Cassazione, Sez. II, 17 maggio 2010, n. 12045 La costituzione per donazione, in favore del coniuge separato affidatario, del diritto di usufrutto a vita sulla casa familiare è soggetta all’azione revocatoria?

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Svolgimento del processo

1. – La Banca di credito cooperativo X convenne in giudizio, dinanzi al Tribunale di Napoli, F.R., D. I., D.P. e D.E., per sentire dichiarare l’inefficacia della donazione effettuata da D.E., con atto per notar C. del omissis, trascritto il omissis, del diritto di usufrutto e della nuda proprietà della quota di sua proprietà dell’appartamento sito in omissis, rispettivamente in favore della F., sua moglie, e degli altri due convenuti, suoi figli.

Dedusse in proposito di essere cessionaria, con atto per notar D.V. del omissis, delle attività e passività della Cassa rurale Y, posta in liquidazione coatta amministrativa con decreto del Ministro del tesoro del omissis, e creditrice di D.E. per la somma di L. 46.311.296, di cui L. 28.405.608 in virtù di decreto ingiuntivo del presidente del Tribunale di Benevento ed il residuo in virtù di cambiali scadute e protestate, oltre interessi e spese, e che l’atto di cessione richiamato arrecava grave pregiudizio ad essa istante, impedendole l’espropriazione del bene ed il soddisfacimento del suo credito.

I convenuti si costituirono (D.E. solo in sede di precisazione delle conclusioni), chiedendo il rigetto della domanda.

Con sentenza n. 14987 del 3 dicembre 2001, il Tribunale adito dichiarò l’inefficacia, nei confronti dell’attrice, della donazione.

2. – La Corte d’appello di Napoli, con sentenza n. 2627 resa pubblica mediante deposito in cancelleria il 31 agosto 2004, ha rigettato il gravame di F.R. e di D.I. e P..

2.1. – Esaminando il motivo con cui gli appellanti si dolevano della violazione del principio del contraddittorio, realizzata all’udienza del 12 ottobre 1993, alla quale i convenuti non parteciparono, in considerazione del diverso rinvio in prosieguo disposto per il 12 ottobre 1994, udienza durante la quale non fu trovato il fascicolo d’ufficio, la Corte l’ha respinto, osservando: che il contraddittorio è stato pienamente ricostituito tra le parti, con ordinanza collegiale del 5 aprile 1996, disponendosi, anche a seguito di un’istanza dei convenuti del 13 ottobre 1994, il rinvio dinanzi al giudice istruttore per l’udienza del 3 ottobre 1996; che a questa udienza i convenuti (tranne D.E., non ancora costituito) si sono limitati ad impugnare genericamente la documentazione prodotta da controparte, solo successivamente affiancando contestazione di identico contenuto a quelle mosse dal donante, nel frattempo costituito.

Nel merito, la Corte territoriale ha ritenuto sussistenti i presupposti dell’azione revocatoria, rilevando: che la irrevocabilità della donazione in favore dei figli non poteva farsi derivare dai pretesi inadempimenti del padre nel versamento dell’assegno di mantenimento e degli altri esborsi, ai quali egli era tenuto ; che la datio in solutum, come mezzo anormale di pagamento, non può essere ricompresa nella categoria dell’adempimento di un debito scaduto ed è soggetta anch’essa all’azione revocatoria; che il decreto ingiuntivo invocato a sostegno dell’azione revocatoria, nonostante l’opposizione ancora in corso, da conto della esistenza del credito della Cassa, nella nozione lata accolta dalla giurisprudenza in tema di azione revocatoria ordinaria.

3. – Per la cassazione della sentenza della Corte d’appello la F. e i fratelli D. hanno proposto ricorso, con atto notificato l’11 gennaio 2005, sulla base di sette motivi.

La Banca di Credito cooperativo X ha resistito con controricorso.

Nessuna attività difensiva ha svolto in questa sede D.E..

Motivi della decisione

1. – Con il primo motivo i ricorrenti lamentano che la Corte di merito non abbia ravvisato l’intervenuta violazione del principio del contraddittorio nel corso del processo di primo grado per inosservanza della comunicazione dell’ordinanza emessa fuori udienza (art. 170 cod. proc. civ.). L’irregolarità verificatasi avrebbe precluso lo svolgimento di ogni attività istruttoria da parte dei convenuti già costituitisi in giudizio, impedendo loro di impugnare adeguatamente i documenti prodotti in giudizio dall’attrice, tra i quali una semplice fotocopia, priva dell’indispensabile visto di conformità, del decreto ingiuntivo emesso dal presidente del Tribunale di Benevento, quale prova della posizione debitoria del convenuto D.E..

1.1. – Il motivo è infondato.

È esatto che, nel corso del giudizio di primo grado dinanzi al Tribunale di Napoli, la causa, rinviata con ordinanza fuori udienza del 2 aprile 1993 al 12 ottobre 1994, fu invece chiamata all’udienza del 12 ottobre 2003 – nella quale comparve solo l’avvocato dell’attrice, che produsse documenti – e rinviata per la precisazione delle conclusioni al 10 marzo 2004.

