Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 18-01-2011) 24-06-2011, n. 25367

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. La Corte d’Appello di Roma, con sentenza 23/12/2009, riformando in parte la decisione 3/10/2005 del locale Tribunale, che confermava nel resto, riteneva le già accordate attenuanti generiche prevalenti sulle contestate aggravanti e riduceva la misura della pena influita a M.R. e B.F. in relazione ai reati di resistenza a pubblico ufficiale e di lesioni volontarie aggravate in danno del carabiniere D.V.V., illeciti per i quali era stata affermata la loro colpevolezza.

Il Giudice distrettuale ricostruiva come segue i fatti.

La sera del (OMISSIS), i Carabinieri del N.O. Radiomobile di Roma erano intervenuti nei pressi di una tabaccheria sita nella zona (OMISSIS), dove era stata segnalata una rapina ad opera di tre giovani;

al loro arrivo, constatato che era in corso un litigio che vedeva coinvolti alcuni giovani "sospettati", tra i quali i due imputati, e il titolare della tabaccheria, avevano provveduto a separare i contendenti e invitato gli imputati a seguirli in caserma per gli opportuni accertamenti; a tale invito era seguita la violenta reazione del M., che, spalleggiato dal B., aveva – dapprima – rivolto frasi offensive all’indirizzo dei militari ed era – poi – passato a vie di fatto, spintonando ripetutamente costoro e colpendo il carabiniere D.V., che riportava lesioni;

l’opposizione attiva dei due imputati all’operato dei militari si era protratta, tanto che si era reso necessario l’intervento di altri numerosi carabinieri, per neutralizzare il comportamento violento dei due giovani. La Corte territoriale ravvisava nel comportamento degli imputati, che avevano concretamente ostacolato l’attività funzionale dei carabinieri, gli estremi dei contestati reati ed escludeva l’invocata esimente dell’atto arbitrario, in quanto i militari dell’Arma, in adempimento di un loro preciso dovere, avevano assunto legittime iniziative, finalizzate ai primi accertamenti in ordine alla denunciata rapina (a nulla rileva che gli imputati siano stati, poi, ritenuti estranei a questa), e si erano visti costretti a fare ricorso anche alla forza, per contenere "la furia scomposta del M.". 2. Hanno proposto ricorso per cassazione gli imputati.

Il M., tramite il proprio difensore, ha lamentato il vizio di motivazione nell’apprezzamento e nella valutazione della prova, sottolineando, in particolare, che la sua reazione verso i carabinieri era stata determinata dal fatto, avvertito come assolutamente ingiusto, di essersi visto sospettato quale autore della denunciata rapina.

Il B., con atto sottoscritto personalmente, ha dedotto: l) vizio di motivazione in ordine al formulato giudizio di colpevolezza, avendo egli tenuto, nella circostanza, un comportamento meramente passivo; 2) inosservanza ed erronea applicazione della legge penale in relazione alle contestate aggravanti, non esplicitate nella loro consistenza fattuale.

3. I ricorsi sono inammissibili.

La sentenza impugnata, facendo buon governo della legge penale, riposa su un apparato argomentativo che, rigorosamente ancorato alle emergenze processuali, da conto, in maniera adeguata e logica, delle ragioni che giustificano la conclusione alla quale perviene.

La doglianza del M. è manifestamente infondata. La reazione del predetto alla doverosa attività funzionale dei Carabinieri non può ritenersi giustificata dal fatto che egli era ben cosciente di essere estraneo alla rapina di cui era sospettato. I militari dell’Arma, avuto riguardo al contesto in cui si erano trovati ad operare, avevano il dovere di procedere agli opportuni accertamenti e il M., sul quale si erano comunque appuntati i sospetti della persona offesa, non era legittimato ad ostacolare, ricorrendo alla violenza verbale e fisica, tali accertamenti.

Le doglianze del B. in ordine al giudizio di responsabilità espresso a suo carico (primo motivo di ricorso) si risolvono in non consentite censure in fatto alla motivazione della sentenza in verifica. La ricostruzione e la valutazione del fatto, se immuni da vizi logici, devono rimanere prerogativa esclusiva del giudice di merito e non può trovare spazio in questa sede un diversa e alternativa interpretazione delle emergenze processuali.

