorso" notarile.

5)- Né merita miglior sorte l’impugnazione dei verbali conteneti la determinazione dei criteri di valutazione in quanto le argomentazioni in argomento svolte dalla parte ricorrente risultano del tutto generiche e, in particolare, non indicano quali siano a suo avviso i criteri non sufficientemente dettagliati o addirittura errati. in modo insufficiente.

In conclusione, per i motivi esposti, il ricorso deve essere pertanto respinto, pur sussistendo comunque sufficienti ragioni per compensare le spese di giudizio.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania sezione staccata di Salerno (Sezione Prima)

definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Salerno nella camera di consiglio del giorno 6 ottobre 2011 con l’intervento dei magistrati:

Antonio Onorato, Presidente, Estensore

Giovanni Grasso, Consigliere

Ezio Fedullo, Consigliere

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 09-03-2012, n. 3775 Indennità di buonuscita o di fine rapporto

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con ricorso a Tribunale di Catania, S.G., premesso che:

– aveva lavorato alle dipendenze dell’Inps quale avvocato dell’Istituto ed era stato collocato in quiescenza il 30.4.1999;

– aveva maturato il diritto ai trattamenti di buonuscita e di pensione integrativa a carico del Fondo istituito presso l’inps;

– l’inps, nel liquidare tali trattamenti, aveva incluso nella base pensionabile e quiescibile la quota degli emolumenti corrisposti a titolo di onorari negli ultimi 36 mesi di servizio, anzichè la quota relativa agli ultimi dodici mesi, con conseguente liquidazione di un trattamento inferiore al dovuto, posto che negli ultimi 36 mesi di servizio la quota degli onorarì aveva avuto un andamento crescente;

– l’adozione di tale criterio di computo, per quanto conforme alla circolare del Consiglio di Amministrazione dell’Istituto del 30.4.1982, era in contrasto con gli artt. 27 e 34 del Regolamento di previdenza e quiescenza del personale dipendente Inps (qui di seguito, per brevità, indicato anche come Regolamento);

tutto ciò premesso chiese la riliquidazione della pensione integrativa e dell’indennità di buonuscita.

Sulla resistenza dell’Inps, il Giudice adito accolse la domanda.

La Corte d’Appello di Catania, con sentenza del 18 – 24.3.2010, rigettò il gravame proposto dal’Inps ritenendo quanto segue:

– in base all’art. 5 del Regolamento si intende per retribuzione lo stipendio lordo calcolato per 15 mensilità annue; tale articolo contemplava altresì eventuali assegni personali ed altre competenze di carattere fisso e continuativo, con esclusione delle quote di aggiunta di famiglia, "che siano riconosciuti utili ai fini del trattamento di previdenza e di quiescenza con delibera del Consiglio di amministrazione approvata dal Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale di concerto con quello del Tesoro", – con la sentenza n. 120/1980 del 29.1.1980 il Consiglio di Stato aveva però annullato tale disposizione "nella parte in cui subordina a delibera del c.d.a. la selezione degli elementi utili agli effetti dei trattamenti di fine rapporto (i.b.u. e pensione)";

– l’art. 27 de Regolamento statuisce che la pensione diretta è calcolata in modo che, cumulata a quella dell’assicurazione generale obbligatoria, "raggiunga un trattamento pensionistico complessivo paria tanti quarantesimi dell’ultima retribuzione spettante, per quanti sono gli anni di servizio utile, sino ad un massimo di 40" e l’art. 34 prevede che l’indennità di buonuscita sia "di importo pari a tanti dodicesimi dell’ultima retribuzione annua spettante per quanti sono gli anni di servizio utile ai fini del trattamento di quiescenza";

– l’unico criterio che può inferirsi dal Regolamento è, per le attribuzioni qui in esame, quello della retribuzione fissa e continuativa, ma, in quanto variabile, degli ultimi dodici mesi, dovendosi quindi interpretare tale disciplina secondo una nozione di retribuzione che, date le sue connotazioni, si adattasse all’arco temporale costituito dall’anno ultimo di servizio;

– la contraria Delib. 30 aprile 1982, non approvata dai Ministeri vigilanti, secondo l’Istituto si poneva in linea con il Regolamento a seguito della surricordata sentenza del Consiglio di Stato;

– tale pronuncia faceva riferimento alla "norma fondamentale di cui all’art. 2121" e "ai principi generali della materia", ma il richiamo alla disciplina specifica dell’art. 2121 c.c., comma 3 (nel testo antecedente la sostituzione operata con la L. n. 297 del 1982), rimarcato dalla successiva giurisprudenza amministrativa, non appariva condivisibile poichè: tate disciplina (quale sostituita dal D.L. n. 12 del 1977, art. 1, convenuto in L. n. 91 del 1977), ormai non più operante, era "misurata sul rapporto di lavoro nell’impresa (cui sono tipiche partecipazioni, premi di produzioni, provvigioni)" e solo in via residuale era "applicabile ai rapporti di lavoro degli enti pubblici non economicì ai sensi dell’art. 2129 c.c.; venivano assimilati trattamenti diversi quali, da un lato, l’indennità di anzianità, e, dall’altro, il trattamento di previdenza e quiescenza dovuto dal Fondo integrativo, che ha una sua propria regolamentazione della materia; il riferimento all’art. 1121 c.c., assumeva quindi a norma generale una disciplina non estensibile ad emolumenti diversi da quelli espressamente contemplati, e, perciò, una disposizione eccezionale. Avverso la suddetta sentenza della Corte territoriale, l’Inps ha proposto ricorso per cassazione fondato su tre motivi e illustrato con memoria.

L’intimato S.G. ha resistito con controricorso, illustrato con memoria.