Sennonché, all’udienza collegiale del 5 aprile 1996, il Tribunale, su istanza dell’avvocato dei convenuti, dispose la rimessione della causa in istruttoria al fine del normale e regolare svolgimento del processo e della ricostituzione del contraddittorio, cosi consentendo ai convenuti di esercitare tutte le facoltà difensive, ivi comprese l’indicazione dei mezzi di prova, la produzione di documenti e la contestazione dei documenti prodotti ex adverso; esaurita la fase istruttoria nel contraddittorio tra le parti, la causa tornò nuovamente in conclusioni (udienza alla quale si costituì D.E.) per essere poi rimessa al collegio.

È evidente, pertanto, che, con la rimessione della causa in trattazione e con la reintegrazione delle facoltà dei convenuti di articolare mezzi di prova, di effettuare produzione documentali e di replicare alle deduzioni e alle produzioni della controparte, il Tribunale ha emanato un provvedimento che ha rimediato al vizio derivante dalla trattazione dell’udienza, senza la partecipazione di tutte le parti, in una data anteriore a quella alla quale il processo era stato rinviato, così consentendo al processo, rinnovato nella sua scansione e restituito alla sua capacità funzionale, di proseguire verso la sua naturale meta nel pieno rispetto del principio del contraddittorio.

2. – Con il secondo mezzo (violazione e falsa applicazione dell’art. 2112 cod. civ.) ci si duole che la sentenza d’appello non abbia tenuto conto dell’impugnativa e del disconoscimento, ad opera dei ricorrenti, della conformità della riproduzione fotografica del decreto ingiuntivo posto dall’attrice a dimostrazione della propria ragione creditoria.

2.1. – Il motivo è inammissibile perché, in violazione del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, omette di indicare, adeguatamente e specificamente, in quale atto del giudizio di merito e in qual modo i convenuti procedettero al disconoscimento della conformità della copia del decreto ingiuntivo all’originale.

3. – Il terzo motivo (mancanza dei requisiti soggettivi dell’azione) deduce che erroneamente la Corte di merito non ha considerato che la Cassa non poteva considerarsi creditrice del D., dal momento che l’ingiunzione era stata opposta e che il D. stesso aveva in precedenza proposto un separato giudizio per veder riconosciuto ed accertato un proprio credito per oltre L. 210.000.000, vantato nei confronti della Cassa.

3.1. – Il motivo è infondato, per la parte in cui non è inammissibile.

Poiché anche il credito eventuale, in veste di credito litigioso, è idoneo a determinare l’insorgere della qualità di creditore che abilita all’esperimento dell’azione revocatoria avverso l’atto di disposizione compiuto dal debitore, nel giudizio ex art. 2901 cod. civ., è sufficiente al creditore procedente l’allegazione di un decreto ingiuntivo ottenuto nei confronti del preteso debitore per dimostrare la titolarità di un credito meritevole di tutela, in quanto già esaminato e ritenuto provato in sede monitoria, sicché la pendenza del giudizio di opposizione ai sensi dell’art. 645 cod. proc. civ., avverso detto decreto non osta alla declaratoria di inefficacia dell’atto pregiudizievole alle ragioni del creditore (Cass., Sez. Un., 18 maggio 2004, n. 9440; Cass., Sez. I, 13 luglio 2005, n. 14709; Cass., Sez. II, 1 giugno 2007, n. 12849; Cass., Sez. III, 27 gennaio 2009, n. 1968).

Quanto, poi, alla doglianza secondo cui il giudice del gravame non avrebbe tenuto conto di un controcredito vantato dal D. nei confronti della Banca, si tratta di censura che non può trovare ingresso in questa sede, perché i ricorrenti, ancora una volta in violazione del principio di autosufficienza, non indicano in materia circostanziata quali risultanze processuali dimostrerebbero che detto elemento di fatto sia stato allegato e provato nel corso delle pregresse fasi di merito.

4. – Con il quarto mezzo i ricorrenti lamentano che la Corte partenopea abbia omesso di rilevare la mancanza del presupposto oggettivo per l’azione revocatoria, giacché il bene di cui è causa sarebbe stato assegnato in usufrutto alla F. sin dal omissis, in sede di separazione consensuale dei coniugi, e la donazione impugnata dalla Cassa aveva costituito unicamente l’occasione per dare veste formale e solenne alla cessione di quel diritto, già precedentemente avvenuta con l’omologazione della separazione dei coniugi.

Con il quinto motivo (violazione e falsa applicazione dell’art. 2034 cod. civ.) i ricorrenti lamentano che la Corte d’appello abbia rigettato le loro deduzioni in ordine alla natura remuneratoria della donazione della nuda proprietà ai figli, in relazione al fatto che il D., che non aveva adempiuto l’obbligo di mantenimento, aveva inteso cosi compensare tali omissioni.