Manifestamente infondato è il secondo motivo di ricorso del B.. Al di là del rilievo che gli effetti delle contestate circostanze aggravanti sono stati vanificati dalla concessione delle circostanze attenuanti generiche, ritenute prevalenti sulle prime, rileva la Corte che non sussiste la denuncia indeterminatezza del capo d’imputazione sul punto e la conseguente incertezza sulle aggravanti. Queste chiaramente si riferiscono al reato di lesioni, aggravate dal nesso teleologico col reato di resistenza e dalla qualità personale del soggetto passivo (pubblico ufficiale).

Impropriamente il ricorrente denuncia l’incompatibilità dell’aggravante di cui all’art. 61 c.p., n. 10 con il reato di resistenza, considerato che detta aggravante, come si è detto, è riferita al reato di lesioni.

4. Alla declaratoria di inammissibilità dei ricorsi, consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali e al versamento alla Cassa delle ammende della somma, che stimasi equa, di Euro mille ciascuno.

P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro mille ciascuno in favore della Cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

T.A.R. Puglia Lecce Sez. I, Sent., 18-07-2011, n. 1358 Beni di interesse storico, artistico e ambientale

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Il Comune di Otranto ha impugnato il decreto del 16 novembre 2011 con il quale il Direttore Generale per i beni culturali e paesaggistici della Puglia ha dichiarato di interesse particolarmente importante il tratto di mare antistante il Centro Antico di Otranto, sottoponendolo a vincolo diretto ai sensi dell’art. 12 e ss. d.lgs. 42/2004.

Il Comune ha dedotto i seguenti motivi: 1. Violazione art. 14 d.lgs. 42/2004; eccesso di potere per erroneità dei presupposti, illogicità, carenza di istruttoria. 2. falsa applicazione artt. 10 e 13 d.lgs. 42/2004; eccesso di potere per illogicità e contraddittorietà; violazione art. 3 l. 241/1990 per carenza di motivazione; eccesso di potere per genericità; carenza di istruttoria e falsità dei presupposti; eccesso di potere per violazione del principio di proporzionalità. 3. Eccesso di potere per illogicità e contraddittorietà sotto distinto profilo.

Deduce il ricorrente che il decreto reca in allegato una planimetria catastale ad amplissima scala senza identificare i punti geografici, che la planimetria estende il vincolo anche alla zona antistante la città nuova, che il decreto non indica i dati identificativi dei materiali ritrovati e della presumibile ubicazione degli stessi, che gli unici due rinvenimenti ritenuti importanti di fatto non esistono, che comunque questi rinvenimenti riguardano solo il molo di S. Nicola, che non sono stati indicati sopralluoghi o rilievi planimetrici o fotografici che riconducano al porto di Otranto il luogo di rinvenimento e che nel decreto non sono specificate le sopravvenienze archeologiche o le ragioni giuridiche per le quali si rende necessaria l’apposizione del vincolo.

Le Amministrazioni statali si sono costituite con atto del 27 gennaio 2011 e con memoria del 14 maggio 2011 hanno rilevato che la planimetria, priva delle coordinate geografiche, è stata allegata per mero errore materiale e che è stata inoltrata la planimetria corretta con nota del 9 febbraio 2011, e che il vincolo è stato imposto adesso perché solo in tempi recenti è stato creato il servizio tecnico di archeologia subacquea.

Il ricorrente, con memoria dell’11 e replica del 23 maggio 2011, ha ribadito le proprie deduzioni.

Nella pubblica udienza del 15 giugno 2011 il ricorso è stato trattenuto in decisione.

Motivi della decisione

Il ricorso è fondato.

È da rilevare anzitutto che il provvedimento di imposizione di vincolo diretto è frutto di una valutazione tecnicodiscrezionale dell’Amministrazione, sindacabile sotto i profili della illogicità e della irrazionalità della motivazione. La discrezionalità di cui si è detto si esplica anche in ordine all’estensione del vincolo (Cons. St., sez. VI, 26 settembre 1991, n. 596).