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo l’Istituto ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione di norme di legge (ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) in relazione all’art. 2121 c.c., comma 2, e art. 2129 c.c., al Regolamento di previdenza e di quiescenza del personale Inps e al D.P.R. n. 411 del 1976, art. 30, comma 2, censurando la sentenza impugnata per avere ritenuto che l’unico criterio che si dovrebbe desumere dal Regolamento, ai fini della valorizzazione della quota onorari nei trattamenti di fine servizio, sarebbe quello di assumere a base di calcolo l’ultimo anno di servizio. Al riguardo, premesso che l’opzione interpretativa accolta nella ridetta Delib. 30 aprile 1982, seguita alla sentenza del Consiglio di Stato n. 120/1980 e che plurime successive sentenze del medesimo Giudice amministrativo avevano ritenuto non essere in contrasto con gli artt. 24 e 34 del Regolamento, sostiene che la Corte territoriale aveva di fatto disapplicato tale delibera, "destinata ad incidere sull’art. 5 del Regolamento", ritenendo violato il criterio di sussidarietà, ma non menzionando affatto alcun specifico riferimento alla normativa speciale che dovrebbe assumersi a parametro per la valutazione della fattispecie e a preferenza di quella dettata dal codice civile, nel mentre la ricordata Delib. 30 aprile 1982 si conforma a principio generale di cui all’art. 1121 c.c.; osserva inoltre l’inconferenza dei richiami effettuati alla giurisprudenza di questa Corte in tema di lavoro straordinario, assumendo che la natura propria della quota onorari è quella di provvigione o, in senso, lato, di partecipazione agli utili che derivano dalla riscossione delle eventuali e imprevedibili spese di lite liquidate nei vari giudizi, o comunque ad esse assimilabile, non trattandosi "di una voce fissa e continuativa dello stipendio" degli avvocati dell’Inps, "ma di un elemento incerto nell’an e nel quantum".

Con il secondo motivo l’Istituto ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione di norme di legge (artt. 1321, 1322 e 2123 c.c.) deducendo che, a seguito della privatizzazione del pubblico impiego, il Regolamento aveva perduto la sua originaria natura di atto amministrativo per assumere, ai sensi del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 2, comma 3, la qualità di atto negoziale di natura privatistica quale contratto normativo da collocare nell’ambito degli atti di previdenza volontaria ed operando quindi con l’efficacia propria del contratto al pari di ogni altro atto di gestione del rapporto di lavoro; con la conseguenza che l’individuazione del criterio di computo triennale "a suo tempo adottato" dall’Istituto doveva considerarsi non solo applicazione dei criterio normativamente previsto dall’art. 2121 c.c., "ma altresì quale atto di autonomia privata, essendo stata recepita nel contratto individuale di lavoro dei dipendenti"; in sostanza, quindi, la delibera Inps n. 99 del 30.4.1982, e quindi il criterio di calcolo ivi previsto, doveva ritenersi recepita per relationem nei singoli contratti di lavoro ed aveva assunto valore negoziale.

Con il terzo motivo l’Istituto ricorrente denuncia vizio di motivazione (in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) deducendo che:

– la Corte territoriale non aveva individuato la normativa di settore, da applicare alla fattispecie in luogo di quella codicistica, che renderebbe operativo il disposto dell’art. 2129 c.c.;

– il richiamo alla giurisprudenza di legittimità in materia di valorizzazione del lavoro straordinario ai fini del trattamento di fine rapporto era inconferente, attesa la natura della quota onorari, che è quella di provvigione, o in senso lato, di partecipazione agli utili, ovvero a quest’ultima assimilabile, non trattandosi di una voce fissa e continuativa dello stipendio degli avvocati dell’Istituto, ma di un elemento inverto nell’an e nel quantum.

2. Deve preliminarmente rilevarsi che questa Corte deve procedere anche d’ufficio, in relazione alle questioni poste con i motivi di ricorso, all’individuazione della normativa applicabile agli istituti (pensione integrativa – indennità di buonuscita) oggetto delle domande di riliquidazione e dei conseguenti principi di diritto rilevanti ai fini del decidere (iura novit curia).

Va pertanto considerato che le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, alla stregua del divergente contesto normativo, hanno differenziato la disciplina dei due istituti.

2.1 E’ stato infatti osservato che l’esame del tenore delle disposizioni della L. n. 70 del 1975 evidenzia chiaramente che il legislatore del 1975, rispettivamente con gli artt. 13 e 14, ha valutato in maniera differente le discipline dei regolamenti dei singoli enti in materia, da un lato, di trattamento di quiescenza o fine rapporto e, dall’altro, di trattamenti integrativi di previdenza.

L’art. 14 ha infatti previsto, al comma 2, la conservazione dei fondi integrativi di previdenza in favore dei soli dipendenti già in servìzio o già cessati dal servizio (così infatti recita i suddetto art. 14 nel complesso dei suoi due commi: "Finchè non sarà provveduto con apposito provvedimento di legge al riordinamento con criteri unitari del trattamento pensionistico del personale degli enti contemplati nella presente legge, il trattamento stesso è disciplinato dalla legge sull’assicurazione obbligatoria o dalle speciali disposizioni di legge che prevedono trattamenti pensionistici sostitutivi o che comportano l’esclusione o l’esonero dall’assicurazione stessa. I fondi integrativi di previdenza previsti dai regolamenti di taluni enti sono conservati limitatamente al personale in servizio o già cessato dal servizio alla data di entrata in vigore della presente legge").

L’art. 13 ha invece previsto l’indennità di anzianità nella misura specificata nel comma 1 ("All’atto della cessazione dal servizio spetta al personale una indennità di anzianità, a totale carico dell’ente, pari a tanti dodicesimi dello stipendio annuo complessivo in godimento, qualunque sia il numero di mensilità in cui esso è ripartito, quanti sono gli anni di servizio prestato").