Il sesto motivo lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 2901 cod. civ., per non avere la Corte di merito considerato che la donazione costituiva adempimento di un debito scaduto del D. nei confronti dei donatari, come tale irrevocabile.

4.1. – I tre motivi – i quali, stante la loro connessione, possono essere esaminati congiuntamente – sono privi di fondamento.

La Corte d’appello, interpretando il verbale di separazione consensuale omologata, ha accertato che, con la concordata assegnazione alla moglie, affidataria dei figli, della casa coniugale, era stata costituito in suo favore un diritto personale di godimento. Ora, posto che l’interpretazione di una convenzione, per ricavarne quale sia l’oggetto, costituisce un’attività riservata al giudice di merito, ed è censurabile in sede di legittimità soltanto per violazione dei criteri legali di ermeneutica contrattuale ovvero per vizi di motivazione, qualora la stessa risulti contraria a logica o incongrua, cioè tale da non consentire il controllo del procedimento logico seguito per giungere alla decisione (tra le tante, Cass., Sez. I, 22 febbraio 2007, n. 4178); l’allegazione dei ricorrenti, secondo cui già con tale assegnazione sarebbe stato concesso alla moglie, non soltanto l’uso esclusivamente personale dell’immobile al fine della soddisfazione dell’esigenza abitativa familiare, ma anche la possibilità di utilizzarlo in maniera diversa, mediante la costituzione di diritti in favore di terzi, è prospettata senza la deduzione di quali canoni ermeneutici sarebbero stati violati dal giudice di merito e senza la precisa indicazione delle lacune argomentative, ovvero delle illogicità di cui sarebbe affetto il ragionamento svolto dal giudice di merito. Inoltre, il motivo non riporta il testo integrale degli accordi intervenuti in sede di separazione consensuale omologata.

Tanto premesso, la sentenza impugnata resiste alle censure articolate con il motivo.

Invero, una volta che in sede di separazione personale sia stato attribuito ad uno dei coniugi, tenendo conto dell’interesse dei figli, il diritto personale di godimento sulla casa familiare, la successiva costituzione per donazione, in favore del medesimo coniuge affidatario, del diritto di usufrutto vita natural durante sul medesimo immobile, compiuta dall’altro coniuge, costituisce un atto avente funzione dispositiva e contenuto patrimoniale, soggetto all’azione revocatoria ai sensi dell’art. 2901 cod. civ..

Infatti, la costituzione dell’usufrutto non ha il connotato della doverosità proprio dell’adempimento (c.d. atto dovuto o atto giuridico in senso stretto) – che giustificherebbe l’esclusione della revocatoria, ai sensi del terzo comma dell’articolo citato – ma si fonda sulla libera determinazione del coniuge debitore, il quale, attraverso la concessione di siffatto diritto reale, per la durata della vita del beneficiario, su un bene di sua proprietà in precedenza gravato da un diritto personale di godimento in favore del medesimo cessionario, da luogo alla modifica del suo patrimonio, con rischio di riduzione della garanzia generale spettante ai creditori.

Lo stesso dicasi in ordine al negozio con cui il D. donò ai figli I. e P. la nuda proprietà del medesimo immobile, che i ricorrenti vorrebbero vedere sottratto all’ambito oggettivo di operatività dell’azione revocatoria in ragione della (asserita) pregressa esposizione debitoria nei confronti dei medesimi donatari per il mancato versamento del contributo di mantenimento.

Non giova ai ricorrenti la prospettata qualificazione di tale atto come datio in solutum o come donazione remuneratoria.

Sotto il primo profilo, è da porre in rilievo la precisazione contenuta nella Relazione del Ministro guardasigilli al codice civile (n. 1182), nel senso che il recepimento legislativo del principio della non assoggettabilità a revoca dell’“adempimento in senso tecnico”, non esclude “la possibilità di impugnare con la azione revocatoria … la datio in solutum … se sussistono tutte le condizioni richieste dalla legge”.

E le ragioni di siffatta limitazione dell’ambito di operatività del disposto di cui al terzo comma dell’art. 2901 cod. civ., sono, del resto, di intuitiva evidenza. L’adempimento del debito scaduto, infatti, quando sia normale e cioè sia realizzato secondo i termini temporali e di prestazione d’oggetto prestabiliti, si presenta quale atto dovuto, cosicché lo stesso carattere obbligato assumono anche gli atti dispositivi del patrimonio del debitore legati da un rapporto di stretta ed indispensabile inerenza strumentale con quello di soddisfacimento del debito. Quando invece l’estinzione del debito avviene attraverso una datio in solutum, è innegabile l’intervento di una scelta volitiva, da parte del debitore in accordo con il creditore, intervento sufficiente ad escludere ogni carattere di “atto dovuto” dal meccanismo negoziale prescelto (cfr. Cass., Sez. I, 21 dicembre 1990, n. 12123).

Sotto l’altro profilo, è da ricordare che anche la donazione remuneratoria rientra tra gli atti di disposizione del patrimonio del debitore, soggetti a revoca ai sensi dell’art. 2901 cod. civ. (Cass., Sez. I, 9 giugno 1965, n. 624).