Inoltre, è ritenuta indefettibile, ai fini di un corretto esercizio del potere interdittivo, un’adeguata identificazione del deposito archeologico, accompagnata dalla precisa localizzazione dell’area in cui lo stesso si presume esistente, di modo che l’imposizione del vincolo diretto cada su una superficie effettivamente interessata dai reperti congruamente individuati, quanto a rilevanza, consistenza, estensione e ubicazione del relativo deposito. Elementi che sono stati ritenuti necessari affinché, mediante l’esatta delimitazione della zona da proteggere, siano evitati inutili sacrifici a carico delle proprietà incise (Cons. St., sez. VI, 5 ottobre 2001, n. 5247; Cons. St., sez. VI, 7 maggio 2001, n. 2522; Cons. St., sez. VI, 5 26 gennaio 2000, n. 357).

È inoltre un principio consolidato in giurisprudenza quello per cui l’Amministrazione può estendere il vincolo ad intere aree in cui siano disseminati ruderi archeologici particolarmente importanti, richiedendosi, tuttavia, che i ruderi stessi costituiscano un complesso unitario inscindibile, tale da rendere indispensabile il sacrificio totale degli interessi contrapposti, in modo tale da evitare che l’imposizione della limitazione sia sproporzionata rispetto alle finalità di pubblico interesse cui è preordinata (Cons. St., sez. VI, 27 settembre 2005, n. 5069).

Nel caso in esame, la relazione allegata al decreto di vincolo non dà conto di una adeguata indagine istruttoria compiuta in sito, ma afferma genericamente "Oltre alla grande quantità di materiale ceramico, soprattutto anfore da trasporto di tipi ed epoche diverse, recuperata nel tempo sui fondali marini e indicata in maniera generica come proveniente "dal porto di Otranto,vanno citati due rinvenimenti di maggiore importanza", cioè "un relitto con carico di sarcofagi in marmo", e "elementi strutturali semisommersi, in conglomerato cementizio,che si ritiene possano essere appartenute ad una opera portuale con sviluppo ad arco,risalente ad età non precisabile;nel tratto di mare antistante il molo,si riconoscono infine,in prospezione subacquea,numerosi frammenti ceramici ormai concrezionati agli scogli,oppure dispersi sul fondo marino".

Cita poi vari rinvenimenti;in realtà, questi rinvenimenti riguardano località della terraferma o tratti costieri tutti distanti e al di fuori della baia oggetto di vincolo.

Per questa ragione,il decreto di vincolo, che ovviamente richiama l’allegata relazione tecnicoscientifica, cita espressamente solo la "grande quantità di materiali ceramici dispersi sui fondali e concrezionati agli scogli e la presenza di strutture semisommerse ".

A prescindere dai rinvenimenti estranei allo specchio acqueo vincolato,si deve osservare che il " relitto con carico di sarcofagi in marmo",secondo la relazione, "sarebbe stato obliterato dalla costruzione del molo San Nicola " e perciò non può essere oggetto di tutela; le "strutture semisommerse " sono in conglomerato cementizio e quindi riferibili ad epoca moderna,secondo la stessa fonte citata nel decreto di vincolo (CRUPI), che afferma trattarsi di "opere forse riferibili al vecchio Porto" e comunque di "età moderna" (pag. 4 della memoria depositata dal ricorrente il 4 maggio 2011).

In sostanza, la relazione si risolve nel mettere in evidenza, in linea generale, il notevole interesse archeologico di tutto il territorio che gravita intorno al Porto di Otranto, interesse che, però, per l’estraneità dei rinvenimenti all’area vincolata e la discutibilità dei riferimenti alla stessa, non appare sufficiente a giustificare l’imposizione del vincolo diretto su tutto il tratto di mare antistante il Centro Antico di Otranto.