2.2 In particolare, con la sentenza n. 7158/2010 (conf. Cass., n. 4749/2011), resa a composizione del contrasto insorto nella giurisprudenza della Sezione Lavoro, le Sezioni Unite hanno enunciato il seguente principio: "In tema di base di calcolo del trattamento di quiescenza o di fine rapporto spettante ai dipendenti degli enti pubblici del c.d. parastato, la L. 20 marzo 1975, n. 70, art. 13, di riordinamento di tali enti e del rapporto di lavoro del relativo personale, detta una disciplina del trattamento di quiescenza o di fine rapporto (rimasta in vigore, pur dopo la contrattualizzazione dei rapporti di pubblico impiego, per i dipendenti in servizio alla data del 31 dicembre 1995 che non abbiano optato per il trattamento di fine rapporto di cui all’art. 2120 cod. civ.), non derogabile neanche in senso più favorevole ai dipendenti, costituita dalla previsione di un’indennità di anzianità pari a tanti dodicesimi dello stipendio annuo in godimento quanti sono gli anni di servizio prestato, lasciando all’autonomia regolamentare dei singoli enti solo l’eventuale disciplina della facoltà per il dipendente di riscattare, a totale suo carico, periodi diversi da quelli di effettivo servizio; il riferimento quale base di calcolo allo stipendio complessivo annuo ha valenza tecnico-giuridica, sicchè deve ritenersi esclusa la computabilità di voci retributive diverse dallo stipendio tabellare e dalla sua integrazione mediante scatti di anzianità o componenti retributive similari … e devono ritenersi abrogate o illegittime, e comunque non applicabili, le disposizioni di regolamenti, come quello dell’Inail, prevedenti, ai fini del trattamento di fine rapporto o di quiescenza comunque denominato, il computo in genere delle competenze a carattere fisso e continuativo".

Tale principio, applicabile per identità dei presupposti, anche al Regolamento dell’Inps, impone di riconoscere l’insussistenza – siccome abrogata in parte qua – della normativa regolamentare (in particolare l’art. 5 del Regolamento, nel testo conseguente alla sentenza del Consiglio di Stato n. 120/80), sulla base della quale, in combinato disposto con l’art. 34 del medesimo Regolamento, l’odierno controricorrente ha fondato la domanda di riliquidazione dell’indennità di buonuscita.

2.3 Per ciò che invece attiene alla pensione integrativa, pure disciplinata dal medesimo Regolamento, le Sezioni Unite di questa Corte, con la sentenza n. 7154/2010, hanno enunciato i seguenti principi: "In tema di base di calcolo della pensione integrativa dei dipendenti dell’Inps, ai sensi dell’art. 5 del Regolamento per il trattamento di previdenza e quiescenza dell’ente, adottato con delibera del 12 giugno 1970 e successivamente modificato con deliberazione del 30 aprile 1982, ai fini della computabilità nella pensione integrativa già erogata dal fondo istituito dall’ente (e ancora transitoriamente prevista a favore dei soggetti già iscritti al fondo, nei limiti dettati dalla L. 17 maggio 1999, n. 144, art. 64) è sufficiente che le voci retributive siano fisse e continuative, dovendosi escludere la necessità di una apposita deliberazione che ne disponga l’espressa inclusione; non osta che l’elemento retributivo sia attribuito in relazione allo svolgimento di determinate funzioni o mansioni, anche se queste, e la relativa indennità, possano in futuro venire meno, mentre non può ritenersi fisso e continuativo un compenso la cui erogazione sia collegata ad eventi specifici di durata predeterminata oppure sia condizionata al raggiungimento di taluni risultati e quindi sia intrinsecamente incerto". 2.4 Da quanto precede discende quindi l’infondatezza della domanda azionata per quanto concerne la richiesta di riliquidazione dell’indennità di fine rapporto, con conseguente cassazione in parte qua della sentenza impugnata.

3. La successiva disamina delle questioni sollevate con i motivi di ricorso va quindi intesa come limitata alla domanda di riliquidazione della pensione integrativa.

3.1 La quota onorari è stata riconosciuta ai funzionari Inps del ruolo professionale, effettivamente svolgenti attività legale, con l’art. 30 dell’accordo collettivo approvato con D.P.R. 26 maggio 1976, n. 411, giusta la previsione normativa di cui alla L. n. 70 del 1975, art. 26, comma 4 – Disposizioni sul riordinamento degli enti pubblici e del rapporto di lavoro del personale dipendente ("Gli accordi sindacali prevederanno la misura percentuale della partecipazione degli appartenenti al ruolo professionale, per l’attività da essi svolta, alle competenze e agli onorari giudizialmente liquidati a favore dell’ente").

L’art. 5 del Regolamento (deliberazioni del 12.6.1970 e del 18.3.1971), prevedeva che "Agli effetti del presente Regolamento si intende per retribuzione la somma delle seguenti competenze: lo stipendio lordo calcolato per 15 mensilità annue; eventuali assegni ed altre competenze di carattere fisso e continuativo, con esclusione delle quote di aggiunta di famiglia, che siano riconosciuti utili ai fini del trattamento di previdenza e di quiescenza con delibera del Consiglio di amministrazione approvata dal Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale di concerto con quello del Tesoro".

Con la sentenza n. 120/1980 del 29.1.1980 il Consiglio di Stato aveva però annullato tale disposizione "nella parte in cui subordina a delibera del c.d.a. la selezione degli elementi utili agli effetti dei trattamenti di fine rapporto (i.b.u. e pensione)", dichiarando che:

1) "L’art. 5 del regolamento per il trattamento di previdenza e di quiescenza del personale dell’Inps, nella parte in cui subordina a deliberazione del consiglio di amministrazione dell’ente l’utilità degli assegni e delle altre competenze ivi indicati ai fini del trattamento anzidetto, confligge irrimediabilmente con la sostanzialità dell’indagine circa il carattere che tali competenze devono avere, ai sensi dell’art. 2121 cod. civ. e dei principi generali della materia, i quali prevedono che l’utilità di un certo assegno o competenza ai fini del trattamento di previdenza e quiescenza derivi ex se dalle intrinseche ed obbiettive caratteristiche dell’emolumento in relazione alla normazione legislativa primaria, senza essere subordinata alla emanazione di un provvedimento dell’ente pubblico interessato";

2) "La quota di onorarì spettanti agli avvocati e procuratori che prestano servizio alle dipendenze di enti pubblici ha carattere di elemento integrativo dello stipendio".