5. – Con il settimo motivo (mancanza dei requisiti soggettivi dell’azione revocatoria) si lamenta che la Corte territoriale non abbia preso in considerazione la buona fede dei donatari, confermata dal fatto che la trascrizione dell’atto era avvenuta solo a distanza di circa un mese dalla stipulazione, il che dimostrerebbe che la donazione non era preordinata a creare pregiudizio alla Cassa.

5.1. – Il motivo è infondato, perché per l’azione revocatoria di atti a titolo gratuito non occorre che il pregiudizio arrecato alle ragioni del creditore sia conosciuto, oltre che dal debitore, anche dal terzo beneficiario, il quale ha comunque acquisito un vantaggio senza un corrispondente sacrificio e ben può vedere il proprio interesse posposto a quello del creditore (Cass., Sez. III, 3 marzo 2009, n. 5072).

6. – Il ricorso è rigettato.

Le spese di lite, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna, i ricorrenti, in solido tra loro, al rimborso delle spese processuali sostenute dalla contro ricorrente, liquidate in complessivi Euro 1.700,00 di cui Euro 1.500,00 per onorari, oltre a spese generali ed accessori di legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 15-12-2010) 21-01-2011, n. 1874

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Svolgimento del processo e motivi della decisione

1. Provvedimento impugnato e motivi del ricorso – Con la sentenza impugnata, la Corte d’appello ha confermato la condanna inflitta a P.S. ritenuto responsabile di avere violato l’art. 81 cpv. c.p. e D.Lgs. n. 22 del 1997, artt. 14 e 28 e art. 51, commi 1 e 2/b per avere, in qualità di legale rappresentante della ditta omonima, esercitato attività non autorizzate d autodemolizione e di smaltimento di rifiuti speciali pericolosi, in assenza di prescritta autorizzazione, nonchè abbandonato rifiuti in modo incontrollato, quali pneumatici, carcasse di una betoniera, parti di auto, fusti di oli lubrificanti, senza prevenire ed evitare percolamenti e sversamenti degli oli stessi con contaminazione del terreno in misura pari a 30300 mg/kg.

Nell’adottare tale decisione, tuttavia, la Corte ha revocato le statuizioni civili avendo ritenuto di escludere la ricorrenza di un danno ambientale vantato dalla Provincia costituitasi parte civile.

Avverso tale decisione, la Provincia di Firenze ha proposto ricorso, tramite l’avvocatura provinciale, deducendo:

1) contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione (art. 606 c.p.p., lett. e)) nella parte in cui vengono revocate le statuizioni civili. In primo luogo si fa notare che la Corte pur dichiarando l’infondatezza dell’appello dell’imputato, di fatto, lo ha parzialmente accolto nel momento in cui ha revocato le statuizioni civili. Inoltre, nella stessa motivazione si afferma per certa l’esistenza di un "percolamento con inquinamento del terreno .. (e) superamento dei limiti tollerabili come accertato dalle analisi dell’ARPAT. La Corte ha, inoltre respinto l’appello dell’imputato sottolineando come sia dato pacifico anche in giurisprudenza che quello dei rifiuti degli autoveicoli fuori uso costituisce smaltimento di rifiuti speciali sì che, per i rinvenimenti sul luogo, si era in presenza di un esercizio reiterato di attività di autodemolizioni.

Nonostante, ciò, la Corte ha, poi, ritenuto l’assenza di un danno da percolamento di oli esausti nel terreno" e che "la creazione di una discarica di rottami ferrosi… stante la modesta dimensione e la facilità di rimozione è in suscettibile di arrecare un danno all’ambiente".

Di qui l’evidente contraddittorietà della motivazione che contrasta anche con i dati emersi in dibattimento a seguito delle dichiarazioni del teste C. dipendente dell’Arpa Tosacana.

Il ricorrente critica anche l’assunto della Corte secondo cui il danno per la parte civile non può farsi consistere – come ritenuto nella sentenza di primo grado – in una lesione del prestigio della istituzione pubblica.

Sostiene il ricorrente che il danno ambientale, da inosservanza delle disposizioni in materia di rifiuti, è un danno proprio dell’Ente in quanto soggetto pubblico rappresentativo dell’intera collettività. A tal fine si cita una decisione di questa S.C. (sez. 3^, 30.9.08, n. 41828) secondo cui ai fini del risarcimento del danno ambientale, non è necessario che l’ambiente venga in tutto o in parte alterato, deteriorato o distrutto.

Il ricorrente conclude invocando l’annullamento della sentenza impugnata.

2. Motivi della decisione. Il ricorso è fondato.

Come bene evidenzia il ricorrente, la motivazione su cui si fonda la decisione impugnata è contraddittoria. Essa, infatti, da per acquisito che, secondo quanto accertato dalle analisi dei tecnici dell’ARPA della Toscana, a seguito delle attività poste in essere dal P., si era verificato un "percolamelo con inquinamento del terreno .. (e) ampio superamento dei limiti tollerabili". Inoltre, si afferma testualmente in sentenza, che "come ampiamente dimostrato dalla deposizione dei testimoni, si è in presenza di un esercizio reiterato di attività di autodemolizioni… e di abbandono incontrollato in discarica abusiva di una carcassa di autoveicolo".