Il decreto di vincolo,poi,ha come unico supporto " una grande quantità di materiali ceramici dispersi sui fondali e concrezionati agli scogli",cioè uno solo degli elementi su cui si fonda,peraltro di dubbio rilievo ai fini della " dichiarazione di particolare interesse" di un’area così vasta e tanto importante nell’economia locale.

In conclusione, il ricorso deve essere accolto con compensazione delle spese di giudizio per giusti motivi.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia Lecce – Sezione Prima

definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l’effetto, annulla il provvedimento impugnato.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

T.A.R. Veneto Venezia Sez. III, Sent., 04-08-2011, n. 1349 Lavoro subordinato

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Il ricorrente, cittadino del Marocco, impugna il provvedimento con il quale la Questura della provincia di Padova ha respinto la sua istanza di rinnovo del permesso di soggiorno per il rilievo che si tratta di un permesso di soggiorno per motivi di lavoro stagionale non rinnovabile né prorogabile al primo ingresso.

Con il ricorso in epigrafe tale provvedimento è impugnato per le seguenti censure:

I) violazione dell’art. 5, commi 5 e 9, del Dlgs. 25 luglio 1998, n. 286, per l’omessa considerazione che il ricorrente non era consapevole che si trattava di un permesso di soggiorno per lavoro stagionale, e che alla scadenza il ricorrente ha reperito un nuovo rapporto di lavoro con diverso datore;

II) violazione dell’art. 10 bis della legge 8 agosto 1990, n. 241, per l’omessa acquisizione dell’apporto procedimentale dell’interessato;

III) illogicità della motivazione perché viene erroneamente indicata, quale data di ingresso, l’11 luglio 2008, anziché l’8 novembre 2007;

IV) illegittimità per l’omessa traduzione in lingua conosciuta.

L’Amministrazione si è costituita in giudizio concludendo per la reiezione del ricorso.

Con ordinanza n. 166 del 28 gennaio 2009, è stata respinta la domanda cautelare.

Il ricorso è infondato e deve essere respinto.

Infatti, contrariamente a quanto dedotto, i titolari di permessi di soggiorno per lavoro stagionale al primo ingresso non possono far valere a proprio favore, quali elementi sopravvenuti, i rapporti di lavoro instaurati dopo la scadenza, in quanto in base all’art. 24 del Dlgs. 25 luglio 1998, n. 286, e dell’art. 38 del DPR 31 agosto 1999, n. 349, l’autorizzazione al lavoro stagionale è caratterizzata dalla provvisorietà dell’impiego.

L’art. 24, comma 4, del Dlgs. 25 luglio 1998, n. 286, stabilisce che "il lavoratore stagionale, ove abbia rispettato le condizioni indicate nel permesso di soggiorno e sia rientrato nello Stato di provenienza alla scadenza del medesimo, ha diritto di precedenza per il rientro in Italia nell’anno successivo per ragioni di lavoro stagionale, rispetto ai cittadini del suo stesso Paese che non abbiano mai fatto regolare ingresso in Italia per motivi di lavoro. Può, inoltre, convertire il permesso di soggiorno per lavoro stagionale in permesso di soggiorno per lavoro subordinato a tempo determinato o indeterminato, qualora se ne verifichino le condizioni".

L’art. 38, comma 7, del DPR 31 agosto 1999, n. 349, stabilisce che "i lavoratori stranieri che hanno fatto rientro nello Stato di provenienza alla scadenza del permesso di soggiorno rilasciato l’anno precedente per lavoro stagionale, i quali sono autorizzati a tornare in Italia per un ulteriore periodo di lavoro stagionale, ed ai quali sia offerto un contratto di lavoro subordinato a tempo determinato o indeterminato, nei limiti delle quote di cui all’art. 29, possono richiedere alla questura il rilascio del permesso di soggiorno".