Pertanto, in base all’art. 5 del Regolamento, a seguito della decisione del Consiglio di Stato n. 120/80, per retribuzione si intende la somma dello "stipendio lordo calcolato per 15 mensilità annue" e di "eventuali assegni personali ed altre competenze di carattere fisso e continuativo, con esclusione delle quote di aggiunta di famiglia", connessi a tale previsione risultano gli arti 27 (in tema di pensione integrativa) e 34 (in tema di indennità di buonuscita, denominata trattamento di quiescenza), che fanno rispettivamente riferimento all’"ultima retribuzione spettante" e all’"ultima retribuzione annua spettante".

Successive pronunce del Consiglio di Stato confermarono che, secondo i principi desumibili dall’art. 2121 c.c., la quota di onorari spettanti agli avvocati e procuratori che prestano servizio alle dipendenze di enti pubblici aveva carattere di elemento integrativo dello stipendio e che andava pertanto computata nella determinazione dei trattamenti di quiescenza (indennità di buonuscita) e di previdenza (pensione del fondo speciale) dei dipendenti dell’lnps, in applicazione del ricordato art. 5 del Regolamento, "che include nel concetto di retribuzione tutti gli assegni che, a prescindere dalla loro variabilità, costituiscono la retribuzione normale della prestazione lavorativa" (cfr., ex plurimis, CdS, nn. 531/81; 78/82).

Con la ricordata sentenza n. 120/1980 il Consiglio di Stato aveva altresì indicato il metodo da seguire per il calcolo delle quote degli onorari da prendere in considerazione, facendo riferimento al criterio di cui all’art. 2121 cc (nel testo allora vigente) e, quindi, alla media di tali emolumenti degli ultimi tre anni.

Con Delib. 30 aprile 1982, n. 99, avente ad oggetto la "Computabilità degli onorari legali agli effetti del trattamento di previdenza e quiescenza", il Consiglio di Amministrazione dell’Inps, richiamate le ricordate sentenze amministrative, deliberò, per quanto qui specificamente rileva, che:

1) "…fa quota di onorar corrisposta ai funzionati del ruolo professionale – ramo legale è compresa nella "retribuzione" di cui all’art. 5 del vigente Regolamento per il trattamento di previdenza e quiescenza, nel testo risultante a seguito dell’annullamento parziale disposto con la richiamata decisione n. 120 del 29 gennaio 1980";

2) "Ai fini dell’attuazione di quanto stabilito al precedente punto 1, per la determinazione dei trattamenti previsti dal Regolamento per il trattamento di previdenza e quiescenza e dei valori di riscatto, la quota di onorari legali è computata sulla base dell’importo mensile ottenuto rapportando a mese la media degli importi erogati nel triennio precedente la cessazione del servizio o la data di domanda di riscatto". 3.2 La sentenza di primo grado ha ritenuto che l’Inps, nell’effettuare i conteggi ai fini de quibus, avesse "…violato il proprio Regolamento, non modificabile unilateralmente stante la sua natura di accordo aziendale, avendo effettuato un calcolo sulla base di una delibera del C.d.A. del tutto arbitraria ed illegittima in quanto contrastante anch’essa con il Regolamento".

Il controricorrente ha eccepito che l’Inps, con il ricorso d’appello, avrebbe omesso di censurare la suddetta affermazione relativa alla non modificabilità unilaterale del Regolamento, onde sulla stessa si sarebbe formato il giudicato interno.

L’assunto non può essere condiviso, atteso che, nei ricorso d’appello, l’Inps ha espressamente rivendicato la legittimità del proprio operato, specificando che, "Dell’applicare la Delib. n. 99 del 1982, non aveva "violato alcun Regolamento" ed aveva anzi reso applicabile sul punto la disciplina regolamentare; è infatti di piana evidenza che la deduzione della legittimità della deliberazione suddetta implica quella della possibilità di intervenire sulle statuizioni regolamentari ad opera dei Consiglio di Amministrazione dell’Istituto.

3.3 Deve allora valutarsi se tale possibilità, alla stregua della legislazione succedutasi nella materia, fosse consentita. Il controricorrente richiama al riguardo la L. n. 70 del 1975 (Disposizioni sul riordinamento degli enti pubblici e del rapporto di lavoro del personale dipendente), nella parte in cui, sotto la rubrica "Trattamenti integrativi e sostitutivi di previdenza", prevede, al comma 2, che 7 fondi integrativi di previdenza previsti dai regolamenti di taluni enti sono conservati limitatamente al personale in servizio o già cessato dal servizio alla data di entrata in vigore della presente legge", per inferirne che tale disposizione avrebbe prodotto un "temporaneo congelamento" delle norme del fondo e la conseguente insussistenza del potere dei Consiglio di Amministrazione di adottare deliberazioni modificatrici.

Tale assunto non può essere condiviso, poichè la previsione della conservazione dei fondi integrativi sta ad indicare che detti fondi non avrebbero potuto esser soppressi o, comunque, essere modificati in termini radicali, tali da stravolgerne il contenuto, ma non può essere letta, in difetto di una specifica disposizione in tal senso, come impeditiva di qualsivoglia intervento, modificativo o integrativo, inerente ad aspetti applicativi delle norme regolamentari già esistenti.

Per completezza deve inoltre osservarsi che:

– La L. n. 88 del 1989, art. 5, comma 1 (Ristrutturazione dell’istituto nazionale della previdenza sociale e dell’istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro), sotto la rubrica "Competenze del Consiglio di Amministrazione", prevede che "Spetta a Consiglio di Amministrazione: … g) deliberare i regolamenti di cui al D.L. 30 dicembre 1987, n. 536, art. 10, convertito in legge, con modificazioni, dalla L. 29 febbraio 1988, n. 48, e, con i criteri di cui all’art. 1, comma 2, gli altri regolamenti dell’istituto compresi il regolamento organico e di fine servizio del personale e quello di amministrazione e contabilità, anche in deroga alle disposizioni della L. 20 marzo 1975, n. 70";

– la deliberazione dei Consiglio di Amministrazione dell’Inps n. 99/1982 ha continuato ad essere applicata anche dopo l’emanazione della legge suddetta, con conseguente inequivoca conferma, da parte dell’Istituto, delle disposizioni contenute nella predetta deliberazione.