Ricorre, pertanto, una palese incompatibilità tra l’informazione esistente negli atti processuali – di cui viene anche dato atto – e la successiva affermazione posta alla base del provvedimento impugnato secondo cui vi sarebbe "assenza di un danno da percolamento di olii esausti nel terreno" e, per di più, la "modesta dimensione e la facilità di rimozione" della discarica di rottami ferrosi sarebbe "insuscettibile di creare danno all’ambiente". Ciò, sul piano logico e documentale, da senz’altro luogo ad una situazione di contraddittorietà motivazionale cosi come enucleata dalla L. n. 46 del 2006 (come motivo autonomo e non più come una spetto dell’illogicità) (Sez. 3^, 21.11.08, Campanella, 243247).

L’erroneità dell’argomentare è, poi accentuata dall’ulteriore affermazione secondo cui il danno all’ambiente non può essere ravvisato nella lesione al prestigio della istituzione pubblica.

L’assunto è smentito anche da recente decisione di questa S.C. (opportunamente richiamata dal ricorrente) secondo cui "In tema di reati ambientali, ai fini dell’integrazione del fatto illecito quale fonte dell’obbligo di risarcimento del danno cosiddetto "ambientale", non è necessario che l’ambiente venga in tutto o in parte alterato, deteriorato o distrutto, essendo sufficiente una condotta, sia pure soltanto colposa, in violazione di disposizioni di legge o di provvedimenti legittimamente adottati" (sez. 3^, 30.9.08, Petri, rv.

241502).

E che la violazione vi sia, pacificamente, stata è la stessa Corte a ricordarlo quando afferma che "la presenza di rottami ferrosi di ogni genere, di parti di veicoli, di pneumatici usati, di bidoni per la raccolta degli olii industriali esausti, denunciano chiaramente l’attività di autodemolizione, (come in effetti è stata sorpresa in atto dai Vigili del Fuoco e dai Carabinieri)".

La motivazione in esame, dunque, nella parte in cui esclude il diritto al risarcimento della parte civile, presta il fianco a più di una censura e merita un nuovo esame sul punto imponendo, in questa sede, una decisione di annullamento con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Firenze.

P.Q.M.

Visti gli artt. 615 e ss. c.p.p.;

annulla la sentenza impugnata, limitatamente alle statuizioni civili, con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Firenze.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. I, Sent., 14-03-2011, n. 5982 Diritti politici e civili

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. – Con decreto del 3 gennaio 2007, la Corte d’Appello di Roma ha accolto la domanda di equa riparazione proposta da L.C. nei confronti del Ministero della Giustizia per a violazione del termine di ragionevole durata del processo, verificatasi in un giudizio dinanzi al Tribunale di Nola, promosso dalla L. nei confronti del Ministero dell’Interno per il riconoscimento del diritto alla pensione di invalidità civile.

Premesso che il giudizio, iniziato nel 2001, non era ancora stato definito in primo grado, la Corte, per quanto ancora rileva in questa sede, ne ha determinato la ragionevole durata in due anni e sei mesi, avuto riguardo alla complessità del procedimento, e, tenuto conto dei parametri adottati dalla Corte Europeo dei Diritti dell’Uomo, nonchè dello stress e del patema d’animo sofferti dalla ricorrente, ha liquidato il danno non patrimoniale in Euro 2.600,00, corrispondenti ad Euro 1.200,00 per ogni anno di ritardo.

2. Avverso il predetto decreto la L. propone ricorso per cassazione, articolato in tredici motivi. Il Ministero resiste con controricorso.
Motivi della decisione

1. – Con il primo, il terzo ed il quarto motivo d’impugnazione, il ricorrente denuncia la violazione e la falsa applicazione della L. 24 marzo 2001, n. 89 e dell’art. 6, par. 1, della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo, nonchè l’omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso, censurando il decreto impugnato nella parte in cui ha riconosciuto l’indennizzo soltanto per il periodo di tempo eccedente la ragionevole durata del processo, anzichè per l’intera durata del giudizio presupposto, astenendosi dal disapplicare le norme interne contrastanti con la Convenzione e contravvenendo ai principi enunciati dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.

1.1. – I motivi sono infondati.