Come ha precisato la giurisprudenza tali norme devono essere interpretate nel senso che il permesso di soggiorno rilasciato per lavoro stagionale può essere convertito in permesso di soggiorno per lavoro subordinato solo a seguito di una procedura complessa per la quale è necessario che il lavoratore rientri prima nel suo Paese di origine, faccia in seguito un nuovo ingresso in Italia, ed ottenga l’autorizzazione della Direzione provinciale del lavoro competente ai fini della richiesta conversione e sempre nel rispetto delle quote dei flussi annuali (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 3 maggio 2010, n. 2498; Tar Lombardia, Milano, Sez. III, 3 marzo 2010, n. 526; Tar Piemonte, Sez. II, 16 gennaio 2007, n. 13; Tar Umbria, 14 febbraio 2007, n. 130; Tar Marche, Sez. I, 2 marzo 2007, n. 183).

Deve pertanto essere respinta la censura di cui al primo motivo, con la quale il ricorrente lamenta la mancata considerazione del rapporto di lavoro successivamente instaurato o la mancata comprensione da parte del ricorrente dell’indicazione, contenuta nel permesso di soggiorno, del carattere stagionale del medesimo, perché la mancata conversione è un effetto di legge privo di elementi di valutazione di carattere discrezionale.

Tali considerazioni, dalle quali emerge la natura vincolata del provvedimento impugnato, comportano la reiezione anche del secondo motivo, con il quale il ricorrente lamenta l’omessa acquisizione del suo apporto procedimentale, in quanto, come peraltro specifica espressamente lo stesso provvedimento impugnato, è evidente che il contenuto dispositivo del medesimo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato, con conseguente operatività della c.d. sanatoria procedimentale di cui all’art. 21 octies della legge 7 agosto 1990, n. 241.

Parimenti infondata è anche la censura di cui al quarto motivo, in quanto la mancata traduzione del provvedimento di diniego costituisce una circostanza suscettibile di determinare, ove necessario, la rimessione in termini ai fini della tempestività dell’impugnazione, ma non comporta l’annullabilità del provvedimento.

Del pari ininfluente, ai fini della validità del provvedimento, è l’erronea indicazione della data di ingresso nel territorio nazionale, denunciata con il terzo motivo, che non attiene ad un elemento decisivo ai fini della determinazione assunta dall’Amministrazione, e si riduce pertanto una mera irregolarità inidonea a comportare l’illegittimità del provvedimento impugnato.

In definitiva il ricorso deve essere respinto.

Le peculiarità della controversia giustificano la compensazione delle spese di giudizio.

P.Q.M.

Il Tribunale amministrativo regionale per il Veneto, terza Sezione, definitivamente pronunciando sul ricorso in epigrafe, lo respinge.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Venezia nella camera di consiglio del giorno 7 luglio 2011 con l’intervento dei magistrati:

Giuseppe Di Nunzio, Presidente

Stefano Mielli, Primo Referendario, Estensore

Marco Morgantini, Primo Referendario

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 29-12-2011, n. 29679 Litisconsorzio necessario

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con ricorso al Giudice del Lavoro del Tribunale di Nicosia, la signora T.R., conveniva in giudizio la Tecno Jacket s.r.l. esponendo di essere dipendente della stessa dal (OMISSIS), con le mansioni di addetta ai "servizi vari".

Aggiungeva che nel corso del rapporto aveva promosso, unitamente ad altri lavoratori, una causa contestando la disdetta del CCNL tessile a favore dell’applicazione del CCNL "aziende lavorazione conto terzi a facon" "peggiorativo per i lavoratori".

Soggiungeva che, a seguito di procedura ex L. 223 del 1991, avviata nel gennaio 2004, veniva licenziata in data (OMISSIS).

Lamentava che il licenziamento collettivo era stato disposto in violazione dell’art. 5 della suddetta legge sia per vizi formali sia per violazione dei criteri di scelta, chiedendo la reintegrazione nel posto di lavoro con tutte le conseguenze h economiche.

Con sentenza del 4 maggio 2006, l’adito Giudice accoglieva la domanda, rilevando un difetto di specificazione del criterio di scelta dei lavoratori da licenziare concernente la fungibilità delle mansioni, la non corretta applicazione dei predetti criteri di legge, la mancata comparazione di tutti i lavoratori dell’azienda con conseguente illegittimità dell’accorpamento dei diversi reparti interessati dalla riduzione, avuto riguardo alla medesima professionalità dei lavoratori addetti all’azienda, tutti inquadrati nel 6^ e 7^ livello, alla illegittimità della classificazione del personale sulla base delle mansioni previste dal contratto a Facon applicato.