3.41 controricorrente ha altresì eccepito che la deliberazione n. 99/1982 non era stata mai approvata dai Ministeri vigilanti (come accertato in fatto dalla sentenza impugnata), benchè l’art. 51 del Regolamento avesse espressamente previsto che la propria entrata in vigore avvenisse il giorno successivo alla data del decreto interministeriale di approvazione.

La suddetta delibera previde il proprio invio ai Ministeri vigilanti ai sensi del D.P.R. n. 639 del 1970, art. 53 a termini del quale:

"L’Istituto è sottoposto alla vigilanza del Ministero del lavoro e della previdenza sociale che esercita le relative funzioni di concerto con il Ministero del tesoro, secondo le vigenti disposizioni legislative e nel rispetto dell’autonomia dell’istituto.

"L’Istituto ha l’obbligo di trasmettere ai Ministeri del lavoro e della previdenza sociale e del tesoro, mediante raccomandata con avviso di ricevimento, i regolamenti e i criteri direttivi generali deliberati dal consiglio di amministrazione, che per legge, non siano soggetti ad approvazione ministeriale".

Deve tuttavia rilevarsi che il predetto D.P.R. n. 639 del 1970, art. 53 è stato sostituito dalla L. n. 88 del 1989, art. 8, comma 1, e, nel nuovo testo, prevede, al comma 2, che "i regolamenti e le delibere contenenti criteri direttivi generali adottati dal consiglio di amministrazione, nonchè gli atti non espressamente soggetti per legge ad approvazione ministeriale sono immediatamente esecutivi e vengono trasmessi, ai sensi del comma primo, al Ministro del lavoro e della previdenza sociale e al Ministro del tesoro", nel mentre il successivo comma 3 prevede espressamente l’approvazione per le delibere relative alla dotazione organica del personale o quella dei dirigenti; ne discende che per i regolamenti in genere (e, quindi, anche per il regolamento relativo al fondo di previdenza integrativa) e, conseguentemente, per le deliberazioni modificative dei medesimi, è venuta meno, ai fini della loro esecutività, la necessità dell’approvazione ministeriale.

L’esistenza giuridica delle delibere modificative o integrative del Regolamento coincide con la loro emanazione, giacchè l’approvazione dell’autorità vigilante non attiene alla formazione degli atti, ma costituisce un requisito di esecutorietà, che opera ex tunc, rendendo cioè l’Tatto produttivo di effetti sin dalla data della sua emanazione.

Ne consegue che, una volta venuta meno la necessità della loro approvazione – eliminato cioè l’elemento che ne condizionava l’efficacia -, non vi è più nulla che impedisca i pieno dispiegamento di tutti i loro effetti fin dal momento dell’emanazione; nel caso che ne occupa, peraltro, con rilievo assorbente di ogni considerazione in ordine alla decorrenza dell’efficacia della Delib. n. 99 del 1982, sta il dato di fatto che il collocamento a riposo del controricorrente è avvenuto il 30.4.1999, ben più tardi, quindi, dell’entrata in vigore della legge che ha sancito il venir meno della necessità dell’approvazione da parte delle autorità vigilanti; ne discende quindi l’irrilevanza, ai fini fcbsidel decidere, della mancata approvazione ministeriale di tale delibera.

3.5 Deve allora convenirsi che legittimamente l’Inps ha tenuto conto di quanto previsto dalla suddetta delibera, stante la sua portata integrativa delle disposizioni regolamentari, che ne restano modificate in conformità, rimanendo perciò irrilevante la pertinenza o meno all’emolumento in parola della disciplina codicistica di cui all’art. 2121 c.c. nel testo allora vigente.

3.6 Per completezza di motivazione deve peraltro rilevarsi che le eccezioni di invalidità e inefficacia della Delib. n. 99 del 1982 sollevate da controricorrente non avrebbero giovato – ove fossero state ritenute fondate – all’accoglibilità delle sue pretese, posto che è proprio grazie all’avvenuta emanazione di tate delibera – per quanto modificativa del Regolamento – che l’Inps ha potuto tener conto ai fini della liquidazione della pensione integrativa della quota onorari. Infatti tale emolumento ha sicuramente natura retribuiva (essendo la sua corresponsione sinallagmatica alla prestazione di una specifica mansione lavorativa) e può anche essere ritenuto di carattere continuativo (essendo notorio che, in concreto, l’Inps, a fronte del vastissimo contenzioso di cui è parte, di fatto beneficia ogni anno di importi a titolo di rifusione di competenze ed onorari, costituenti la base di calcolo dell’emolumento stesso); non può invece essere anche ritenuto un emolumento fisso (come pure è richiesto ai fini de quibus), predeterminato cioè nel suo ammontare rispetto al tipo e alla quantità delle prestazione rese ovvero al numero delle frazioni temporali di messa a disposizione delle energie lavorative (cosicchè, con riferimento a quest’ultimo riguardo, deve ritenersi inconferente il richiamo alla disciplina del lavoro straordinario, per il quale il compenso è invece fisso in relazione alla singola unità di tempo di lavoro prestato oltre l’orario normale e ciò che varia è soltanto il numero di tali frazione temporali), posto che ciò che è variabile, senza effettiva possibilità di predeterminazione, è proprio l’ammontare annuo dei cespiti costituenti la base di calcolo delle quote spettanti e, quindi, l’importo stesso di queste ultime. Dal che discende che, sulla base del solo disposto dell’art. 5 del Regolamento, ove cioè non integrato da quanto previsto dalla ridetta Delib. n. 99 del 1982, non facendo parte le quote onorari dello "stipendio lordo calcolato per 15 mensilità annue", nè potendo essere considerate, per le ragioni testè indicate, quali "eventuali assegni personali ed altre competenze di carattere fisso e continuativo", e potendo bensì attribuirsi alle pronunce giudiziarie amministrative intervenute al riguardo valenza caducatoria con efficacia erga omnes delle disposizioni ritenute illegittime, ma non, con la stessa efficacia, portata integrativa e modificativa delle clausole regolamentari in ordine alla tipologia degli emolumenti da prendere in considerazione ai fini de quibus, non avrebbe dovuto tenersi affatto conto della quota onorari per il calcolo della pensione integrativa e, a fortiori, per la riliquidazione di quella già conseguita.