Ai sensi della L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 3, lett. a), infatti, l’indennizzo per la violazione del termine di ragionevole durata del processo non dev’essere correlato alla durata dell’intero processo, ma al solo segmento temporale eccedente la durata ragionevole della vicenda processuale presupposta, che risulti in punto di fatto ingiustificato o irragionevole, tale criterio di calcolo appare non solo conforme al principio enunciato dall’art. 111 Cost., il quale prevede che il giusto processo abbia comunque una durata connaturata alle sue caratteristiche concrete e peculiari, seppure contenuta entro il limite della ragionevolezza, ma, come riconosciuto dalla stessa Corte EDU nella sentenza 27 marzo 2003, resa sul ricorso n. 36813/97, non si pone neppure in contrasto con l’art. 6, par. 1, della CEDU, in quanto non esclude la complessiva attitudine della L. n. 89 del 2001 a garantire un serio ristoro per la lesione del diritto in questione (cfr. Cass. Sez. 1, 23 novembre 2010, n. 23654:

14 febbraio 2008, n. 3716).

2. – E’ parimenti infondato il secondo motivo d’impugnazione, con cui il ricorrente denuncia la violazione dell’art. 6, par. 1, della CEDU censurando il decreto impugnato nella parte in cui ha determinato in due anni e sei mesi la durata ragionevole del processo, omettendo di tener conto delle esigenze di celerità connesse alla trattazione dei procedimenti in materia previdenziale, che hanno indotto la giurisprudenza a determinarne la durata ragionevole in due anni per il primo grado.

2.1. – Nella determinazione della ragionevole durata del processo, la Corte d’Appello si è intatti attenuta ai criteri cronologici elaborati dalla Corte EDU, alle cui sentenze, riguardanti l’interpretazione dell’art. 6, par. 1, della CEDU deve peraltro riconoscersi, secondo l’orientamento ormai consolidato di questa Corte, soltanto il valore di precedente, non rinvenendosi nel quadro delle fonti dell’ordinamento interno meccanismi normativi che ne comportino la diretta vincolatività per il giudice italiano (cfr.

Cass. Sez. 1^, 19 novembre 2009, n. 24399: 11 luglio 2006, n. 15750).

La natura previdenziale della causa non è d’altronde sufficiente a giustificare l’applicazione di un termine ridotto di durata, in quanto la disciplina del processo del lavoro, applicabile a tali controversie, non comporta forme di organizzazione diverse, tali da differenziarne il corso in relazione all’oggetto del giudizio, e non impone quindi di fare riferimento a parametri diversi dagli standards comuni elaborati dalla Corte EDU e recepiti dalla L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2, (cfr. Cass. Sez. 1, 30 ottobre 2009, n. 23047: 24 settembre 2009, n. 20546).

3. Sono altresì infondati il quinto, il sesto ed il settimo motivo, con cui il ricorrente deduce la violazione e la falsa applicazione dell’art. 112 cod. proc. civ. nonchè l’omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso, rilevando che la Corte d’Appello ha omesso di pronunciare in ordine alla domanda di riconoscimento del limite di Euro 2.000,00 dovuto in relazione alla natura del giudizio presupposto, avente ad oggetto un credito previdenziale, senza fornire alcuna motivazione.

3.1. – L’inclusione delle cause di lavoro e di quelle previdenziali nel novero di quelle per le quali la Corte EDU ha ritenuto che la violazione del termine di ragionevole durata possa giustificare il riconoscimento di un importo forfetario aggiuntivo, in ragione della particolare importanza della controversia, non significa infatti che delle cause debbano necessariamente considerarsi particolarmente importanti, con la conseguente automatica liquidazione dei predetto maggior indennizzo. Ne consegue da un lato che il giudice di merito può tener conto della particolare incidenza del ritardo sulla situazione delle parti, che la natura giuslavoristica della controversia comporta, nell’ambito della valutazione concernente la liquidazione del danno, senza che ciò componi uno specifico obbligo di motivazione al riguardo, nel senso che il mancato riconoscimento del maggior indennizzo si traduce nell’implicita esclusione della particolare rilevanza della controversia (cfr. Cass., Sez. 1^, 3 dicembre 2009, n. 25446: 29 luglio 2009, n. 17684): dall’altro che, ove sia stato negato il riconoscimento di tale pregiudizio, la critica della decisione sul punto non può fondarsi sulla mera affermazione che il bonus in questione spetta ratione materiae, era stato richiesto e la decisione negativa non e stata motivata, ma deve avere riguardo alle concrete allegazioni ed alle prove addotte nel giudizio di merito, che nella specie non sono state in alcun modo richiamate (cfr. Cass. Sez. 1^, 28 gennaio 2010, n. 1893; 28 ottobre 2009, n. 22869).

4. – Con l’ottavo motivo, il ricorrente deduce la violazione e la falsa applicazione dell’art. 6, par. 1, della CEDU e dell’art. 1 del relativo protocollo aggiuntivo, censurando il decreto impugnato nella parte in cui ha liquidato le spese processuali in misura insufficiente rispetto agli standards europei.

4.1. la censura è infondata.

Nei giudizi di equa riparazione promossi ai sensi della L. n. 89 del 2001, che si svolgono dinanzi al giudice italiano secondo le disposizioni processuali dettate dal codice di rito, la liquidazione delle spese processuali deve essere infatti effettuata applicando le tariffe professionali vigenti nell’ordinamento italiano, e non già in base agli onorari liquidati dalla Corte EDU i quali attengono esclusivamente al regime del procedimento che si svolge dinanzi alla Corte di Strasburgo, dal momento che la liquidazione del compenso per attività professionale prestata dinanzi ai giudici dello Stato deve aver luogo secondo le norme che disciplinano la professione legale davanti alle corti ed ai tribunali di quello Stato (cfr. Cass. Sez. 1^, 11 settembre 2008, n. 23397).