Proponeva appello la società, eccependo con il primo motivo la nullità della sentenza per "disintegrità del contraddittorio", richiamando la L. n. 223 del 1991, art. 17, vertendosi in materia di litisconsorzio necessario.

Sotto altro profilo lamentava la erroneità della sentenza, in quanto nella motivazione non avrebbe precisato la specifica violazione imputabile all’azienda, senza calibrare la violazione sulla posizione processuale della T..

Sosteneva, in particolare, che la ricorrente sarebbe stata comunque colpita dal provvedimento di recesso sia per anzianità di servizio che per carichi di famiglia; contestava, inoltre, che l’azienda avesse accorpato i dipendenti sulla base del "contratto Facon", avendo sempre fatto riferimento alle mansioni concretamente e prevalentemente disimpegnate, ivi comprese quelle di assemblaggio, come precisato dai testi.

Si costituiva la T., chiedendo il rigetto dell’appello perchè infondato. Con sentenza del 13 febbraio 2007-22 febbraio 2008, l’adita Corte d’appello di Caltanissetta, esclusa la necessità di integrare il contraddittorio con gli altri lavoratori licenziati, rigettava il gravame, osservando che la lavoratrice era stata licenziata sulla base della illegittima classificazione enucleata in relazione al contratto Facon. Per la cassazione di tale pronuncia ricorre la Tecno Jacket s.r.l. con cinque motivi.

Resiste T.R. con controricorso.

Motivi della decisione

Con il primo motivo la società ricorrente, denunciando violazione e falsa applicazione dell’art. 102 c.p.c. (in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, lamenta che la Corte d’Appello di Caltanisetta abbia rigettato la sollevata eccezione di nullità della sentenza di primo grado, per non avere il Giudice disposto l’integrazione del contraddittorio nei confronti di tutti i lavoratori dell’azienda.

Sostiene, infatti, la società ricorrente che sussisterebbe un concreto interesse di tutti i lavoratori dell’azienda a partecipare al giudizio, che comporterebbe una ipotesi di litisconsorzio necessario, poichè l’annullamento del licenziamento impugnato faculterebbe l’azienda a licenziare un altro dipendente in sostituzione di quello reintegrato.

Il motivo è infondato.

Invero, correttamente la Corte di Appello ha ritenuto che "il licenziamento, ancorchè collettivo ed intimato con un unico atto ad una pluralità di lavoratori, ha natura di un negozio unilaterale recettizio volto a determinare la cessazione del rapporto di lavoro dei singolo dipendenti destinatari della comunicazione, configurandosi tanti licenziamenti quanti sono i dipendenti licenziati, con ciò realizzandosi un’ipotesi di litisconsorzio tutt’al più processuale o facoltativo ex art. 103 c.p.c., caratterizzato dall’autonomia delle singole cause." Così decidendo la Corte territoriale si è adeguata all’orientamento di questa Corte, espresso nei termini appena riprodotti (v. in particolare, Cass. 1784/1992).

Con il secondo motivo di censura la società ricorrente, denunciando omessa e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5), sostiene che il Giudice d’appello avrebbe errato nel ritenere l’avvenuta violazione dei criteri di scelta, determinata dall’accorpamento dei dipendenti sulla base delle qualifiche professionali previste dal CCNL Facon, ed, in via più generale, dall’assenza in azienda di una suddivisione in reparti con conseguente reciproca fungibilità dei dipendenti.

Anche questo motivo è privo di fondamento, limitandosi la società ricorrente a riproporre una propria valutazione della prova, disattesa con congrua motivazione. Invero, in proposito il Giudice a qua ha tenuto a precisare che le univoche deposizione testimoniali avevano confermato la fungibilità delle mansioni de personale addetto alla produzione ed assemblaggio; in particolare, la ricorrente risultava avere svolto mansioni di addetta ai servizi vari (c.f.r. buste paga in atti) pur occupandosi di altre mansioni (assemblaggio, travettatura, rifilatura, supporto addetti alle macchine di cucito età).