4. In base alle considerazioni che precedono il primo motivo di ricorso merita accoglimento, restando assorbita la disamina degli altri.

La sentenza impugnata va quindi cassata anche per ciò che riguarda la pronuncia relativa al trattamento pensionistico integrativo.

Non essendo necessari ulteriori accertamenti fattuali, la controversia può essere decisa nel merito, con la reiezione delle domande svolte.

La mancanza di precedenti specifici di legittimità e la complessità delle questioni dibattute consigliano la compensazione delle spese di lite afferenti all’intero giudizio.

P.Q.M.

La Corte, pronunciando sul ricorso, accoglie per quanto di ragione il primo motivo, dichiara assorbiti gli altri, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta le domande; spese dell’intero processo compensate.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. Unite, Sent., 12-04-2012, n. 5759 Trattamento economico

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Con ricorso depositato il 31 marzo 2008 L.G., B.M.A., M.E., D.M.L. e D.P.V. hanno adito il tribunale di Venezia esponendo di essere tutti dipendenti del Ministero della Giustizia, con diverse qualifiche, e di percepire, in forza dell’art. 34 CCNL del comparto Ministeri del 1994 – 1997, l’indennità di amministrazione. Hanno quindi chiesto l’accertamento del diritto alla inclusione della indennità di amministrazione nella base di calcolo (quota A) della pensione e della indennità di buonuscita a decorrere dall’assunzione, con la condanna del Ministero della Giustizia ad assoggettare a contribuzione tutti gli emolumenti percepiti per indennità di amministrazione e indennità di quiescenza e ad effettuare i relativi versamenti presso l’INPDAP ai fini pensionistici, oltre al pagamento delle spettanze maturate e degli accessori del capitale. A sostegno della domanda hanno dedotto che l’indennità di amministrazione, attualmente computata in quota B al fine della retribuzione pensionabile, avrebbe dovuto essere computata in quota A, quindi interamente pensionabile, trattandosi di un elemento fisso e continuativo della retribuzione.

Si è costituito nel giudizio di primo grado il Ministero della Giustizia, resistendo alla domanda ed eccependo, in via pregiudiziale, il difetto di giurisdizione del giudice ordinario con riferimento ai riflessi pensionistici della domanda, per essere competente la Corte dei Conti. Nel merito, sosteneva l’infondatezza della domanda di cui chiedeva il rigetto.

La causa è stata decisa in primo grado dal tribunale di Venezia con sentenza emessa il 12 novembre 2008, che ha accolto la domanda dei ricorrenti, accertando il diritto di computare l’indennità di amministrazione in quota A, con riferimento tanto alla indennità di fine servizio che ai fini pensionistici.

2. Avverso tale sentenza ha proposto appello il Ministero della Giustizia.

Si sono costituiti gli appellati, contestando nel merito i motivi di appello e chiedendone il rigetto con conseguente conferma della sentenza di primo grado.

Con sentenza del 7 aprile 2008 – 25 settembre 2009 la corte d’appello di Venezia ha respinto la domanda degli originar ricorrenti, così riformando la sentenza di primo grado.

3. Avverso questa pronuncia ricorrono per cassazione L. G. e altri ricorrenti indicati in epigrafe.

Resiste con controricorso il ministero intimato che ha proposto ricorso incidentale condizionato.

Motivi della decisione

1. Il ricorso principale è articolato in un unico motivo con cui viene dedotta la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 1092 del 1973, artt. 3, 38 e 43. Sostengono in particolare i ricorrenti che l’art. 34 del contratto collettivo per il comparto ministeri aveva istituito l’indennità di amministrazione quale compenso annuo, fisso e di natura retributiva, definendola con carattere di generalità e continuità. Anche l’indennità di amministrazione era quindi soggetta a ritenuta previdenziale. Pertanto – sostengono i ricorrenti – l’indennità in questione deve essere considerata come elemento generale costante della retribuzione e, in quanto tale, rientrante nella nozione di base pensionabile, nonchè parte integrante della retribuzione imponibile ai fini contributivi e della base di calcolo dell’indennità di quiescenza.

2. Con il ricorso incidentale condizionato il ministero resistente denuncia la violazione e falsa applicazione del R.D. 12 luglio 1934, n. 1214, artt. 13 e 62, ed eccepisce il difetto di giurisdizione del giudice ordinario appartenendo alla corte dei conti la giurisdizione sulla controversia.

3. I giudizi promossi con il ricorso principale e quello incidentale condizionato vanno riuniti avendo ad oggetto la stessa sentenza impugnata.

4. Premesso che questa corte (Cass., Sez. Un., 20 maggio 2010, n. 12337), proprio in riferimento a controversie relative alla computabilità dell’indennità di amministrazione nel trattamento pensionistico, ha precisato che occorre distinguere tra domanda proposta nel corso del rapporto di lavoro e diretta, come nella specie, all’accertamento della computabilità dell’emolumento nella base contributiva – che attiene agli obblighi, pur con connotazione previdenziale, nascenti dal rapporto d’impiego e alla base di calcolo dei contributi sulla retribuzione che l’Amministrazione è tenuta a versare – e domanda, proposta dal dipendente già in quiescenza, diretta al conteggio di detta indennità nella pensione o nella base pensionistica ai fini della quantificazione del trattamento pensionistico – che attiene al rapporto previdenziale e riguarda l’ammontare della pensione erogata o da erogare – non può non richiamarsi innanzitutto la giurisprudenza della Corte dei conti che, nelle controversie aventi ad oggetto la determinazione del trattamento pensionistico, si è pronunciata più volte nel senso della non integrale pensionabilità dell’indennità di amministrazione (Corte conti, 26 gennaio 2009, n. 31; 28 ottobre 2007, n. 366; 26 febbraio 2007, n. 301).