5. – Sono invece parzialmente fondati i motivi dal nono al tredicesimo, con cui il ricorrente deduce la violazione e la falsa applicazione degli artt. 91 e 92 cod. proc. civ. e della L. 13 giugno 1942, n. 794, art. 24, nonchè l’omessa, insufficiente o incongrua motivazione circa un punto decisivo della controversia, sostenendo che la Corte d’Appello, senza fornire un’adeguata motivazione e discostandosi dalla nota specifica da lui depositata, ha liquidato le spese processuali in misura non conforme alle tariffe professionali vigenti ed alla natura del procedimento, il quale, pur svolgendosi nelle forme del rito camerale, non costituisce espressione di volontaria giurisdizione ma ha carattere contenzioso.

5.1. Benvero, dalla motivazione del decreto impugnato non risulta in alcun modo che, come sostiene il ricorrente, la liquidazione delle spese abbia avuto luogo secondo la tariffa vigente per i procedimenti in camera di consiglio, anzichè in base a quella relativa ai procedimenti contenziosi, la cui applicabilità discende dalla natura della controversia, riguardante contrapposte posizioni di diritto soggettivo e destinata a chiudersi con un provvedimento pronunziato nel pieno contraddittorio delle parti ed avente natura sostanziale di sentenza (cfr. Cass. Sez. 1^, 7 ottobre 2009, n. 21371; 17 ottobre 2008, n. 25352). Il ricorrente, inoltre, pur dolendosi del mancato riconoscimento delle prestazioni indicate nella nota specifica asseritamene depositata nel giudizio dinanzi alla Corte d’Appello, si è astenuto dal riportarne il contenuto nel ricorso, limitandosi ad includervi alcune tabelle estratte dalla tariffa professionale, la cui trascrizione non appare sufficiente a consentire a questa Corte la necessaria verifica in ordine alla denunciata violazione, in mancanza di una specifica indicazione delle voci e degl’importi di cui si contesta l’omessa liquidazione (cfr. Cass. Sez. 3^, 19 aprile 2006, n. 9082; Cass. Sez. 1^, 16 marzo 2000, n. 3040).

Nondimeno, occorre rilevare che la Corte d’Appello, nel condannare il Ministero al pagamento delle spese processuali, si è limitata ad attribuire al ricorrente la somma di Euro 900,00 complessivamente determinata, senza distinguere, nell’ambito della stessa, gl’importi dovuti rispettivamente per onorario e per diritti. Tale modalità di liquidazione rende di per sè illegittima la pronuncia sulle spese, non consentendo alla parte interessata ed al giudice dell’impugnazione di verificare l’avvenuto rispetto dei minimi inderogabili previsti dalla tariffa professionale, alla cui osservanza il giudice è tenuto anche in caso di mancato deposito della nota specifica (cfr. Cass. Sez. 5^, 10 marzo 2008, n. 6338:

Cass. Sez. 3^, 8 marzo 2007, n. 5318).

6. – Il decreto impugnato va pertanto cassato, limitatamente alla parte concernente la liquidazione delle spese processuali, e, non risultando necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito, ai sensi dell’art. 384, comma 2, mediante una nuova liquidazione delle spese, che segue come dal dispositivo, con attribuzione al procuratore dichiaratosi anticipatario.

7. – Il limitato accoglimento dell’impugnazione giustifica la parziale compensazione delle spese relative al giudizio di legittimità, che per il residuo vanno poste a carico della Presidenza del Consiglio dei Ministri, e si liquidano per l’intero come dal dispositivo, con attribuzione al procuratore anticipatario.
P.Q.M.

LA CORTE accoglie il ricorso nei termini di cui in motivazione, cassa il decreto impugnato e, decidendo nel merito, condanna il Ministero della Giustizia a corrispondere a L.C. le spese del giudizio di merito, che si liquidano in complessivi Euro 911,00, ivi compresi Euro 550,00 per onorario, Euro 311,00 per diritti ed Euro 50,00 per esborsi, oltre alle spese generali ed agli accessori di legge, con distrazione in favore dell’Avv. Alfonso Luigi Marra, antistatario; condanna il Ministero della Giustizia al pagamento di un terzo delle spese dei giudizio di legittimità, che si liquidano per l’intero in complessivi Euro 600,00, ivi compresi Euro 500,00 per onorario ed Euro 100,00 per esborsi, oltre alle spese generali ed agli accessori di legge, con distrazione in favore dell’avv. Alfonso Luigi Marra, antistatario, dichiarando compensati tra le parti i residui due terzi.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

T.A.R. Lazio Latina Sez. I, Sent., 22-02-2011, n. 177 Annullamento dell’atto in sede giurisdizionale