Pertanto, considerata la medesima professionalità dei lavoratori addetti all’azienda, tutti inquadrati nel 6^ o 7^ livello, sarebbe apparso illegittimo l’inquadramento della lavoratrice, ai fini della individuazione dei lavoratori da licenziare.

Più in dettaglio – sempre secondo il Giudice d’appello – "appariva illegittima, a monte, la classificazione sulla base della mansioni derivanti dall’applicazione del contratto a Facon, in modo tale da non rendere facilmente enucleabile la effettiva professionalità acquisita dai lavoratori licenziati.

Va, in proposito, rammentato che in tema di accertamento dei fatti storici allegati dalle parti a sostegno delle rispettive pretese, i vizi motivazionali deducibili con il ricorso per cassazione non possono consistere nella circostanza che la valutazione delle prove sia stata eseguita dal Giudice in senso difforme da quello preteso dalla parte, perchè, a norma dell’art. 116 c.p.c., rientra nel potere discrezionale ed insindacabile del giudice di merito individuare le fonti del proprio convincimento, apprezzare al bisogno le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza e scegliere, tra le varie risultanze istruttorie, quelle ritenute idonee e rilevanti con l’unico limite di supportare la decisione con adeguata e congrua motivazione immune da vizi logici e da errori giudici (Cass. 03/09/2008, n. 22171).

Nel caso di specie, la motivazione della sentenza è puntuale e coerente e, come tale, insindacabile anche in merito alla valutazione dell’atto conclusivo della procedura di mobilità.

Alla luce di tali considerazioni, è priva di fondamento anche l’ulteriori censura alla sentenza impugnata, dedotta con il terzo motivo, concernente la pretesa violazione dell’art. 41 Cost. e della L. n. 223 del 1991, art. 5, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Il Giudice d’appello si è, infatti, limitato a riscontrare l’incongruità e la non correttezza dei criteri di scelta individuati dal datore di lavoro e della loro applicazione.

La Corte territoriale, invero, in seguito alla valutazione del materiale istruttorio, ha ritenuto non provata, da parte del datore di lavoro, la "ragionevolezza del suo operato" osservando che "quando il progetto di ristrutturazione aziendale si riferisca in modo specifico ad un settore dell’azienda, in generale la comparazione dei lavoratori da licenziare può avvenire secondo le scelte dell’imprenditore, ispirale dalle esigenze tecnico produttive, ed anche fare riferimento ai singoli reparti interessati dalle eccedenze. In tali casi, in relazione ai collocamenti in mobilità ed ai licenziamenti collettivi, il principio previsto dalla L. n. 223 del 1991, artt. 5 e 24 – in base ai quali i criteri selezione dei personale da licenziare, ove non predeterminati secondo uno specifico ordine previsto da accordi collettivi, devono essere osservati in concorso tra di loro- se impone al datore di lavoro una valutazione globale degli stessi, tuttavia non esclude che si possa accordare prevalenza ad uno di tali criteri ed, in particolare, a quello delle esigenze tecnico produttive, purchè tale prevalenza trovi la sua ragione di scelta in elementi oggettivi, e non sottenda ragioni elusive e/o discriminatorie, (Cass. 19.05.2006 n. 11866; Cass. 07.06.2003 n. 9153).

Tuttavia, se si tratta, come nella specie, di personale tendenzialmente omogeneo per professionalità e fungibilità, ai fini del controllo di conformità dei criteri di scelta al principio di buon fede di cui all’art. 1175 c.c., non è utilizzabile nè il criterio della posizione da sopprimere (in quanto tutte posizioni lavorative sono equivalenti e tutti i lavoratori licenziabili) nè tanto meno l’impossibilità di repechage.