Deve in proposito considerarsi che il D.Lgs. n. 503 del 1992, recante norme per il riordino del sistema previdenziale dei lavoratori pubblici e privati, ha previsto all’art. 13 il nuovo sistema di calcolo della pensione il cui importo, a far tempo dal 1 gennaio 1993, deve essere determinato dalla somma della quota di pensione corrispondente all’importo relativo alle anzianità contributive acquisite anteriormente al 1 gennaio 1993 – c.d. quota A – da calcolare secondo la normativa vigente precedentemente alla data anzidetta (art. 13, comma 1, lett. a), e della quota di pensione – c.d. quota B – corrispondente all’importo del trattamento pensionistico relativo alle anzianità contributive acquisite a decorrere dal 1 gennaio 1993 (art. 13, comma 1, lett. b) da calcolare secondo le disposizioni introdotte dal D.Lgs. stesso.

Pur in questo innovato contesto normativo la c.d. quota A di pensione è rimasta disciplinata dal D.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1092, art. 43 (recante le norme sul trattamento di quiescenza dei dipendenti civili e militari dello Stato), nel testo sostituito dalla L. 29 aprile 1976, n. 177, art. 15, che, dopo aver tassativamente indicato quali emolumenti vanno inseriti nel calcolo della pensione, prevede all’ultimo comma che agli stessi fini, nessun altro assegno o indennità, anche se pensionabili, possono essere considerati se la relativa disposizione di legge non ne preveda espressamente la valutazione nella base pensionabile.

In simmetria con l’art. 43 cit., il D.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1032, art. 3 (recante norme sulle prestazioni previdenziali a favore dei dipendenti civili e militari dello Stato) prevede che, per la determinazione della base contributiva, ai fini del computo della indennità di buonuscita, si considera l’ultimo stipendio o l’ultima paga o retribuzione integralmente percepiti; la stessa norma vale per gli assegni che concorrono a formare la base contributiva. L’art. 38 dello stesso testo normativo disciplina la base contributiva utile ai fini dei trattamenti di previdenza e della indennità in questione, individuando le specifiche voci stipendiali da prendere in considerazione a questi fini.

Quindi la natura eventualmente retributiva di una determinata indennità o voce stipendiale non è sufficiente a farla rientrare nella base contributiva ai fini del computo del trattamento di quiescenza, dal momento che – come ha correttamente osservato la Corte d’appello – per stabilire l’idoneità di un certo compenso a essere considerato a questo fine occorre far riferimento al dato formale, costituito dal regime giuridico previsto dalla legge per l’emolumento. Cfr. in proposito Cons. Stato, sez. 6^, 27 dicembre 2007, n. 6666. In sostanza, l’individuazione delle voci stipendiali utili ai fini del computo della indennità di buonuscita, risponde al principio di tassatività stabilito dal D.P.R. n. 1032 del 1973, art. 38 e dal D.P.R. n. 1092, art. 43, che esclude che indennità non comprese nella previsione normativa possano essere considerate a questi fini.

Successivamente, la L. 8 agosto 1995, n. 335, di riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare, allo scopo di armonizzare i diversi ordinamenti pensionistici, ha introdotto una nozione di pensionabilità analoga a quella vigente nell’assicurazione generale obbligatoria gestito dall’INPS. Secondo tale disposizione, a far tempo dal 1 gennaio 1996 tutti gli emolumenti corrisposti al lavoratore, ad eccezione di quelli tassativamente indicati nella L. 30 aprile 1969, n. 153, art. 12, sia che attengano al c.d. trattamento fondamentale che a quello accessorio, concorrono a formare la base contributiva e, quindi, correlativamente, per effetto della riforma introdotta, quella pensionabile.

A seguito di tale legge di riforma la base pensionabile è venuta ad arricchirsi delle voci accessorie della retribuzione, con decorrenza dal 1 gennaio 1996, includendo tutto ciò che il lavoratore riceve dal datore di lavoro in dipendenza del rapporto di lavoro (art. 2, comma 9). Ma – come ha correttamente rilevato la Corte d’appello – nel determinare gli effetti nel tempo della nuova disciplina, la legge di riforma ha stabilito che per gli assunti anteriormente al 1 gennaio 1996 la nuova base pensionabile, come ampliata dall’art. 2 comma 9, può essere considerata solo ai fini del calcolo della suddetta quota B (cit. L. n. 335 del 1995, art. 2, comma 11). Invece per la quota A opera il principio della tassatività stabilito dal cit. D.P.R. n. 1092 del 1973, art. 43, secondo cui sono esclusi dalla base pensionabile gli emolumenti di natura non stipendiale, a meno che la legge istitutiva non ne preveda espressamente la pensionabilità.

Quindi nella specie, riguardante l’indennità di amministrazione istituita con il CCNL del comparto Ministeri per il quadriennio 1994 – 1997, all’art. 34, come componente accessoria della retribuzione, trova non di meno applicazione il D.P.R. n. 1092 del 1972, art. 43, atteso che tale norma non è stata derogata dalla regolazione contrattuale del pubblico impiego, in quanto essa non ha inciso sul regime dei trattamenti pensionistici, che continuano a essere determinati e riconosciuti in base alla previsione della legge (cfr.

D.Lgs. n. 165 del 2001, artt. 24 e 45).

5. Il ricorso principale va quindi rigettato siccome infondato e quello incidentale, in quanto condizionato, è assorbito.

Sussistono giustificati motivi (in considerazione dell’evoluzione giurisprudenziale sulle questioni dibattute e della problematicità delle stesse nel contesto del progressivo assetto del diritto vivente) per compensare tra le parti le spese di questo giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte, a Sezioni Unite, riunisce i ricorsi; rigetta il ricorso principale, assorbito quello incidentale; compensa tra le parti le spese di questo giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, il 31 gennaio 2012.