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con ricorso notificato il 23.10.2001, tempestivamente depositato, sig. C.T. ha impugnato il provvedimento 29.3.2001, n. 5478, con cui il Comandante della Capitaneria di Porto di Gaeta ha disposto la revoca della sospensione inerente al provvedimento ingiuntivo prot. 3363 del 31.3.1999, denunciandone l’illegittimità: 1) per violazione degli artt. 3 e 7 della L. 7.8.1990, n. 241, nonché per eccesso di potere sotto vari profili, essendo stata di fatto preclusa all’istante ogni reale possibilità d’interlocuzione endoprocedimentale; 2) violazione di legge ed eccesso di potere, incompetenza, tenuto conto che l’area in contestazione sarebbe solo formalmente demaniale, avendo l’Autorità marittima intrapreso il procedimento di "classifica"; 3) eccesso di potere per carenza dei presupposti.

L’Amministrazione intimata si è costituita in giudizio, resistendo all’impugnativa.

In occasione della camera di consiglio dell’8.11.2001 la Sezione accoglieva la proposta domanda incidentale.

Successivamente, all’udienza del 27.1.2011, la causa è stata trattenuta a sentenza.
Motivi della decisione

Con il ricorso indicato in epigrafe l’istante, allegando di essere nel possesso da oltre quarant’anni di un’area sita in Formia, località Torre di Mola, della superficie complessiva di m.q. 141 riportata in catasto terreni al fg 21, particella 1562, ha chiesto l’annullamento del provvedimento, adottato dal Comandante della Capitaneria di Porto di Gaeta, con il quale è stata disposta la revoca del provvedimento di sospensione relativo alla citata ingiunzione n. 3363/99.

Con il primo motivo di impugnazione il ricorrente lamenta il difetto di istruttoria, assumendo che la mancata partecipazione al procedimento avrebbe precluso la possibilità per l’Amministrazione, di vagliare soluzioni alternative scaturenti dal contraddittorio procedimentale.

Detto ordine d’idee deve essere pienamente condiviso.

Osserva, al riguardo, il Collegio che, alla stregua di una risalente giurisprudenza del Consiglio di Stato, che la Sezione integralmente condivide, la comunicazione dell’inizio del procedimento deve essere inviata in tempo utile al soggetto interessato, così da permettergli di presentare le proprie osservazioni in una fase tuttora preparatoria, nella quale, cioè, siano potenzialmente aperte tutte le possibile opzioni: e ciò proprio al fine di evitare che l’intervento spiegato assolva un ruolo pressoché esclusivamente formale senza alcuna reale incidenza sia sull’eventuale istruttoria da espletare sia sull’individuazione degli interessi pubblici e privati coinvolti sia, infine, sulla loro finale graduazione da parte della procedente Autorità per il perseguimento del poziore interesse pubblico (Cons. Stato Sez. V 5.6.1997, n. 603; 2.2.1996, n. 132).

L’omessa comunicazione d’avvio del procedimento preordinato all’eventuale annullamento è rilevante nella specie per il fatto, direttamente incidente sul piano della dialettica procedimentale, che l’istante si era immediatamente attivato, richiedendo all’amministrazione intimata il rilascio di un titolo finalizzato alla detenzione dell’area, peraltro detenuta dal ricorrente da alcuni decenni.

Deve conseguentemente affermarsi che, alla stregua di quanto affermato dalla Corte Costituzionale con la sentenza 25.10.2000, n. 437, citata in memoria dalla ricorrente, sia rimasta nella specie frustrata nella svolta procedura di secondo grado davanti alla Amministrazione marittima la possibilità di un’effettiva fase istruttoria nel corso della quale l’interessato potesse interloquire con la procedente Amministrazione marittima, produrre se del caso ulteriore documentazione a supporto delle proprie ragioni.

In tal senso, del resto, si è costantemente mossa la giurisprudenza del Consiglio di Stato che ha reiteratamente posto in evidenza la necessità che gli interessati siano in grado di contraddire all’interno del procedimento amministrativo, fermo l’obbligo della Amministrazione di meditata valutazione di tutti i contributi a tal fine presentati (cfr. Sez. VI 29.2.2002, n. 2983; Ad. plen. 15.9.1999, n. 14), chiarendo ulteriormente che l’omissione del prescritto avviso coincide senza riserve con la sua tardiva comunicazione: anche in questo caso, infatti, l’assolvimento dell’obbligo ha rilievo soltanto formale, restando privo di effetti sul piano della dialettica endoprocedimentale.

La dedotta censura è dunque fondata e la violazione del generalissimo principio del partecipazione procedimentale da parte della Capitaneria di Porto di Gaeta

In conclusione il ricorso deve essere accolto con il conseguente annullamento degli atti citati in epigrafe.

Sussistono giusti motivi per compensare integralmente tra le parti le spese di lite.
P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio sezione staccata di Latina (Sezione Prima) definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie e per l’effetto annulla l’atto di revoca impugnato.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.