In tali casi -ha esattamente osservato la Corte territoriale richiamando la giurisprudenza di legittimità (in part. v. Cass. n. 9888/2006)-, "non si può limitare la scelta agli addetti ad un reparto se questi sono idonei per acquisite esperienze e per pregresso e frequente svolgimento della propria attività in altri reparti a svolgere altre attività, ma si deve ampliare la scelta coinvolgendo altri reparti". Con il quarto motivo la società ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 416 c.p.c. e dell’art. 437 c.p.c., mentre con il quinto motivo censura la sentenza impugnata, per insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia. n particolare, la ricorrente censura la statuizione della Corte d’appello per avere ritenuto tardiva e non provata l’eccezione difensiva formulata dalla stessa società per la prima volta con l’atto d’appello e consistente nella produzione di una nuova graduatoria formulata in base all’applicazione di nuovi criteri.

I due motivi, da trattarsi congiuntamente perchè strettamente connessi, sono infondati, avendo correttamente la Corte d’appello considerato tardivo l’introduzione di un thema decidendum non prospettato dalla società in primo grado.

La Corte ha ritenuto che l’assunto dell’azienda, secondo cui avrebbe operato in piena correttezza poichè, anche se si "fosse provveduto ad accorpare tutti i dipendenti, senza distinzione di reparti e mansioni, la signora T. sarebbe ugualmente stata colpita dal provvedimento di recesso, in quanto sulla base dei criteri dell’anzianità aziendale e dei carichi di famiglia, si sarebbe collocata all’11 posto (i lavoratori erano 18), era comunque inammissibile, in quanto dedotto per la prima volta nell’atto di appello, non essendo contenuta alcuna censura in tal senso nella memoria di costituzione del 20.01.2005, dovendo il convenuto comunque prendere posizione precisa in ordine ai fatti sin dalla data di deposito della memoria di costituzione ex art. 416 c.p.c.".

Il Giudice a qua ha comunque, espresso anche un giudizio di merito sulla eccezione della società, osservando che, in ogni caso, anche ad esaminare nel merito la censura, l’assunto non era provato, come non erano provati i presupposti di fatto di tale graduatoria, in quanto la ricorrente aveva un’anzianità di servizio e carichi di famiglia che le avrebbero consentito di precedere altri dipendenti, che, seppur non licenziati, avevano avuto attribuito un minore punteggio. Inoltre prosegue la Corte- parte appellata aveva ribadito che in ogni caso l’individuazione dei lavoratori da licenziare era stata fatta sulla base del contratto Facon e sulle mansioni ivi individuate, che, come dimostrato dall’istruttoria espletata in primo grado, non corrispondevano alle effettive mansioni svolte dalle lavoratrici. Ed ancora, dal prospetto prodotto risultava che alla signora T. era stata attribuita, ai fini della inclusione in graduatoria la mansione di manovale, dalla stessa in concreto mai svolta, avendo la ricorrente prodotto nel giudizio di primo grado alcune buste paga che documentavano il suo inquadramento come "addetta servizi vari".

A ciò era da aggiungere che dagli atti risultava che il numero dei lavoratori da licenziare si era ridotto, verosimilmente a seguito delle dimissioni rassegnate da quattro lavoratori e del recesso di un lavoratore addetto ad un settore non interessato dal ridimensionamento, di tre unità : dal prospetto allegato, tuttavia, essendo operate delle correzioni a penna poco leggibili, non era dato evincere nemmeno quanti lavoratori concretamente dovessero essere avviati in mobilità; sicchè, non avendo la società provato i presupposti di fatto posti a base della suddetta graduatoria (mansioni prevalenti, contratto applicato ecc.), pur avendo uno specifico onere probatorio, la censura non poteva trovare accoglimento.

Non risultando l’iter argomentativo della Corte territoriale affetto dalle violazioni e dai vizi denunciati, il ricorso va rigettato.

Le spese del presente giudizio, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alle spese di questo giudizio, liquidate in Euro oltre Euro 2.500,00 per onorari ed oltre spese generali, IVA e CPA. Così deciso in Roma, il 16 novembre 2011.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.