Depositato in Cancelleria il 12 aprile 2012

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. I, Sent., 17-05-2012, n. 7782 Controversie tra l’appaltatore e l’amministrazione appaltante

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Con sentenza 24 febbraio 2009, la Corte d’appello di Lecce, in parziale riforma della sentenza di primo grado, che aveva dichiarato risolto per colpa del Comune di Avetrana il contratto di appalto stipulato dall’ente con l’impresa di D.S.G., e condannato il comune al risarcimento dei danni per diverse causali, ha escluso la condanna al risarcimento dei danni costituiti dalle spese generali di cantiere. Ha osservato in proposito la corte che i mezzi di cantiere erano solo elencati in un allegato alla citazione, privo di data certa e di firma, e di riferimento sicuro all’opera in questione, e che l’impresa non aveva neppure prodotto una nota con l’indicazione esatta e la quantificazione delle spese generali.

3. Per la cassazione di questa sentenza, notificata il 27 febbraio 2009, ricorre D.S.G. per tre motivi, con atto notificato il 27 aprile 2009.

Il Comune non ha svolto difese.

Motivi della decisione

4. Con il primo motivo di ricorso si censura il rigetto della domanda di risarcimento danni per spese generali di cantiere, per violazione dell’art. 2697 c.c., e degli artt. 115 e 116 c.p.c., dovendo ritenersi pacifico in causa che l’appaltatore nel mese di marzo 1998 aveva rilasciato l’area del cantiere dei lavori nella disponibilità del committente, e che aveva sgomberato l’area da ogni bene e attrezzatura di sua proprietà.

Si propone il quesito se, perchè un fatto possa considerarsi pacifico, e tale da non richiedere una prova specifica, è indispensabile che il fatto sia espressamente ammesso dalla controparte, o che quest’ultima abbia impostato la propria difesa su argomenti logicamente incompatibili con il disconoscimento.

Il quesito è inammissibile. La decisione impugnata è stata fondata non già sull’inesistenza di un cantiere, bensì sull’impossibilità di quantificazione del danno, punto sul quale non esisteva neppure una precisa allegazione, rispetto alla quale potesse farsi questione di non contestazione.

5. Con il secondo motivo si denuncia la violazione dell’art. 2697 c.c. e del D.P.R. n. 1063 del 1962, art. 16, comma 1, in relazione al D.M. 29 maggio 1895, art. 20, comma 3, norme richiamate dal contratto d’appalto che elencano le spese generali a carico dell’appaltatore.

Si propone il quesito se nei contratti di appalto di oo.pp. il ristoro delle spese generali di cantiere, collegate alla maggiore durata del contratto conseguente alle illegittime sospensioni dei lavori imputabili alla stazione appaltante, e la connessa sussistenza dei relativi danni in favore dell’appaltatore non necessitino di alcuna prova.

Il motivo è infondato. In tema di appalto di opere pubbliche, le spese generali per l’esecuzione dell’appalto, comprendenti le spese di cantiere e quelle generali di azienda, sono disciplinate non dal D.M. 29 maggio 1865, art. 20, che regola la formazione dei prezzi unitari per ogni tipologia di lavoro e le relative componenti, ai fini della determinazione del costo dell’opera, e che si applica all’esecuzione del contratto di appalto nel suo svolgimento fisiologico, ma dal D.P.R. 16 luglio 1962, n. 1063, art. 16 (e ora D.M. 19 aprile 2000, n. 145, art. 5), che le pone a carico dell’appaltatore, in quanto già computate nel prezzo dell’opera (Cass. 22 dicembre 2011 n. 28429). Il precedente richiamato chiarisce anche che, secondo la giurisprudenza di questa corte (Cass. 5010/2009), la stazione appaltante ha bensì l’obbligo di rimborsare i maggiori oneri in favore dell’appaltatore, ove con il proprio comportamento abbia determinato un aggravio delle spese generali di cantiere, come avviene in caso d’illegittima sospensione di lavori;

ma ciò non vale laddove il contratto sia stato risolto, sia pure per fatto e colpa dell’amministrazione committente, verificandosi in tal caso per ciascuno dei contraenti, e indipendentemente dall’imputabilità dell’inadempienza, rilevante ad altri fini, una totale restitutio in integrum, e pertanto il venir meno di tutti gli effetti del contratto, e con esso di tutti i diritti che ne sarebbero derivati (Cass. nn. 8960/2010, 12468/2004, 7470/2001). L’impresa appaltatrice, nel presente giudizio, non agisce per far valere i crediti derivanti dall’esecuzione del contratto, bensì per il risarcimento del danno cagionato dal suo inadempimento. In tal caso, la parte attrice è gravata dell’onere di provare il danno subito, nell’an e nel quantum.

6. Con il terzo motivo si denuncia un vizio di motivazione per l’omessa considerazione della documentazione prodotta, comprendente in particolare l’elenco dei macchinari e delle attrezzature di cantiere indicate dall’impresa, le fatture dell’ENEL e l’ordinanza sindacale di sgombero del cantiere, in forza della quale la sentenza di primo grado aveva accolto la domanda anche su questo punto.

Il motivo è seguito da un quesito di diritto incompatibile con il mezzo d’impugnazione prescelto. Esso è in ogni caso inammissibile, perchè tendente – del resto solo implicitamente, e senza una chiara sintesi del fatto controverso, richiesta a pena d’inammissibilità dell’art. 266 bis c.p.c., vigente pro tempore – a focalizzare il punto decisivo della controversia sul fatto dell’esistenza di un cantiere aperto, laddove la domanda è stata respinta per l’assenza di elementi utili alla determinazione della consistenza del cantiere medesimo.

8. In conclusione il ricorso deve essere respinto. In mancanza di difese del Comune di Avetrana non v’ è luogo a pronuncia sulle spese.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.